Di Marina Lapuente, da Nuevo Rumbo, organo del Partito Comunista dei Lavoratori di Spagna (PCTE)
26 giugno 2025
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Cresciamo, sì. Ma tu, che due ore prima del turno indossi la divisa per arrivare in tempo all’officina o al magazzino, non hai notato granché. Né tu, che vai in ufficio tutte le mattine; o che contribuisci a far funzionare l’ospedale o la scuola; o tu, che salti da un lavoro temporaneo all’altro. L’economia cresce, ma non si traduce in molto per chi mette in moto i vagoni di quella locomotiva con il proprio corpo e il proprio tempo, sempre più a buon mercato, più flessibile, più sacrificabile.
Cosa implica la crescita economica nel capitalismo? È necessariamente positiva per la classe operaia? Così sembrerebbe a giudicare dai messaggi di autocompiacimento dei vertici dell’Esecutivo delle ultime settimane e leggendo i titoli di alcuni media. Dell’altro settore dei mezzi di comunicazione, quelli che non celebrano ma criticano, parleremo dopo. Ma, per il momento, occupiamoci degli adulatori del Governo: «La Spagna contribuisce al 40% della crescita economica della zona euro», «record storico di assunzioni con oltre 21,5 milioni di lavoratori», «la disoccupazione ad aprile è scesa al livello più basso dal 2008». Sono queste le cifre che misurano il nostro benessere? Lavorare implica farlo in buone condizioni? Si fugge dall’instabilità e dalla difficoltà ad arrivare a fine mese solo accedendo a un impiego ed essendo iscritti alla Previdenza Sociale?
La Spagna guida le classifiche di crescita macroeconomica mentre la sua maggioranza lavoratrice continua immersa in un impoverimento strutturale che non può essere camuffato con qualche cifra. Accanto a ogni dato celebrato ce n’è un altro non così brillante, e dietro ogni cifra esibita ci sono condizioni materiali dure: impiego volatile, affitti più impossibili che mai, salari che non bastano nemmeno per uscire dalla soglia della povertà.
Secondo l’INE (Istituto Nazionale di Statistica, NdT), il 26% della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale; 12,3 milioni di persone, molte delle quali hanno un impiego. Circa il 12% dei lavoratori occupati si trova in una situazione di povertà, oltre al 50% dei disoccupati. Il tasso di lavoratori occupati poveri dal 2014, anno in cui inizia la serie, è appena diminuito, e la diminuzione è più spiegabile con la situazione generale del capitalismo che con le misure di qualsiasi governo. Mi rifaccio ai dati: dopo anni di governo socialdemocratico, non ci sono dati che sostengano la tesi di un miglioramento del tenore di vita se messi a confronto con altri dati di contesto; vi è solo la prova che hanno assolto il loro compito di mantenere la realtà capitalistica come qualcosa che, sebbene soffocante, è sufficientemente sopportabile perché la forza lavoro possa sopravvivere.
L’inflazione è la chiave per comprendere questo fatto. Lungi dall’essere un’anomalia nel sistema capitalistico, è un meccanismo strutturale del suo funzionamento. Attraverso di essa si svaluta il salario reale – anche se aumentano i salari nominali, l’aumento generalizzato dei prezzi fa sì che si possa comprare meno con lo stesso denaro – il che equivale a una riduzione occulta del valore della forza lavoro. Questa dinamica, a livello macroscopico, trasferisce reddito dalla classe lavoratrice al capitale. L’inflazione impoverisce, ma, inoltre, misure politiche come quelle che legano l’aumento dei salari alla produttività aziendale, e non al costo della vita, disciplinano la forza lavoro, naturalizzando il fatto che i nostri salari siano subordinati all’interesse capitalistico e non a quanto ci costa vivere.
Per questo motivo, elementi chiave del discorso trionfalista del Governo, come l’aumento del salario minimo interprofessionale (SMI), vengono immediatamente neutralizzati da meccanismi capitalistici come l’inflazione. Lo stesso accade con l’abitazione, problema intrinsecamente legato a quanto stiamo commentando: il costante aumento del prezzo della casa – in acquisto e, soprattutto, in affitto – agisce come un altro fattore che riduce il salario reale, costringendo a destinare una parte sempre maggiore delle entrate al semplice fatto di poter vivere sotto un tetto.
Di fronte a questa situazione, lo Stato non ha corretto questa ingiustizia, ma l’ha amministrata a favore del capitale. Dalla liberalizzazione del suolo e gli aiuti pubblici all’acquisto fino ai salvataggi bancari e la cessione di abitazioni pubbliche a fondi d’investimento, le politiche abitative hanno rafforzato il carattere speculativo di questo diritto fondamentale. Oggi, misure come i tetti agli affitti, gli sgravi fiscali o la «collaborazione pubblico-privata» non fanno altro che perpetuare il dominio dei grandi proprietari e delle agenzie immobiliari.
Smontando i pezzi del racconto della locomotiva europea, della felice crescita in cui monopoli e classe operaia possono beneficiare delle stesse politiche e in cui non è necessario il conflitto sindacale ma la collaborazione tra le classi, risulta che l’unico aspetto in cui si realizza il racconto trionfalista è uno: i monopoli continuano a ottenere enormi quantità di profitti a spese della maggioranza lavoratrice.
Un’altra impresa che completa il racconto è il progetto di riduzione dell’orario di lavoro. Come abbiamo già analizzato in queste pagine, questa misura non si traduce in una diminuzione effettiva e generalizzata del tempo di lavoro, poiché è calcolata su base annuale, il che permette la sua redistribuzione in base alle esigenze aziendali. In ogni caso, la misura, anche in termini di ore assolute, influirà in modo marginale sulla situazione reale: buona parte dei contratti collettivi prevedeva già orari di lavoro di 37,5 ore o meno e le statistiche mostrano una media effettiva inferiore persino a questa cifra, frutto della precarietà strutturale, del part-time involontario e dell’organizzazione del lavoro a chiamata.
Ciò che il Governo non sbandiera più di tanto è che la riduzione sarà accompagnata da misure di flessibilizzazione e da aiuti alle imprese. Invece di invertire la precarietà, consolida un modello di lavoro frammentato, irregolare e subordinato ai ritmi del mercato. E, di passaggio, dà anche una caramella a basso costo ai settori dei sindacati maggioritari che hanno bisogno di una scusa per giustificare la loro accanita difesa del Governo, o agli elettori della socialdemocrazia per cercare di evitare che finiscano per disertare.
Perché questo è il peggio: i disertori… dove fuggono? L’estrema destra, in piena ondata di crescita, sfrutta le falle lasciate da un racconto che non si adatta bene alla realtà vissuta dalla maggioranza. Utilizza la sensazione di abbandono, tradimento, distacco, che provano ampi settori di lavoratori per mettere in discussione la narrazione governativa e cercare di emergere come attore politico che «parla chiaro», «dei problemi reali», alimentando il dibattito in quegli altri media critici verso il Governo. Estraggono il malcontento e lo iniettano nella propria narrazione, promuovendo l’odio contro falsi nemici (gli immigrati, i diritti delle donne, le tasse…) e proponendo un irrigidimento della difesa della proprietà, dell’ordine e dello Stato capitalistico. Ciò che non mettono in discussione è il fulcro del vero problema: la subordinazione completa della vita sociale alla logica del capitale.
Per questo motivo, non si tratta di scegliere una fazione all’interno del capitalismo, ma di smettere di scegliere tra i suoi gestori e assumere una posizione indipendente della classe lavoratrice. La miseria non si cambia camuffando i numeri né irrigidendo la repressione dello Stato contro di essa. Si combatte organizzando la maggioranza sociale per confrontarsi con il nemico comune: il capitale e chi lo rappresenta. In questo, né la socialdemocrazia né l’estrema destra hanno nulla da offrire.