Il “rivoluzionario” Bonomi
Chi sia e che ruolo abbia avuto l’elezione a presidente di Confindustria Carlo Bonomi lo abbiamo scritto in un articolo su questo giornale al momento della sua nomina a capo degli industriali italiani.
In realtà l’approccio bonomiano alle relazioni e alle politiche industriali, che potremmo ricondurre al ruolo di “falco” utilizzando il gergo del giornalismo politico, non ha nulla di innovativo o “rivoluzionario”, per citare una sua ultima uscita infelice.
Si tratta infatti di una posizione di intransigente arroganza e supponenza nel portare avanti gli interessi di un pezzo consistente di classe padronale italiana che si trova sempre più in difficoltà nel recuperare i livelli di bilancio pre-crisi e nel mantenere una competitività con i capitali stranieri nel mercato globale e soprattutto in quello italiano.
Un comportamento che possiamo in realtà definire “classico” per la classe borghese della fase morente del capitalismo nella quale viviamo, una posizione di profonda reazione nella quale il perseguimento dell’interesse di classe coincide con la necessità di garantire la sopravvivenza stessa della propria classe e dell’intero sistema di valori e di regole che la informa.
Questo riposizionamento o per meglio dire riallineamento alle posizioni storiche di intransigenza dei sindacati padronali potrebbe allo stesso tempo avere dei risvolti positivi, effetti collaterali di un’arroganza senza limite: nella sua gretta difesa degli interessi di bottega, questo atteggiamento non lascia più molto spazio agli apologeti della concertazione in campo di relazioni industriali.
In una fase che la triplice confederale desidererebbe impostare nei termini della concertazione, del confronto e del dialogo tra organizzazioni sindacali dei lavoratori e organizzazioni padronali, col beneplacito del governo, Carlo Bonomi con le sue uscite shock rompe le uova nel paniere, in primo luogo alla strategia di Maurizio Landini, che ha sempre più difficoltà a barcamenarsi tra la fama di leader combattivo (più una costruzione giornalistica che reale) e la realtà di una tattica suicida della CGIL nella gestione della crisi pandemica e del parallelo attacco frontale ai lavoratori che abbiamo vissuto e che stiamo ancora vivendo.
Incidentalmente la crisi pandemica è capitata in un anno di rinnovo dei contratti collettivi nazionali, la prima senza alcuna mobilitazione dei lavoratori promossa dai confederali. I circa dieci milioni di lavoratori con CCNL scaduto si trovano così nella posizione infelice di contrattare in situazione di estrema debolezza, se non proprio con le spalle al muro, disarmati dai confederali da un lato e schiacciati dalla crisi economica, dai licenziamenti e dalle minacce padronali dall’altro.
Bonomi dice che Confindustria vuole firmare i contratti collettivi, ma solo se saranno contratti davvero “rivoluzionari”, ovvero, traducendo, se saranno in grado di demolire quei pochi residui di difesa dell’occupazione e del salario per i quali nel nostro paese possiamo ancora dire nonostante tutto di avere una fetta di lavoratori con qualche diritto sociale.
Non è più tempo quindi di “scambio novecentesco tra salario e orario”, dice Bonomi, manifestando l’impellenza di sottolineare che “rivoluzionario” è un aggettivo che non gli si addice proprio. Aumenti in busta paga solo legati all’inflazione, quindi niente inflazione niente aumenti, solo qualche concessione in quel welfare aziendale buono a garantire fortissime agevolazioni fiscali per le imprese.
Questa linea aggressiva che evidentemente rappresenta una necessità per la maggioranza dei padroni italiani, è stata sconfessata da alcuni monopoli del settore alimentare che hanno firmato il nuovo CCNL di settore che prevede “aumenti” di 119€ lordi a regime (2023). Questi grossi monopoli mondiali, parliamo di Barilla, Ferrero e Coca Cola, hanno evidentemente interesse a mantenere la quiete collaborativa sindacale in una condizione di bilancio comunque favorevole rispetto magari ad altri settori che ormai hanno esaurito questi margini.
Lo stop al blocco dei licenziamenti, ovvero la libertà di licenziare liberamente lavoratori in tempi di crisi e crescente disagio sociale, è un altro dei cavalli di battaglia del falco di Confindustria. In realtà sappiamo benissimo che si licenziava prima, durante e si licenzia dopo il primo lockdown da Covid-19. Le masse di giovani e meno giovani lavoratori precari con contratti a termine hanno subito un drammatico contraccolpo in termini di reddito, ma tutto questo non rientra negli interessi dei “bottegai”, appunto.
“Basta aumenti, basta sussidi, basta demagogia”, ma ovviamente più soldi alle imprese.
Richiama continuamente alla responsabilità, il rivoluzionario Bonomi. La responsabilità degli altri, degli avversari al tavolo della contrattazione, dei lavoratori che chiedono aumenti e diritti. Non certo la responsabilità di chi rappresenta istituzionalmente e geograficamente una classe industriale che pur in tempo di emergenza ha anteposto il proprio profitto alla vita dei propri concittadini e dei propri dipendenti. In questi casi gli appelli alla responsabilità si trasformano velocemente in appelli allo scudo penale per gli imprenditori coinvolti in queste vicende.
Nulla di rivoluzionario sotto il cielo di Viale dell’Astronomia quindi, ma solamente il ritorno a un atteggiamento di intransigenza classista che forse permetterà di assumere i corretti orientamenti anche nel nostro campo, fuori da ogni forma di collaborazione con gli interessi degli sfruttatori di sempre.