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Carovita: tragedia per i lavoratori, delizia per i padroni

Di Domenico Cortese
22/08/2025
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Viviamo ancora sulla nostra pelle lo strascico della grave impennata dei prezzi cominciata nel 2022. In questo articolo illustriamo il contenuto di diversi studi e dichiarazioni che rendono evidente quanto, al contrario di ciò che affermano i soliti luoghi comuni sul carovita – ovvero che dipenda soltanto dall’aumento del costo dell’energia o, addirittura, che sia legato a un presunto aumento del costo del lavoro –, questo abbia visto come sua maggiore causa la corsa al profitto da parte delle imprese, sia in Italia che in Europa.

Secondo una recente elaborazione su dati ISTAT, negli ultimi quattro anni per cibo e bevande sono stati registrati aumenti di prezzo del 27%, mentre i costi per casa, elettricità e gas sono aumentati del 32%, quelli per ristoranti e alberghi del 24%. Il carovita si fa sentire, quindi, soprattutto nei settori dell’alimentazione e della gestione della casa, quelli che compongono la fetta maggiore della spesa dei proletari, con questi a subire, perciò, più di tutti il peso dell’aumento dei prezzi. Questo anche per il fatto che, mentre il costo dei prodotti ha continuato ad aumentare, i salari reali (la quantità di beni e servizi che i lavoratori possono acquistare con il loro stipendio) sono da anni in caduta libera: nel 2025 si registra circa un -9% rispetto al livello di gennaio 2021.

In questo articolo ripercorreremo l’origine dell’attuale fenomeno inflazionistico e come esso abbia impattato quasi esclusivamente sulla classe operaia e sui ceti popolari in generale. Il fenomeno dell’aumento dei prezzi e, quindi, del crollo dei salari reali è, infatti, da considerarsi come una strada inclinata: visto da un lato (quello dei lavoratori, dei disoccupati e delle loro famiglie, circa 8 italiani su 10) è una salita, visto dall’altro (quello degli imprenditori) è una discesa, perché corrisponde a risparmi sul costo del lavoro e a un aumento degli incassi.

Questo è testimoniato dal fatto che, al contrario di ciò che accade per la classe operaia, quella padronale italiana mantiene una performance economica solida: per esempio, secondo la fondazione nazionale dei commercialisti, tra aprile e giugno 2025 si è osservato un saldo positivo di 32.800 aziende, il più alto dell’ultimo quinquennio per lo stesso periodo; nel 2023 (ultimo dato disponibile) la quota di società in utile si attestava al 76%, sfiorando il 90% tra le PMI e Confindustria segnala a maggio 2025 un andamento positivo nel fatturato del trimestre (+0,3%), che segnerebbe il quarto trimestre consecutivo di crescita.

Mentre i lavoratori e le famiglie proletarie hanno sofferto nella maniera peggiore le conseguenze della crisi COVID-19 prima e di quella legata alle guerre imperialiste dopo, i padroni, grandi e piccoli, anche grazie all’aumento dei prezzi e al crollo dei salari, hanno scaricato sopra i primi le difficoltà, rendendo la natura di classe della crisi sempre più evidente.

L’aumento dei profitti come principale responsabile del carovita

Si ritiene comunemente che i fattori trainanti l’ondata inflattiva che ha cominciato ad aver luogo nel 2022 siano stati la ripresa dallo stallo economico legato al COVID-19 e l’aumento vertiginoso dei prezzi dell’energia (e del gas in particolare) legati alle sanzioni in risposta all’invasione russa in Ucraina. In realtà, alla luce dei dati, questi elementi possono essere considerati più come l’innesco – più o meno pretestuoso – di una pratica che ha visto coinvolti i capitali italiani ed europei in particolare, i quali hanno approfittato del clima emergenziale provocato da guerra e speculazione sulle materie prime per espandere a dismisura il prezzo di beni e servizi prodotti.

In particolare, la Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NADEF) già nel 2023 aveva realizzato un’analisi di quanto fosse aumentato il valore nominale dei beni e dei servizi prodotti dalle aziende al netto del valore delle materie prime (in altre parole: di quanto fosse aumentato il valore aggiunto prodotto dalla aziende). Durante il 2022, esso ha accelerato del 3% e i profitti hanno contribuito mediamente in misura maggiore alla sua variazione, rappresentando più del 60% dell’aumento complessivo. Ciò riflette la tendenza dell’aumento del profitto, in quel periodo, a rafforzare la pressione sui prezzi, contribuendo attivamente all’inflazione in Italia. D’altronde, la quota di valore aggiunto destinata ai salari  è calata di ben 12 punti percentuali tra il 2020 e il 2023, mentre quella destinata all’utile netto è aumentata di 14 punti. Per tradurre tutto ciò in termini marxiani, l’utile netto consiste nel profitto finale dell’azienda al netto anche delle tasse, dove il profitto è il plusvalore al netto di alcuni costi del capitalista, come quelli relativi all’acquisto e alla manutenzione dei mezzi di produzione (capitale costante). Naturalmente nell’utile netto possono essere comprese anche rendite finanziarie e altre tipologie di plusvalore estratto indirettamente dagli strati sociali più in sofferenza.

Sempre la NADEF del settembre 2023 ci offre un altro dato interessante riguardo all’anno precedente, dato che va a confermare la lettura secondo la quale il carovita non dipenda principalmente dall’aumento del costo delle materie prime ma dall’aumento dei profitti delle imprese che, per recuperare le perdite della crisi COVID-19, hanno sfruttato le incertezze del contesto bellico per speculare sui prezzi. È interessante che gli stessi documenti compilati dal governo riconoscano questo stato di cose.

Secondo la NADEF, nel dettaglio dei settori, quelli in cui si è registrata la più rapida crescita dei profitti sono – prevedibilmente – l’industria estrattiva e la fornitura di energia elettrica e gas, cui si affiancano, con incrementi relativamente più contenuti, l’agricoltura e i servizi finanziari e assicurativi, beneficiando questi ultimi dell’aumento dei tassi d’interesse da metà del 2022. Nell’insieme di questi settori, la crescita dei profitti ha contribuito per oltre il 90% alla variazione complessiva del valore dei beni e dei servizi prodotti dalle aziende al netto dei costi esterni nel 2022, mentre per la restante parte dell’economia la variazione dei profitti ha rappresentato, come abbiamo detto, in media, più del 60% dell’aumento del valore. Anche il settore di commercio e trasporto ha registrato una crescita continua, seppur moderata, dei profitti su tutto il periodo, mentre la manifattura ha più che compensato l’iniziale perdita subita, recuperando dalla seconda metà del 2022.

Il carovita è causato dai profitti: lo ammette anche il FMI

Oltre al governo italiano, un’altra istituzione borghese è stata costretta a riconoscere da tempo che la maggior causa dell’esplosione del carovita sono i profitti delle imprese, che hanno aumentato i prezzi a dismisura con il pretesto del caro energia. Infatti, questo è letteralmente ciò che documentava il Fondo Monetario Internazionale nel suo working paper di giugno 2023.

In esso si scrive: «confermiamo che i profitti unitari nell’area dell’euro sono fortemente aumentati e sono la principale contropartita all’aumento del deflatore del PIL. L’aumento dei profitti è stato maggiore nel settore minerario e dei servizi di pubblica utilità, ma è stato significativo anche nell’agricoltura, nell’edilizia, nella produzione e nei servizi ad alta intensità di contatto. Troviamo che i prezzi all’importazione rappresentano direttamente il 40% dell’inflazione in media dal 2022. Ma il ruolo dei profitti interni rimane significativo, rappresentandone poco meno del 45%, mentre il costo del lavoro solo il 25% dell’inflazione. Le imposte nette sono state leggermente disinflazionistiche durante il periodo e hanno quindi contribuito negativamente [ciò spiega perché la somma delle percentuali appena citate è maggiore di 100, n.d.r.]». Al di là della retorica padronale che attribuisce al “costo del lavoro” (ovvero ai salari) la causa degli squilibri del mercato, persino il FMI ammette quanto l’impatto di questo sia stato quasi la metà di quello dell’accrescimento dei profitti.

Oltre a questo, il FMI espone un dato molto interessante dal punto di vista dell’analisi marxista del periodo storico: la stagnazione del saggio di profitto medio (il rapporto tra il plusvalore – guadagno ottenuto sfruttando il lavoro – e la somma del capitale costante – investimenti in macchinari, materie prime – e del capitale variabile – salari) nonostante l’incremento in valore assoluto dei profitti stessi. Secondo il FMI, «sebbene i profitti nominali siano aumentati, ciò non è necessariamente vero per la redditività [saggio di profitto]. […] L’analisi degli economisti della Banca d’Italia delinea accuratamente la relazione tra quota di profitto e markup [la percentuale che viene sommata ai costi di produzione per determinare un prezzo di vendita che consenta la copertura dei costi generali e la realizzazione di un profitto, n.d.r.] e illustra le condizioni in cui possono muoversi in direzioni opposte. I dati per la Germania suggeriscono che la redditività nell’industria e nella produzione sia rimasta costante nel 2022, sebbene aumentata nell’edilizia, nella vendita al dettaglio, negli alloggi e nei trasporti. In Italia i markup nel 2022 sono stati sostanzialmente ai livelli pre-pandemia. La nostra lettura dei limitati dati basati sui conti nazionali per l’area dell’euro è coerente con ciò, indicando una redditività sostanzialmente costante piuttosto che in aumento».

Alla luce di queste informazioni, il carovita rappresenta bene uno degli stratagemmi del capitale, adottato proprio per conservare margini di redditività in un contesto in cui è ormai difficile mettere a valore le gigantesche quote di capitale accumulate negli anni.

Carovita, la BCE conosce il problema e sceglie la soluzione classista

La Banca Centrale Europea (BCE), per voce di uno dei membri del suo executive board, Fabio Panatta, ha più volte rilevato il fatto che l’inflazione esplosa in Europa sia da ascriversi alla speculazione sui prezzi da parte delle imprese in generale e solo marginalmente all’impennata dei prezzi dell’energia. Che un’istituzione borghese della massima importanza come la BCE abbia segnalato ciò dovrebbe dare la cifra di quanto fragile e contraddittoria sia l’attuale fase del capitalismo.

Ecco parte dell’intervista di Panatta di marzo 2023:

«Il tasso medio di inflazione per i 20 paesi che utilizzano l’euro è in calo da cinque mesi – al 6,9 per cento nel corso dell’anno fino a marzo – ma l’inflazione di fondo, che esclude la volatilità dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari, una misura utilizzata dai responsabili politici per valutare quanto profondamente l’inflazione si sta incorporando nell’economia, ha continuato a salire.

Le aziende potrebbero aumentare i prezzi a causa di costi di input più elevati (le spese di produzione dei loro beni o servizi), o perché si aspettano futuri aumenti dei costi, o perché hanno un potere di mercato che consente loro di aumentare i prezzi senza subire una perdita di domanda. Alcuni produttori potrebbero sfruttare i colli di bottiglia dell’offerta o approfittare di questo periodo di alta inflazione, il che rende più difficile per i clienti essere sicuri della causa degli aumenti di prezzo».

La BCE, in quanto istituzione che rappresenta gli interessi del ceto imprenditoriale al potere nelle dirigenze politiche e finanziarie dell’Unione Europea (che vieta interventi che interferiscano pesantemente sulla libera circolazione delle merci), pur riconoscendo il problema non poteva proporre una soluzione a beneficio della collettività quale – sarebbe stata, ad esempio, un serio controllo pubblico dei prezzi. La reazione della Banca Centrale è stata, invece, notoriamente, un lieve aumento dei tassi d’interesse, incrementando leggermente il costo del denaro e, quindi, del credito alle imprese, il che coincide, dal punto di vista borghese, col trasferire un po’ di ricchezza dai profitti “industriali” ai profitti delle rendite finanziarie, così da raffreddare un po’ la produzione, la corsa dei prezzi e recuperare una certa “equità tra padroni” (l’alta inflazione rischia di danneggiare molti tipi di rendita finanziaria). Naturalmente, una soluzione simile non è stata priva di ripercussioni di classe in quanto è andata a colpire soprattutto i proletari indebitati o che si dovevano indebitare, che sono stati costretti a pagare a loro volta tassi d’interesse più alti e sacrificati sull’altare dell’equilibrio del mercato.

Il report di Reuters

Uno scoop dell’agenzia Reuters (una delle più grandi agenzie di stampa al mondo) ha rivelato un vero e proprio studio dei tecnici della BCE, passato sotto silenzio, il quale ha messo in chiaro, in maniera ancora più univoca, che il fattore determinante dell’inflazione di questi anni sia stato l’incremento deliberato del profitto delle imprese, non tanto i costi dell’energia e (ovviamente) non l’aumento dei salari. L’analisi sarebbe stata presentata ad una riunione del consiglio governativo della BCE a Inari, in Finlandia, tenutasi il 22 febbraio 2023.

Citiamo la stessa Reuters: «[secondo i tecnici della Banca Centrale Europea] è chiaro che l’espansione degli utili ha svolto un ruolo importante nella storia dell’inflazione europea negli ultimi sei mesi o giù di lì. La BCE non è riuscita a giustificare ciò che sta facendo [alzare i tassi per combattere l’inflazione] nel contesto di una storia di inflazione più incentrata sul profitto. Le società di beni di consumo della zona euro, ad esempio, hanno aumentato i margini operativi a una media del 10,7% lo scorso anno, in aumento di un quarto rispetto al 2019, prima della pandemia globale e della guerra in Ucraina, mostrano i dati.

Le 106 aziende incluse nel sondaggio spaziavano dal proprietario di resort francese Pierre et Vacances alla casa automobilistica Stellantis al gruppo di beni di lusso Hermes e al rivenditore nordico Stockmann».

Come si vede nel paper della BCE riportato da Reuters, i profitti piuttosto che il costo del lavoro e le tasse hanno rappresentato la parte del leone negli aumenti dei prezzi interni nella zona euro dal 2021, secondo i calcoli della BCE basati sui dati Eurostat. In effetti, i salari erano cresciuti molto più lentamente dell’inflazione, il che implicava un calo del 5% del tenore di vita per il lavoratore medio nella zona euro rispetto al 2021.

Il carovita, dunque, è un effetto non solo della speculazione delle società dell’energia, ma della “speculazione” del mercato in quanto mercato, della necessità dei padroni di approfittare delle aspettative di crisi per giustificare un aumento spropositato dei prezzi e dei profitti senza aumentare i salari che, invece, vengono sempre considerati da tenere a bada proprio contro il rischio inflazione.

Conclusioni

L’aumento dei prezzi è stato spesso, storicamente, attribuito a fenomeni di carattere esogeno (venuti da “fuori”, come l’esplosione del prezzo del petrolio) e, soprattutto, alle rivendicazioni operaie e all’aumento dei salari concesso a questi, anche nel caso in cui (come nell’epoca della scala mobile) questo aumento costituiva più un adattamento a posteriori all’inflazione. Si tratta di testi sostenute persino dalla Banca d’Italia. Ma siamo in un contesto nel quale le buste paga sono al palo da lustri e tuttavia, in alcuni settori, l’inflazione accumulata sfiora il 30% negli ultimi 4 anni, come abbiamo visto. Mai come oggi è quindi necessario smentire scientificamente i luoghi comuni citati e cominciare a riflettere sul carattere di classe di molte spirali inflazionistiche, derivate invece dalla necessità del capitale di massimizzare ricavi e margini di profitto. Quello che per i proletari è l’aumento dei prezzi, per i padroni è l’aumento dei profitti, e da questa prospettiva di classe va organizzata la battaglia contro il crollo degli standard di vita della maggioranza della popolazione.

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Domenico Cortese

Domenico Cortese, nato a Tropea nel 1987, dottore di ricerca in Filosofia e Storia. Gestisce il blog Il Capitale Asociale su FB e IG, è membro del comitato centrale del Fronte Comunista, in cui milita dalla sua fondazione. Collabora con L'Ordine Nuovo su argomenti di economia e attualità.

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