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Due successi e due problemi irrisolti dell’intervento dei comunisti nel movimento operaio spagnolo

Di Redazione
25/05/2025
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Dai Collettivi dei Giovani Comunisti (CJC) – Spagna
5 maggio 2025
Link all’originale

 

I compleanni sono sempre un buon momento per una retrospettiva storica. Chi non ha mai guardato in lontananza mentre spegneva le candeline per il proprio compleanno? In questo articolo metteremo in evidenza due successi che hanno portato i comunisti del nostro Paese a diventare la forza egemone del movimento operaio tra gli anni Quaranta e Settanta e due problemi che hanno contribuito alla fine dell’egemonia comunista negli anni Ottanta. Questo processo di ascesa e caduta contiene molti insegnamenti per i giovani comunisti di oggi, affinché assumano il compito di ricamare il cielo di domani.

1. Sfruttare il bug. La tattica del PCE nel sindacato verticale

Continuando con la metafora dello slogan del nostro anniversario, se parliamo di ricamare il cielo del domani, il PCE[1] nel 1936, più che ago e filo, disponeva di un enorme telaio meccanico volante composto da migliaia di quadri, con il potenziale – nonostante l’errore di assumere la teoria delle tappe[2] come strategia rivoluzionaria – di filare finemente ogni lotta quotidiana della classe con un orizzonte politico comune. La vittoria del franchismo ha disarticolato questo telaio attraverso l’incarcerazione e l’assassinio sistematico di molti di questi quadri. In questo modo, gran parte dell’influenza che il comunismo aveva avuto sul movimento operaio durante la repubblica andò bruscamente persa.

Ma la repressione aperta non fu l’unico meccanismo del franchismo contro i suoi nemici politici. Ispirandosi direttamente al nazifascismo, promosse l’integrazione dei conflitti di lavoro all’interno dell’apparato statale. Tollerando le rivendicazioni intese come espressione degli interessi professionali e corporativi dei salariati, le mutilò della loro dimensione politica, quella capace di mettere al centro la questione del potere dentro e fuori le fabbriche. Questa integrazione nello Stato avvenne attraverso l’Organizzazione Sindacale Spagnola (OSE), meglio conosciuta come Sindacato Verticale, che rappresentava l’insieme dei produttori, termine che nella terminologia del regime indicava lavoratori e datori di lavoro.

Gli operai potevano “eleggere” i loro rappresentanti – i referenti sindacali e le giurie[3] dell’OSE – che in pratica svolgevano una funzione più vicina a quella di responsabili delle risorse umane che a quella di portavoce della forza lavoro. Il franchismo cercava di incastrare il movimento operaio in un apparato burocratico-sindacale che attutisse e integrasse le contraddizioni derivanti dalla lotta tra il capitale, che ha bisogno e vuole guadagnare di più, e il lavoro, la classe operaia, che istintivamente lotta per migliorare le proprie condizioni di vita, per avere vite migliori.

Nonostante le intenzioni di Franco, il sindacato verticale non riuscì ad attutire sufficientemente la contraddizione di classe. Oltre al fatto che la sfiducia era totale; proprio come oggi, la classe operaia non aveva bisogno di rappresentanti per generare istintivamente le proprie – seppur limitate – difese dalla violenta esperienza quotidiana. Lo sguardo sprezzante al capo, la pausa sigaretta e la conseguente conversazione con i colleghi su quanto si è stufi… sono comportamenti adattivi alla condizione di sfruttato: valvole di sfogo suscettibili di essere incanalate in altro.

Nonostante la repressione, i nuovi lavoratori urbani, provenienti dalle campagne, si mescolarono con lavoratori forgiati nella tradizione industriale, formati politicamente nel movimento operaio pre-franchista. Molti di loro erano vecchi comunisti, con spirito organizzativo; sopravvissuti alla repressione che, in condizioni di clandestinità, erano in grado di agire come trasmettitori di cultura militante. La crescita quantitativa della classe operaia – dovuta, tra l’altro, all’emigrazione dalle campagne -, le condizioni di miseria di un Paese che si risollevò economicamente dalla guerra solo vent’anni dopo e la presenza di una tradizione di lotta tramandata clandestinamente, crearono le condizioni perché i comunisti svolgessero un lavoro attivo e proficuo nei luoghi di lavoro.

In questo contesto, il PCE si trovava a dover scegliere tra due tattiche: continuare la guerriglia o dedicarsi al lavoro di massa. In seguito al consolidamento del regime franchista dopo la seconda guerra mondiale, la seconda tattica acquisì una certa forza politica. Restava solo da definire questa tattica, che fu oggetto di un acceso dibattito dall’inizio degli anni Quaranta alla metà degli anni Cinquanta. Il dibattito era tra una politica di sostegno ai sindacati repubblicani che, come l’UGT[4], operavano clandestinamente, o l’ingresso nelle organizzazioni di Franco come strumento di lotta. Il PCE finì per optare per quest’ultima soluzione, poiché divenne gradualmente chiaro che era la più efficace nella pratica.

Questa tattica si basava sull’organizzazione che il PCE aveva nelle fabbriche, favorito dalla struttura cellulare. Le cellule indirizzarono tatticamente l’ingresso della loro militanza nelle fabbriche che avevano il maggior numero di operai e le migliori condizioni per l’influenza comunista; e orientarono il loro intervento dall’interno con l’obiettivo di acquisire referenzialità. Questa referenzialità non era artificiale, ma il risultato del principio di essere i migliori compagni e pari, cioè da comunisti, adattando questo lavoro, naturalmente, ai quadri repressivi esistenti e alle conseguenti tattiche del partito.

Questi quadri comunisti parteciparono alle elezioni dell’OSE per occupare le posizioni di rappresentanza dei lavoratori offerte dal sindacato verticale. La maggiore protezione contro il licenziamento e il potere di contrattazione nei confronti del datore di lavoro furono utilizzati a favore di una migliore organizzazione dei lavoratori in fabbrica. In altre parole, servivano ai comunisti come supporto per dimostrare, nella pratica, l’utilità del movimento operaio e della lotta sindacale quando era condotta principalmente dai lavoratori stessi e non esclusivamente dai rappresentanti e dagli organi del regime. Il PCE seppe usare le leve del sistema a suo vantaggio e sfruttare i suoi limiti per evidenziare il carattere di classe del regime di cui l’OSE era solo un’altra appendice. La tattica diede i suoi frutti. L’uso strumentale del sindacato verticale, sempre subordinato alla capacità di costruire il potere e la partecipazione dei lavoratori, permise al PCE di consolidarsi nei grandi centri industriali negli anni Cinquanta, in un momento di generale ricomposizione del movimento operaio[5].

Questa è la prima lezione per il nostro presente: lottare in tutte le condizioni, cercando sempre il contatto con la classe; e analizzare concretamente l’utilità delle strutture giuridiche esistenti come possibili mediazioni tattiche per stimolare la lotta di classe. Per tornare al nostro presente: se passate più tempo a parlare con altri comunisti che con i vostri compagni di lavoro o di classe, se rifiutate a priori un sindacato o un quadro giuridico senza un’analisi concreta delle possibilità di lavoro al suo interno, o se utilizzate le posizioni nei sindacati o nelle strutture giuridiche solo per “rappresentare” e non per organizzare e garantire una maggiore partecipazione del resto dei lavoratori, state sbagliando.

2. Agire come partito: il processo di essere l’intellettuale collettivo organico della classe operaia

La tattica del sindacato verticale ha funzionato grazie alla capacità dei quadri comunisti di trasferire ai nuovi militanti un principio bolscevico fondamentale: il principio secondo cui la forza del Partito si costruisce principalmente sull’intervento nella lotta di classe. Un comunista doveva sempre lavorare per la classe partendo dalla classe. Non poteva isolarsi. La prima e principale questione doveva sempre essere l’aumento della capacità di lotta della classe. Quando il partito era già consolidato in un luogo di lavoro, bisognava pensare all’estensione al prossimo spazio non organizzato. Essere comunisti senza intervenire sulla classe, senza essere organizzati, non ha senso. Questo principio fondamentale della cultura militante bolscevica era molto presente nel PCE quando cominciarono a sorgere le prime commissioni operaie[6].

Queste commissioni erano gruppi di lavoro eletti dai lavoratori per rappresentare la forza lavoro durante le trattative con i datori di lavoro. La loro origine era spontanea: si formavano per denunciare e chiedere miglioramenti delle condizioni di lavoro e si scioglievano dopo una parziale vittoria o sconfitta contro i datori di lavoro. Il loro successo iniziale e la loro diffusione sono dovuti alla difesa di rivendicazioni molto sentite dalla forza lavoro, e quindi con un alto grado di sostegno collettivo. Le commissioni operaie hanno permesso di superare i quadri di negoziazione e partecipazione del sindacato verticale, basando la loro legittimità sulle assemblee dei lavoratori e non sulla legalità di Franco. Questo superamento non implicava l’abbandono dell’uso utilitaristico del sindacato verticale. Il fatto che i partecipanti a queste commissioni si candidassero anche alle elezioni per il collegamento sindacale permetteva non solo una migliore posizione contrattuale, ma anche una sfida simbolica alla legittimità del regime quando i candidati delle commissioni vincevano su quelli del franchismo. Il carattere partecipativo delle commissioni educò politicamente la forza lavoro e permise l’introduzione di richieste politiche che ponevano la questione del potere in azienda e segnalavano il carattere di classe del regime.

A molte di queste prime commissioni operaie parteciparono attivamente i quadri del PCE, che trasmisero il fenomeno da esse rappresentato all’apparato centrale. La dirigenza in esilio del PCE lesse le commissioni come una risposta originale del movimento operaio ai suoi problemi ed elaborò una strategia, applicata negli anni ’60 e ’70, per sviluppare queste commissioni al di là dei loro approcci iniziali.

Due successi e due problemi irrisolti dell'intervento dei comunisti nel movimento operaio spagnolo

Miniera di La Camocha (Asturie). Durante uno sciopero a La Camocha, fu fondata la prima commissione di lavoratori, una pietra miliare nella fondazione delle Comisiones Obreras

Questa strategia aveva quattro linee fondamentali. La prima era quella di fare dei comitati operai un movimento che sopravvivesse nel tempo, cioè che non si sciogliesse una volta terminata la negoziazione degli accordi. La seconda era quella di estendere il loro ambito territoriale al di là del livello di fabbrica, istituendo comitati regionali e anche per ramo di produzione. La terza era quella di utilizzare i comitati operai come piattaforma per la partecipazione alle elezioni dei funzionari di collegamento e delle giurie sindacali del sindacato verticale. La quarta è stata quella di dare al movimento un carattere socio-politico, incorporando richieste che andassero oltre la lotta aziendale sul posto di lavoro. In questo modo, le commissioni operaie fecero proprie e promossero le richieste che nascevano dai quartieri popolari sovraffollati e privi di servizi, collegandole globalmente alla denuncia del carattere dittatoriale del regime e ponendo il suo superamento come condizione necessaria per il miglioramento della vita. Attraverso l’applicazione di queste quattro linee di intervento, le commissioni operaie divennero un punto nevralgico da cui organizzare la lotta contro il franchismo sia all’interno che all’esterno della fabbrica. La strategia del PCE di sviluppare le commissioni operaie si rivelò corretta e fu accettata organicamente, cioè attraverso la sua adozione consapevole e collettiva, da molti dei dirigenti delle commissioni operaie nei luoghi di lavoro, e quindi da ampi strati di lavoratori che non facevano parte del PCE ma che cominciavano a vedere nel PCE il miglior rappresentante dei loro interessi.

Da un punto di vista teorico e astraendo dalle sfumature storiche, possiamo dire che il PCE divenne l’intellettuale collettivo organico dei settori più avanzati e organizzati della classe operaia. Intellettuale nella misura in cui elaborava una politica d’azione concreta basata sulla riflessione e sulla comprensione del capitalismo e dello sviluppo della lotta di classe. Collettivo in quanto questa elaborazione è stata fatta sulla base dell’esperienza di militanza accumulata attraverso la partecipazione attiva alle lotte della classe operaia. Organico perché le elaborazioni politiche e ideologiche del partito provenivano dalla classe stessa ed era la classe stessa ad appoggiare o meno le posizioni del partito nelle organizzazioni e nei movimenti di massa; il partito fungeva da collegamento tra spontaneità e coscienza.

Da questo processo di successo deriva la seconda lezione: diventare l’intellettuale della classe, il “Partito” con la maiuscola se volete, è un processo. Questo processo consiste nel suo progressivo riconoscimento da parte della classe operaia come l’organizzazione che meglio rappresenta i suoi interessi. Questo riconoscimento è possibile quando l’azione ideologica, politica e organizzativa del partito riesce a far pendere decisamente la bilancia a favore della classe operaia nelle diverse istanze e livelli in cui si sviluppa la lotta di classe.

Due successi e due problemi irrisolti dell'intervento dei comunisti nel movimento operaio spagnolo

Assemblea dei lavoratori a Burgos. Fotografia scattata nel luglio 1976, la prima assemblea dei lavoratori promossa dalla CCOO che si svolgeva ancora illegalmente

Per questo è essenziale che il lavoro comunista nei conflitti concreti si stabilisca e si elevi, e questo è possibile attraverso la forma di organizzazione cellulare. La presenza radicata permette alla sua politica di abbeverarsi alla realtà e di essere corretta e ispirata dall’azione stessa dei lavoratori che aspira a integrare nelle sue file. Ma questa implementazione e correzione è inutile se non ha nulla da proporre alla classe: l’organizzazione cellulare funziona se c’è un centro egemonico che produce ideologicamente ed elabora politicamente, che analizza il capitalismo e la correlazione di forze e muove e orienta le forze comuniste in modo unitario per muovere strati crescenti della classe, per elevare la capacità di lotta e la partecipazione della classe in direzione del superamento rivoluzionario del capitalismo.

Lo studio concreto della storia del PCE in questo periodo (dalla fine degli anni ’40 al 1978) dovrebbe farci riflettere su come questo processo di costruzione del “Partito” non possa essere segmentato e amputato in parti. Esiste una continuità organizzativa e strategica tra il PCE indebolito e marginalizzato in gran parte del Paese negli anni Quaranta e Cinquanta e il PCE come forza egemonica negli strati più organizzati del proletariato di tutto lo Stato nella prima metà degli anni Settanta. Inoltre, una volta raggiunta la posizione di “Partito” a lettere maiuscole, le forme di lavoro che lo avevano portato a costituirsi come tale furono rafforzate, anche se contenevano forti difetti di principio.

Di conseguenza, la separazione tra partito in minuscolo e in maiuscolo perde completamente di significato quando si analizza lo sviluppo storico concreto delle organizzazioni rivoluzionarie. Invece di stabilire separazioni, è molto più interessante capire come avviene in realtà il processo per cui un’organizzazione d’avanguardia – cioè un’organizzazione il cui obiettivo strategico è la rivoluzione socialista – diventa l’intellettuale della classe operaia attraverso il collegamento organico con le masse, le loro sfere di socializzazione, le loro lotte e le loro forme di strutturazione. Questo si concretizza nella pianificazione dell’attività politica sui conflitti quotidiani della classe, nella misurazione del successo di questa pianificazione e nella capacità di avere elaborazioni politico-ideologiche che coprono la totalità capitalista in modo più profondo e più ampio. In breve, si tratta di non perdersi nell’astrazione e di concentrare i nostri sforzi sulla comprensione e sulla pratica dei processi attraverso i quali organizzazioni come il PCE hanno finito per diventare il punto di riferimento di ampi settori della nostra classe.

3. Il primo problema. Il ruolo del partito nel movimento operaio

Questi due successi del PCE – lavoro di massa ed egemonia – contribuirono in modo decisivo a renderlo il principale partito di opposizione al franchismo nella prima metà degli anni Settanta. Ma la realtà è sempre contraddittoria e complessa: in quegli stessi anni cominciarono a emergere tutta una serie di problemi nel rapporto tra il PCE e il movimento operaio, sia interni che esterni, nazionali e internazionali, che si sarebbero accelerati con la transizione.

I 40 anni di clandestinità hanno influenzato notevolmente la fisionomia del PCE e, con essa, il flusso di informazioni e decisioni all’interno del partito e, per estensione, del movimento operaio. Le organizzazioni di base erano iperdipendenti dai quadri personali, che erano gli unici a comunicare con la dirigenza in esilio. La dipendenza da questi quadri favorì l’esistenza di cricche di potere locali. Queste condizioni sono state aggravate dallo stile di leadership di Santiago Carrillo, che non era incline a un ampio dibattito sulle decisioni della dirigenza: il tempo tra i congressi – che potevano essere tenuti in esilio – era intenzionalmente ritardato, e c’era poco incoraggiamento alla discussione organica all’interno del PCE. I disaccordi non potevano essere risolti all’interno del quadro istituzionale del PCE e, di conseguenza, anche se c’erano alcuni accordi generali, si creavano le condizioni ideali per la biforcazione delle opinioni, soprattutto sulle questioni relative al movimento operaio, favorendo la crescita di frazioni e correnti ideologiche.

D’altra parte, proprio questa situazione di clandestinità rendeva difficile per il PCE un’azione diretta, costante e autonoma nei luoghi di lavoro. Ciò favorì una progressiva differenziazione, un divorzio, tra i militanti comunisti che erano nelle commissioni e quelli che si dedicavano esclusivamente al lavoro di partito nella clandestinità. Insieme alle pressioni della clandestinità, la strategia tappista di prendere il potere attraverso la vittoria elettorale – rafforzata da altre esperienze nazionali come il Cile di Allende o la possibilità di vittoria elettorale del PCI in Italia – ebbe anche forti implicazioni organizzative che indebolirono l’intervento diretto e pianificato del PCE nei luoghi di lavoro.

In particolare, a metà degli anni Settanta, furono abolite le cellule comuniste settoriali, rompendo con l’organizzazione dei comunisti basata sulla produzione e privilegiando i raggruppamenti territoriali: grandi assemblee di militanti raggruppati per territorio. I raggruppamenti territoriali rendevano ancora più difficile l’intervento specifico nei luoghi di lavoro, collocando nello stesso spazio organico militanti con situazioni molto diverse, in contrasto con la concretezza consentita dalle cellule settoriali.

Questa combinazione di fattori interni ed esterni portò a sua volta a una costante confusione e a problemi organizzativi nei rapporti tra il PCE e le commissioni operaie. Le lotte tra correnti e frazioni furono trasferite alle commissioni, che erano viste come il fiore all’occhiello dei comunisti. Non era raro che i militanti del PCE arrivassero alle riunioni chiave delle commissioni senza una posizione consensuale o in un confronto diretto. Né era raro che questioni di esclusiva competenza del PCE venissero discusse negli organi del sindacato. Alla base di questi problemi c’era la mancanza di chiarezza tra i confini del partito di massa eurocomunista e l’organizzazione socio-politica che erano le commissioni operaie.

Il nuovo scenario che si delineò durante la transizione accelerò rapidamente le conseguenze di questa mancanza di chiarezza. Da un lato, l’azione del governo Suárez e del duo PSOE-UGT fu orientata, a partire dal 1975, a impedire con ogni mezzo un aumento della forza comunista nel movimento operaio. Suárez fu ben consigliato da consulenti americani, esperti nell’epurazione dei comunisti all’interno del movimento operaio, con l’obiettivo di attenuare l’influenza del PCE. D’altra parte, il PSOE e l’UGT, nella loro strategia di diventare la principale forza di “sinistra”, evitarono la collaborazione diretta con il PCE e le commissioni operaie. Rifiutarono la costituzione di una centrale sindacale unitaria nel 1976, creando di fatto un ambiente sindacale competitivo che favorì la disunione e la frammentazione della classe operaia. Suárez approfittò di questa competitività per favorire l’UGT, legalizzandola mesi prima delle commissioni operaie. Questo, insieme agli ingenti finanziamenti che sia l’UGT che il PSOE ricevettero dai partiti socialdemocratici europei, assicurò la diffusione a livello nazionale di un sindacato che era stato inattivo per la maggior parte degli anni del franchismo.

Il consolidamento della UGT fece decidere al PCE di trasformare il movimento delle commissioni operaie in una centrale sindacale che doveva competere nelle elezioni sindacali; questa volta non contro i delegati del regime franchista, ma contro un altro sindacato di classe. I forti e profondi dibattiti all’interno del PCE sul tipo di sindacalismo che le commissioni operaie avrebbero dovuto intraprendere contrastano con l’assenza di sviluppi sul tipo di relazione che il PCE avrebbe dovuto avere con il movimento operaio in generale, al di là del proprio intervento all’interno delle commissioni operaie.

4. Il secondo problema. Evitare l’isolamento; evitare di diventare un nuovo PSOE[7]

La mancata chiarificazione del ruolo del PCE nel movimento operaio era uno dei tanti problemi derivanti dalla strategia eurocomunista, ovvero dall’idea che il socialismo potesse essere raggiunto attraverso l’estensione della democrazia all’interno delle democrazie capitalistiche liberali. Il presupposto per questa “estensione” era la fine della dittatura e la transizione a una forma di governo democratica e antimonopolistica. Il raggiungimento di questa “tappa” è stato l’obiettivo strategico fondamentale del PCE per più di 30 anni. A tal fine, il PCE aveva optato per la costruzione di un doppio potere, ossia di istituzioni operaie in diretto confronto con lo Stato franchista, come le commissioni operaie. Tuttavia, nel momento in cui si apriva la transizione, la leadership del PCE rifiutò lo sviluppo di questo doppio potere contrapposto allo Stato. Una volta aperta la possibilità di trasformazione dello Stato, il doppio potere, gli “spazi di libertà” che esistevano all’interno del franchismo, cessarono di avere senso in sé. Così i movimenti e le strutture di massa in cui il PCE era egemone furono subordinati alla costruzione di istituzioni più democratiche all’interno dello Stato capitalista, invece di svilupparsi autonomamente. La dirigenza del PCE, coerentemente con la politica eurocomunista, ha così tracciato le linee strategiche che sono state riprese, con sfumature diverse, da tutte le formazioni a sinistra del PSOE con strategie tappiste a partire dagli anni Settanta e che sono ancora oggi presenti in Podemos, Sumar e altre forze.

In tutto l’articolo abbiamo evitato di chiamare il PCE revisionista o socialdemocratico perché, se lo studio della storia del movimento comunista in Spagna ci insegna qualcosa, è che le etichette servono a farci sentire bene, ma non a capire e tanto meno ad agire. Quindi, invece di chiamare Santiago Carrillo revisionista per essere il principale responsabile e la mente della strategia eurocomunista in Spagna, diremo che ha il dubbio onore di inaugurare una lunga lista di leader politici a sinistra del PSOE che hanno pensato di allearsi con esso per raggiungere i loro obiettivi. Ma Santiago Carrillo e le migliaia di comunisti del PCE che sostennero le sue tesi non erano degli sprovveduti, né rivedevano le tesi del leninismo solo per il gusto di farlo. Se cerchiamo nella storia strumenti di trasformazione invece di compiacerci, dobbiamo accettare il principio che nessuno è il cattivo del proprio film.

La revisione dei principi leninisti da parte dell’eurocomunismo rispondeva a una correlazione storica di forze (il confronto internazionale tra URSS e USA); e la sua logica aveva una logica interna che è importante comprendere, perché coinvolge il problema essenziale che tutto il movimento comunista del secolo scorso non ha saputo risolvere nei Paesi occidentali. La questione era la seguente: una volta conquistata l’“avanguardia operaia”, cioè i settori più militanti della classe operaia, per il campo della rivoluzione, come estendere l’influenza del partito sul resto degli strati sociali. L’isolamento da questi strati minacciava il PCE, a causa della pressione che il PSOE e l’UGT erano in grado di esercitare in un momento in cui lo sviluppo del capitalismo e la correlazione delle forze rendevano possibili alcuni miglioramenti per la classe operaia senza la necessità di appellarsi alla trasformazione radicale del sistema capitalista attraverso la costruzione del potere di classe.

Questa pressione dovuta al problema dell’isolamento si trasferì alle commissioni stesse, che iniziarono a vedere i loro legami con il PCE come un problema per consolidare la loro posizione di principale centro sindacale del Paese. La moderazione del PCE fu un tentativo di evitare questo isolamento e di avvicinare il partito alle classi professionali e intellettuali. Una moderazione che fu spinta anche dai settori “rinnovatori” che provenivano dai settori professionali e intellettuali e che non erano più legati alla tradizione della Terza Internazionale, come lo erano Carrillo e altri vecchi dirigenti del PCE. In breve, la strategia eurocomunista aveva provocato un colpo di coda grazie al quale i settori benestanti con posizioni di leadership all’interno della classe operaia, cioè l’aristocrazia operaia in termini leninisti, potevano spingere con forza i loro interessi all’interno del Partito.

La moderazione non ha funzionato. Il PSOE divenne il principale partito di opposizione, cementando un sistema bipartitico senza il PCE. Il PCE fu legalizzato, partecipò alla stesura della Costituzione e alla firma dei patti della Moncloa, che si rivelarono molto insoddisfacenti per la classe operaia. Iniziò un declino in cui il PCE egemone perse rapidamente terreno nei confronti di un rinnovato PSOE che iniziava a porre le basi per diventare il principale partito statale dopo la transizione grazie, in gran parte, alla sua efficace influenza sul movimento di massa.

La sconfitta della strategia di moderazione del PCE ha scosso un partito che per molti anni era stato criticato per questa strategia. L’abbandono da parte della dirigenza del PCE di gran parte dei suoi tratti distintivi nel processo di moderazione, tra cui l’abbandono nominale del leninismo e la conciliazione con il governo nel bel mezzo di una grave depressione economica, ha causato una grave crisi in gran parte della sua militanza. Una crisi rafforzata dalla sensazione che il PCE stesse frenando la lotta di piazza per soddisfare le aspirazioni di presentarsi come un partito di governo e rispettabile. Il PCPE[8] e i CJC[9] hanno raccolto gran parte di questo malcontento rispettivamente nel 1984 e nel 1985.

La frammentazione dello spazio politico comunista, nel contesto dell’offensiva capitalista degli anni Ottanta, ebbe ripercussioni sul movimento operaio. Le dispute tra i partiti si trasferirono al sindacato, le strategie dei partiti si scontrarono e resero difficile una pratica comune, la mancanza di unità dei comunisti nel movimento di massa divenne così un problema aggiuntivo a una relazione già molto lacunosa e complessa tra le organizzazioni politiche e le CCOO, che erano riuscite a stabilizzarsi come principale forza sindacale del Paese insieme alla UGT. La situazione nazionale e internazionale, soprattutto con l’inizio della perestrojka in URSS, impedì al PCPE di elaborare una strategia chiara.

Né la strategia eurocomunista e la vita interna del PCE di Carrillo, poi proseguita con sfumature dai suoi successori, né la contraddittoria dinamica di resistenza che impregnava allora il PCPE, permisero di riprendere adeguatamente il problema su cui i principali quadri della Terza Internazionale avevano iniziato a riflettere dopo il fallimento del periodo di rivoluzioni in Europa aperto dalla Rivoluzione d’Ottobre. Ovvero: come fare la rivoluzione nel complesso quadro sociale delle democrazie liberali capitaliste senza essere isolati, socialmente e politicamente, dall’azione del riformismo socialdemocratico nel movimento operaio.

5. Ricominciare da capo

Questa volta non è stato l’annientamento fisico, ma i meccanismi di consenso e l’azione socialdemocratica in un contesto di offensiva capitalista a minare progressivamente l’influenza comunista. Dopo la caduta dell’URSS, le capacità di leadership dei comunisti languirono ancora di più e si è cronicizzata la mancanza di una strategia unitaria e operativa – cioè che andasse oltre l’accettazione formale – nei confronti dei sindacati e del movimento operaio in generale. Ma il capitalismo, nel suo sviluppo, pianta anche i semi delle sue future contraddizioni. Come il movimento operaio, noi comunisti siamo il frutto del modo di produzione stesso. Nonostante la brutale sconfitta del XX secolo, esistiamo ancora e, man mano che le ferite si rimarginano, possiamo esaminare meglio i successi, gli errori e i problemi irrisolti derivanti da questa sconfitta.

Il PCE ha fatto bene a utilizzare il sindacato verticale e a fondersi con la classe dopo il fallimento della politica di guerriglia. Riuscì anche ad assumere la funzione di intellettuale collettivo organico, anche se la sua influenza sulla classe fu limitata. I comunisti del PCE e del PCPE non sono riusciti a elaborare una nuova politica di successo che chiarisse le relazioni tra partito e movimento operaio nel nuovo contesto sindacale democratico. Né sono stati in grado di mettere in campo una strategia rivoluzionaria capace di evitare l’isolamento in cui sono stati spinti dalla socialdemocrazia, sia all’interno del movimento operaio che al di fuori di esso.

Due successi e due problemi irrisolti dell'intervento dei comunisti nel movimento operaio spagnolo

Sciopero nell’edilizia a Madrid 1980

Come PCTE e CJC continuiamo a svolgere un profondo lavoro di analisi di questi apprendimenti, con l’obiettivo di integrare i successi nella nostra pratica militante. L’adozione della svolta operaia come politica di partito significa dare nuovamente priorità all’intervento tra la classe rispetto alla politica dell’unità astratta, il che ci ha permesso di accumulare una grande esperienza nei movimenti operai, studenteschi e di quartiere. Abbiamo anche realizzato interventi di attivazione, estensione, strutturazione e consolidamento dei movimenti di massa in modo efficace, assumendo con umiltà ma con decisione i compiti storici del partito comunista.

Ciò significa guardare in faccia i problemi fondamentali che la realtà e la storia ci pongono e affrontarli e risolverli attraverso il dibattito e l’azione collettiva. Quattro anni fa abbiamo tenuto la III Conferenza sul Movimento Operaio e Sindacale, in cui abbiamo discusso i compiti del partito in questo ambito. Gli accordi della conferenza sono ora linee guida per l’intervento, che ancora con molto da imparare chiariscono il ruolo del Partito nel movimento operaio. Nel 2021 il Manifesto Programmatico ha riassunto gli elementi fondamentali della nostra strategia. Nel 2025, quattro anni dopo, proponiamo di sviluppare e approfondire alcune delle sue linee guida nel Congresso del PCTE, interrogandoci sul partito di cui, sulla base di queste, la nostra classe ha bisogno. In tutte le condizioni, tenendo conto della realtà che ci è stata lasciata in eredità, essere comunisti significa essere responsabili dei compiti della rivoluzione.

 

Note

[1]: Partido Comunista de España – Partito Comunista di Spagna, fondato nel 1921. Nota del traduttore. 

[2]: La strategia delle tappe è un orientamento strategico che indica la necessità di realizzare forme statali intermedie prima di arrivare alla dittatura del proletariato. Nel contesto dell’ascesa del fascismo negli anni Trenta, la tattica dei fronti antifascisti divideva la borghesia in due sezioni, una reazionaria e l’altra democratica. Pertanto, di fronte al fascismo, il primo passo fu quello di mantenere una repubblica democratica sostenuta da queste frazioni borghesi democratiche, che doveva essere consolidata prima di fare il salto verso la repubblica socialista. Questa strategia “a tappe” si traduce nel rinvio dei compiti di fare la rivoluzione nel presente. La strategia delle “tappe” popolar-frontiste è stata poi accompagnata da altre come la “riconciliazione nazionale” o la “repubblica antimonopolistica”, che hanno continuato a stabilire tappe intermedie tra lo Stato capitalista e lo Stato proletario.

[3]: Organi di “co-gestione” corporativista delle aziende, presieduti dai proprietari o direttori d’azienda, in cui partecipavano i lavoratori. Per approfondire, si veda qui. Nota del traduttore.

[4]: Unión General de Trabajadores – Unione Generale dei Lavoratori, tra i più importanti sindacati spagnoli, fondato nel 1888 e legato al PSOE socialdemocratico. Nota del traduttore.

[5]: In questa ricomposizione, le organizzazioni cattoliche nell’ambito della dottrina sociale della Chiesa, come la JOC e l’HOAC (Juventud Obrera Cristiana – Gioventù Operaia Cristiana e Hermandad Obrera de Acción Católica – Fratellanza dei lavoratori di Azione Cattolica, NdT), svolsero un ruolo fondamentale e servirono da punto di contatto per molti giovani che avrebbero finito per diventare quadri importanti del PCE. Il PCE, a sua volta, sviluppò una tattica verso questi settori come risultato della politica di riconciliazione nazionale.

[6]: Comisiones Obreras – Commissioni Operaie, CCOO. Nota del traduttore.

[7]: Nell’originale, ci si riferisce al meme popolare in Spagna noto come “You have been PSOED”, con l’uso del nome del partito come fosse un verbo in forma passiva. Nota del traduttore.

[8]: Partido Comunista de los Pueblos de España – Partito Comunista dei Popoli di Spagna, fondato nel 1984 in opposizione alla linea eurocomunista del PCE. Nota del traduttore.

[9]: Colectivos de Jóvenes Comunistas – Collettivi dei Giovani Comunisti, organizzazione giovanile del PCPE fino al 2017, data della fondazione del Partito Comunista dei Lavoratori di Spagna (PCTE) al quale i Collettivi si affiliarono. Nota del traduttore. 

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