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Home›Speciali›Centenario PCdI›La scissione di Livorno e i tempi della storia

La scissione di Livorno e i tempi della storia

Di Redazione
21/01/2021
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Proprio oggi ricorre il centenario della fondazione dell’organizzazione che più di ogni altra, almeno fino al secondo dopoguerra, ha determinato le sorti del movimento rivoluzionario in Italia. Il 21 gennaio 1921 si determinava con la scissione di Livorno la prima organizzazione operaia comunista in Italia. La storia della fondazione del P.c.d’I, e più in generale quella del Partito comunista italiano, è una storia talmente densa e stratificata, così rilevante per le sorti del paese in cui si è andati più vicino e allo stesso tempo più lontano dal successo della rivoluzione che, nonostante il fiume storiografico che ha letteralmente investito questa vicenda, finisce irrimediabilmente per essere irrisolta. La ragione principale risiede nei nodi politici che dalla parabola del Pci scaturiscono e che relegano ancora l’eredità storica di quest’organizzazione nel campo dell’incertezza, certamente della contraddittorietà.

Sarebbe dunque impossibile provare a “tirare le somme” come in troppi hanno tentato di fare, in pochi sono riusciti, anche se parzialmente, e nessuno definitivamente a compiere. E questo perché, anche a distanza di trent’anni dal certificato di morte dell’organizzazione che si dichiarava erede del partito della Resistenza, ancora rimane irrisolta la ragione complessiva che può spiegare come si passò dalla gloriosa storia del partito clandestino e della Liberazione, poi del partito della classe operaia nello Stato a quella del partito Stato nella classe operaia. Una parabola che appunto, rimane irrisolta, proprio perché pone al presente, nella sua straordinaria eccezionalità storica di esempio più alto e allo stesso tempo più basso, una lunga serie di questioni.

Per questa ragione, chiunque si voglia porre il problema dei tempi della rivoluzione in questo paese non può non tentare di fare i conti con questa storia provando a sviluppare un ragionamento all’altezza dei tempi.

A fronte di questa complessità – consci dell’enormità del compito – occorre cominciare almeno da qualche parte, e l’anniversario che ci si pone davanti è un’occasione per farlo senza tuttavia trascurare i pericoli che vi si celano. La storia della fondazione del P.c.d’I è, infatti, la storia di entrambe le facce di cui abbiamo brevemente fatto cenno e che non può non essere presa in blocco se si vuole estrarre un giudizio storicamente e complessivamente valido. La mancanza di queste condizioni condannerebbe questo centenario, come ogni anniversario, a consumarsi tra la superfetazione di analisi e ricostruzioni ripetitive e la vuota celebrazione propria degli orfani di un’esperienza politica ma non dello storico, tantomeno del militante.

Proviamo dunque a partire almeno dall’evento originario – dalla genesi – della complessa vicenda che prende il nome di “scissione di Livorno”.

Il soggetto in cui si determinano le condizioni che daranno luogo alla scissione e poi alla fondazione del Partito Comunista d’Italia è, com’è noto, il Partito socialista italiano. L’organizzazione, fondata nel 1892, e prodotto dell’unificazione delle organizzazioni e frazioni del movimento operaio italiano che fino a quel momento operavano sotto il segno della divisione, se da una parte doveva segnare una tappa fondamentale nel processo di unificazione della classe operaia italiana – un processo che trovava il suo corrispettivo più avanzato nella Social-democrazia tedesca –, dall’altra ereditava buona parte delle divisioni congenite al movimento rivoluzionario italiano. Tali divisioni facevano somigliare il neonato Partito più a una sommatoria di realtà politico-sindacali che al risultato di un processo di maturazione delle avanguardie rivoluzionarie in Italia. D’altronde, ben noto è l’eclettismo che caratterizzava la direzione e l’organizzazione del Partito socialista e che fino al principio degli anni ’20 aveva costituito la cifra politica della prima organizzazione operaia compiutamente nazionale.

Il peso di questa eredità, ben rappresentato dalle due facce del “turatismo” che hanno segnato l’intera parabola del PSI almeno fino all’avvento del fascismo, giocò un ruolo preponderante nella formazione delle due realtà che diedero vita alla scissione del ’21 (il gruppo de “L’Ordine Nuovo” e quello del “Soviet”) e nella decisione che fosse giunto il momento di conquistare l’autonomia della classe operaia sotto la forma compiuta di un partito comunista che sapesse riprodurre la prassi bolscevica in Italia.

I due volti del riformismo turatiano, quello del partito operaio di massa con influenze borghesi, caratteristica che rimase viva almeno fino agli inizi del ‘900 e, dopo che Marx venne “mandato in soffitta”[1], quello del partito borghese con influenza sulle masse operaie, si fondevano nell’orizzonte intrinsecamente riformistico che ha costituito il tratto comune della dirigenza del Partito fino alla cesura del 1921.

Tralasciando la storia della ricezione e dell’effettiva conoscenza di Marx nel movimento italiano – che pure costituisce un capitolo fondamentale e ineludibile per comprendere il ritardo storico che il movimento dovette scontare –, l’eclettismo di fondo e il sostanziale carattere positivistico e deterministico, che vedeva ondeggiare la direzione del Partito tra l’illusione dogmatica dell’evoluzione graduale e la trepidante attesa della crisi definitiva del capitalismo, costituiva l’armamentario teorico di cui la direzione riformista si faceva veicolo. I tempi della storia si incaricarono di far emergere l’inefficacia di una simile eredità teorica e la prima grande frattura all’interno del movimento operaio, che in quegli anni era rappresentato dalla Seconda Internazionale, significò la resa anche di quei partiti che non parteciparono attivamente al massacro del 1914 e che si rifugiarono nello slogan del “né aderire né sabotare”.

Il Psi, dunque, se si distinse nel crollo strutturale seguito al voto favorevole per i crediti di guerra, ondeggiò nel periodo bellico da posizioni cripto-patriottiche ad una postura intransigente riproducendo da un lato il sostanziale eclettismo che caratterizzava il riformismo socialista, e dall’altro arrivando all’appuntamento con la storia del ’17 sostanzialmente impreparato.

Alla crisi bellica, poi, successe quella post-bellica e al disastro di Caporetto e la sostanziale disarticolazione subita dall’economia e la società italiana durante il Primo conflitto mondiale, si aggiunse l’inedito fermento sociale seguito alla convinzione che l’enorme sacrificio umano offerto sull’altare patriottico avesse prodotto una misera “vittoria-mutilata”. A questo si sommò il più grande sconvolgimento dell’Italia unita fatto di un sostanziale esaurimento delle forze vive del paese ed esemplificato in modo incontrovertibile dal costo di vite umane. Lo stravolgimento del tessuto industriale, lacerato dallo sforzo bellico e ristrutturato dall’economia di guerra si unì alla crisi nelle campagne e alle agitazioni contadine senza dimenticare l’inedita variabile sociale costituita dai reduci del fronte, i quali andavano progressivamente a ingrossare le sterminate fila di disoccupati. Uno scenario facilmente descrivibile come apocalittico, con il biennio rosso pronto a esplodere di lì a poco. Nonostante il quadro potenzialmente esplosivo, il Partito Socialista italiano si fece trovare sostanzialmente disorientato e definitivamente bloccato dal proprio attendismo.

biennio rossoIl biennio 1919-1920 fu uno di quei momenti storici che difficilmente è possibile riassumere se non con la tanto abusata formula dei “giorni che valgono anni”. Probabilmente, questa fase fu molto di più: fu letteralmente una situazione prerivoluzionaria senza precedenti. Il biennio si aprì con la tragica repressione dell’insurrezione spartachista a Berlino e la spietata risposta della reazione europea che, complice la socialdemocrazia tedesca, ai primi tentativi insurrezionali del proletariato europeo fece rispondere l’assassinio di due dei massimi dirigenti del movimento operaio internazionale come Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht.[2] Da Oriente, nel marzo di quell’anno, la spinta propulsiva dell’Ottobre dava i suoi primi risultati fondando l’organizzazione che guiderà il movimento rivoluzionario per buona parte del secolo: l’Internazionale comunista. Seguirono gli inediti tentativi di istituire delle repubbliche consiliari in Ungheria, nel marzo-agosto e in Baviera, da aprile ad agosto, anche questi schiacciati nel sangue.

Se da una parte il movimento rivoluzionario batteva un colpo poderoso, incassandone gli effetti disastrosi, dall’altra le classi dirigenti europee e la reazione imperialista, non solo rispondevano fanaticamente a ogni tentativo insurrezionale, ma cominciavano a organizzare la controrivoluzione nelle forme inedite del fascismo. Il 1919 è, infatti, l’anno in cui l’embrione del movimento fascista prende forma con la fondazione dei Fasci di combattimento a Milano, e si affaccia nella storia d’Italia quell’ipotesi reazionaria cui, dopo una travagliata fase di scontro politico e sociale, la borghesia italiana si affiderà in toto.

Appare chiaro come di fronte ad un quadro in pieno fermento, a una fase storica così gravida di pericoli reazionari ma anche di opportunità rivoluzionarie il movimento operaio italiano, e quella che sarebbe dovuta essere la sua avanguardia più cosciente ovvero quanti militavano nelle fila del Partito socialista italiano, non potessero avere gli strumenti adeguati per cogliere l’occasione storica, sciogliere il nodo teorico tra “spontaneità” e “consapevolezza” e dominare la contraddizione. Non vi erano gli strumenti adeguati, almeno tra la direzione di quel Partito e di quanti s’inscrivevano in quella corrente massimalista che faceva della sua stessa fraseologia rivoluzionaria la gabbia teorica in cui rinchiudersi per non agire. L’inerzia della direzione del Partito, la fiammeggiante retorica rivoluzionaria, contraddetta dai fatti o affogata nell’attesa messianica dell’avvento dello sciopero generale non furono strumenti atti a cogliere l’ingresso delle masse nella storia e quest’aspetto, tra i diversi fattori che innescarono la scissione, è ampiamente assodato. Quello che non è ancora definito, e che rimane un capitolo storiograficamente e, ancor di più, politicamente aperto, sono i tempi e i modi con cui la scissione che diede vita al Partito Comunista d’Italia si verificò. Quello che successe dopo la frattura del Teatro San Marco è cronaca: l’arretramento sostanziale del movimento operaio e la contemporanea ascesa del fascismo; la definitiva presa del potere da parte di Mussolini e l’istituzionalizzazione del fascismo; la fine della democrazia liberale agonizzante e la fase di profonda clandestinità del P.c.d’I.

Se la necessaria azione del gruppo degli astensionisti, guidato da A. Bordiga, e di quello de L’Ordine Nuovo, capeggiato da Tasca, Gramsci e Togliatti prese di petto una situazione che era già consumata di per sé, quel poco di forzatura in più che Lenin e l’Internazionale non erano riusciti a compiere anni prima si rivelò tuttavia insufficiente.

Se non mancarono gli uomini, insomma, mancò in un certo senso lo strumento, e mancò ancor di più quell’intuizione tesa ad afferrare «l’interruzione della gradualità[3]» nella storia. Una ricostruzione di comodo potrebbe adagiarsi sulla retorica del “ritardo storico”, delle condizioni oggettive immature e non ancora pronte per veder servito l’esito rivoluzionario su di un piatto d’argento. Una ricostruzione che sederebbe le ambiguità di un passaggio cruciale per la storia del movimento rivoluzionario italiano relegandole nella teoria dell’avventuristico tentativo portato avanti dagli scissionisti che avrebbe prestato il fianco, spaccando il movimento italiano, al fascismo in ascesa. Tuttavia, questa sarebbe una ricostruzione azzardata e basata sull’enorme rimozione dell’esempio dell’Ottobre. Se vi è una chiara eredità, infatti, nella risoluta azione dei bolscevichi questa è che la compatta e compartimentata rete di “agenti”, quella che resse alla repressione dopo la rivoluzione del 1905 e che garantì la base organizzativa per gli sviluppi del ’17, erano una condizione necessaria ma non sufficiente a cogliere i tempi della rivoluzione in Russia. Strumento forte ma grezzo, non era abbastanza affilato per riuscire a tagliare a fondo, da solo, la trama del movimento storico. Senza la capacità di cogliere lo sviluppo a salti e catastrofico proprio della dialettica storica che quei dirigenti fecero propria, assieme alla dura strutturazione organizzativa, probabilmente il bagno di sangue cominciato nel 1914 sarebbe rimasto tale.

Il glorioso tentativo, consumatosi tra le sale del Teatro san Marco il 21 gennaio 1921, di dotare il movimento italiano di un’organizzazione rivoluzionaria sul modello bolscevico, s’infranse insomma contro il muro della «teoria di ieri», della psicologia parassitaria propria del riformismo e del massimalismo italiano che costituì il freno più grande allo sviluppo della rivoluzione in Italia.

Al tentativo di dotarsi di uno strumento organizzativo all’altezza dei tempi, tardò quello di dotarsi dello strumento teorico, di quell’insostituibile propensione pratica a «tener conto della vita concreta», di considerare i «fatti vivi della realtà» che nella fase prerivoluzionaria del primo dopoguerra esplodevano in tutta la loro dirompenza. Il socialismo riformista e il massimalismo, di fronte alle fibrillazioni della società, preferirono «abbarbicarsi alla teoria di ieri» sacrificando il marxismo vivente alla lettera morta, mentre i futuri comunisti non ebbero la forza di imporre questo nuovo strumento per tempo, di sostituire alla teoria zoppicante e decadente l’analisi concreta, la sola in grado di rilevare gli strappi della storia. Il tentativo degli scissionisti, come sappiamo, nonostante non riuscì a evitare il precipitare della situazione in Italia, fu comunque in grado di risollevarne le sorti negli anni successivi con un’eroica lotta contro il fascismo.

Probabilmente, però, una delle lezioni del ’21 si trova proprio qui: nell’universale necessità, oggi più che mai valida, di rendere attuale la teoria di ieri, di sostituire la teoria vivente alla lettera morta nel tentativo continuo di cogliere le “interruzioni” nella storia.

Proprio come ricordava Lenin, rievocando una massima goethiana nelle sue “Lettere sulla Tattica”: «Grigia è la teoria, amico mio, ma verde è l’albero eterno della vita»[4].

Collettivo Militant

_______________________________________

[1] Per una ricostruzione di questa fase del riformismo socialista vedi P. Favilli, Storia del marxismo italiano. Dalle origini alla grande guerra, FrancoAngeli, Milano 1996.

[2] Sul tentativo di rivoluzione in Germania vedi P. Broué, Rivoluzione in Germania. 1917-1923, Einaudi, Torino 1977.

[3] V. I. Lenin, Opere Complete, XXI, Editori Riuniti, Roma 1966, p.47.

[4] V. I. Lenin, Opere Complete, XXIV, cit., p. 38.

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