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Home›Rassegna operaia›Il lungo percorso verso il lavoro dignitoso nel pubblico impiego: il caso degli LSU-LPU in Calabria

Il lungo percorso verso il lavoro dignitoso nel pubblico impiego: il caso degli LSU-LPU in Calabria

Di Domenico Cortese
15/12/2021
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All’interno dei gangli dello Stato di matrice borghese non sono rari gli esempi di mercificazione della forza lavoro o di caporalato legalizzato vero e proprio. Non serviva certo attendere il ritorno di Brunetta e le sue esternazioni che ammettono la volontà di connivenza tra apparati statali di controllo e capitale privato per rendersi conto della struttura e della cultura aziendalistica che, ormai, la Pubblica Amministrazione assume e incoraggia. Un fattore principe nel supporto indiretto che la PA dà allo sfruttamento privato è, certamente, il trattamento anomalo e indegno di diverse “minoranze” di lavoratori pubblici, che sono prive di un regolare inquadramento dal punto di vista contrattuale oppure, persino, giuridico. Un esempio clamoroso di questa tendenza sono i tirocinanti della PA, la cui vicenda abbiamo trattato in diverse occasioni . Un altro esempio, che andremo a trattare oggi, è la categoria degli LSU-LPU, presenti soprattutto all’estremo sud della penisola. Più che lo stato attuale dei fatti, grande importanza è da attribuirsi al percorso di questi lavoratori, perché esso rende palese l’approccio ambiguo e confusionario delle istituzioni statali e regionali le quali mirano, spesso, a trarre un beneficio politico dalla condizione di ricattabilità di questi precari, ad esempio attraverso la prassi della ciclica ed eterna promessa elettorale di stabilizzazione, o tramite la scintilla della guerra tra poveri, che sterilizza il potere rivendicativo delle masse o, infine, indirettamente, attraverso il beneficio che un esercito di lavoratori e famiglie economicamente ricattabili apporta al padronato locale, non di rado legato o coincidente con la classe politica al potere.
Per tutto questo, delineeremo la vicenda storica degli LSU-LPU, per parlare successivamente delle rivendicazioni attuali di questi lavoratori, mobilitati di recente dalla federazione calabrese dell’Unione Sindacale di Base .

La nascita degli LSU-LPU
Gli LSU (“lavoratori socialmente utili”) sono il frutto di progetti ministeriali nati poco più di venticinque anni fa, che toccavano tutta l’Italia, previsti per persone con problematiche economiche. Tali progetti erano programmati per durare un paio d’anni ed era stato costituito, per essi, un fondo ministeriale basato su fondi Europei (con un ammontare di 50 milioni di euro), dal 2006 storicizzato di fatto “a vita”, nel senso che è stato sempre rinnovato, anno per anno, procedura classica in vicende in cui, come in questo caso, si punta a tenere sulla “graticola” migliaia di lavoratori per un tempo indeterminato. Questo fondo è stato indirizzato alle convenzioni per gli LSU di tutta Italia. Nel sud Italia, tuttavia, questi progetti sono stati portati avanti nel tempo oltre il limite previsto e sono stati affiancati a progetti regionali, come gli ASU in Campania e gli LPU (“lavoratori di pubblica utilità”) in Calabria. Questi avevano tutti le stesse caratteristiche: 500 euro al mese di retribuzione, senza contributi o altro, organizzati notoriamente a mo’ di sussidio, e gravavano su fondi regionali per un ammontare di 39 milioni di euro. In Calabria soltanto, i lavoratori che oggi provengono dagli LSU ed LPU sono 4200-4300.

La contrattualizzazione a orario ridotto e i pasticci di Ministero e Regione
Nel 2015 la Regione Calabria, dal momento che usufruiva ormai degli interi 50 milioni di euro del ministero, ha inquadrato con contratto da amministrazione pubblica tutti gli LSU e gli LPU della regione. Ora, mentre secondo lo schema del sussidio il ministero mandava fondi per 18 ore lavorative, la Regione integrava, con fondi suoi, ulteriori ore arrivando a 26 ore. Il problema era che, in questo modo, la Regione Calabria, del fondo di 50 milioni di euro disponibile, ne usufruiva quasi completamente da sola. Per questo motivo, nell’agosto 2018 il direttore generale del ministero del Lavoro ha dato il suo altolà alla Regione. È stata mandata una convenzione all’amministrazione regionale, nella quale è stato chiarito che, per il ministero, risultavano 2200 LSU in Calabria: i 50 milioni di euro erano sovrabbondanti, così sono stati ridotti a 21, che era la cifra sufficiente per stabilizzare a 18 ore tutti i 2200 lavoratori. Questi ultimi, in altre parole, dopo più di dieci anni in cui avevano sostenuto materialmente il funzionamento delle PA locali, sono stati trattati come meri numeri in un foglio di calcolo che doveva far quadrare al centesimo il bilancio statale. L’assessore al Lavoro della Regione ha firmato la convenzione. La Regione Calabria ha messo, allora, tutti questi soldi, da aggiungersi ai 39 milioni regionali, in un calderone per usarli insieme per LSU ed LPU, che per la Calabria sono contrattualizzati, a differenza che per le altre regioni. Per la precisione, le somme a disposizione che vengono corrisposte sono ora 13.000 euro l’anno per ogni LPU, mentre per ogni LSU si aggiunsero 3800 euro ai 9300 del ministero, finanziamento che il ministero aveva previsto per 4 anni.

La stabilizzazione “monca”
Con un emendamento del 2019 si è trasformata la funzione dei 50 milioni iniziali per favorire la contrattualizzazione a tempo indeterminato e, oltre a istituire le deroghe ai vincoli assunzionali necessarie per assumere legalmente i lavoratori, si è trovata la somma che serviva per garantire la storicizzazione di tutti i 7000 lavoratori precari del sud Italia: 9 milioni di euro. Il fondo regionale, invece, è stato “storicizzato” secondo la legge regionale 29 del 24 Giugno 2019. Dopo “soli” quindici anni di precarietà assoluta, si è pensato fosse l’ora di dare un po’ di serenità lavorativa a queste famiglie. La stabilizzazione, tuttavia, è stata stabilita a 18 ore, anche se si veniva da un sistema di proroghe a 26 ore; questo perché la Regione Calabria con fondi suoi e usando fondi che non erano indirizzati alla regione aveva aumentato il numero di ore. Dal 31 gennaio al 31 marzo 2020 hanno avuto luogo tutte le procedure di assunzione. In questo arco di tempo, tramite la Conferenza Stato-Regioni e i ministeri sono stati pubblicati i decreti attuativi. Si badi che per gli (ora ex) LSU di categoria C e D tutto questo è corrisposto ad una facoltà ad essere assunti definitivamente piuttosto che ad un’assunzione definitiva poiché, in accordo con la Costituzione Italiana, tali assunzioni sono da considerarsi sempre in funzione di prove selettive, anche se si potrebbero considerare sufficienti delle prove riservate senza la necessità dell’istituzione di un concorso aperto a tutti. Un altro nodo riguardava il fatto per cui gli enti locali, secondo la norma, non avevano comunque l’obbligo alla stabilizzazione, con le conseguenze che stiamo per vedere.

Lo stato dei fatti oggi e la battaglia dell’Unione Sindacale di Base
L’USB Calabria ha organizzato una giornata di mobilitazione venerdì 26 novembre, che ha visto manifestare alla Cittadella regionale di Catanzaro una delegazione di lavoratori ex LSU-LPU, scesi in piazza nonostante l’allerta rossa e i rischi di maltempo. Dopo un incontro tenutosi nell’ufficio del presidente Occhiuto, con la vicepresidente Princi e con il dirigente Cosentino, lo stesso presidente della Regione Calabria è sceso nel piazzale della Cittadella per “salutare e confrontarsi direttamente con i lavoratori”. La vicenda degli LSU-LPU è stata materiale di propaganda elettorale per anni e le lungaggini nella (parziale) stabilizzazione sono dovute alla disgregazione dei lavoratori del pubblico impiego che, storicamente poco abituati alle lotte materiali soprattutto nelle regioni meridionali, tendono a percepire gli interessi propri in contrasto con quelli dei colleghi: dipendenti pubblici “regolari” che si disinteressano delle vicende dei precari, tirocinanti che si vedono in competizione con gli ex LSU-LPU nella corsa alla stabilizzazione, con grande difficoltà nel raggiungimento di quell’unità d’azione e di lotta che sarebbe fondamentale per rivendicare aumenti degli investimenti pubblici, contratti stabili e incrementi salariali per tutti. Le rivendicazioni, ora, come spiega Aurelio Monte, militante di USB Reggio Calabria che sta seguendo la vertenza, sono innanzitutto quelle di avere un contratto a 36 ore, anche perché le piante organiche dei comuni sono ridotte al lumicino. Anche a causa del decennio di blocco del turnover, una gran fetta della forza lavoro nei comuni – soprattutto del meridione – sono proprio tirocinanti ed ex LSU-LPU. Il fatto che il numero delle ore di lavoro settimanali vari tra lavoratore e lavoratore dipende dal fatto che, come illustrato sopra, le istituzioni hanno messo sul tavolo circa 13.000 euro l’anno per ogni dipendente. Questa somma equivale, circa, ad uno stipendio per un contratto di 18 ore con una categoria A; nel caso di categorie superiori, maggiormente retribuite, il livello delle ore si abbassa necessariamente, anche perché i comuni non mettono alcuna risorsa e non contribuiscono alle stabilizzazioni – complice lo stato di dissesto della maggior parte dei comuni in queste zone d’Italia. Dopo la mobilitazione di diciotto giorni fa il presidente della regione Calabria e i parlamentari calabresi hanno, spiega Aurelio Monte, preso l’impegno di portare avanti un emendamento da inserire nella legge di bilancio che assicurerebbe un trattamento contrattuale a tempo pieno, emendamento che l’USB dovrà continuamente supervisionare. L’emendamento, che doveva inizialmente comparire nel decreto Ristori di agosto, prevede l’equiparazione degli ex LPU agli ex LSU anche sotto l’aspetto economico, perché in Calabria i secondi sono pagati con fondi ministeriali mentre i primi sono pagati con i milioni che ha messo la regione Calabria per entrambe le categorie. In questo modo il governo sarà obbligato a stanziare i fondi mancanti per gli ex LPU, permettendo di usare il denaro storicizzato in precedenza per la contrattualizzazione piena di tutti.

Il fatto di considerare “casi particolari” le vicende in cui sono coinvolte migliaia di famiglie cela, e lo si vede dalla storia di precarietà di questi lavoratori, l’intenzione di rendere la Pubblica Amministrazione sempre più paragonabile – nei suoi scopi e metodi – ad una azienda o holding privata, che estrae valore dai suoi lavoratori e fa pagare i suoi servizi agli stessi (e alle classi popolari in generale) sottoforma di utenti e contribuenti, producendo un margine di profitto che viene consegnato al capitale privato sottoforma di interessi sul debito pubblico, dividendi e profitti di aziende appaltatrici, partecipate e concessionarie. Le politiche di precarizzazione dei nuovi assunti del ministro Brunetta e i risultati dei nuovi accordi sindacali per la PA indicano che per rivendicare un settore pubblico che sappia offrire servizi veramente universali e di qualità, anche attraverso la creazione un’occupazione di qualità, è necessario portare i lavoratori del pubblico impiego e del settore privato a marciare insieme e a fare valere il loro peso negoziale nei confronti di chi oggi specula sulla loro sempre più estesa ricattabilità.

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Domenico Cortese

Domenico Cortese, nato a Tropea nel 1987, dottore di ricerca in Filosofia e Storia. Gestisce il blog Il Capitale Asociale su FB e IG, è membro del comitato centrale del Fronte Comunista, in cui milita dalla sua fondazione. Collabora con L'Ordine Nuovo su argomenti di economia e attualità.

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