La Dom Pavlova è un edificio di quattro piani che non presenta segni particolari. Si erge in via Sovestkaya 39 vicino al centro di Volgograd, la città che fino al 1961 ebbe il nome di Stalingrado. Un palazzo anonimo, come ce ne sono stati tanti, ma in una posizione ottima per controllare piazza 9 gennaio, con una visuale eccellente sui quattro punti cardinali. Per questo il 22 settembre 1942, il sergente Pavlov, al comando di trenta uomini, ebbe l’ordine di strapparlo ai tedeschi che l’avevano occupato nel corso della loro penetrazione all’interno del centro urbano. Cinque giorni di combattimenti frenetici e assalti serrati, coronati dal successo solo il 27 settembre. A entrare nel condominio sono Pavlov e solo quattro sopravvissuti, insieme a un gruppo di civili. Li raggiungerà un altro plotone, sottodimensionato, portando l’organico dei combattenti a ventinove.
La Wermacht tenterà per due mesi, fino al 25 di novembre, di recuperare la posizione perduta senza mai però ottenere successo. I difensori hanno trasformato la costruzione in un fortino imprendibile, circondandolo di filo spinato, bucando muri e pavimenti per permettere rapidi passaggi da una parte all’altra. Dormivano sulla lana strappata dall’isolante dei muri a turni, mentre nel resto del tempo frustravano, un pugno di uomini, l’avanzata dei reparti corazzati del III Reich. A fine novembre, dopo sessanta giorni di strenua resistenza, Pavlov verrà raggiunto dal grosso dell’Armata Rossa in contrattacco su tutta la città, potendo finalmente riposarsi. Un episodio che, agli occhi della storia militare, mostra quanto la determinazione possa pesare all’interno di un conflitto, e l’intero svolgersi della battaglia di Stalingrado, tra il 23 agosto 1942 e il 2 febbraio 1943, sembra un manifesto in proposito.
Il 22 giugno 1941 il III Reich aveva dato inizio all’Operazione Barbarossa. Dopo due anni di conflitto in Europa e Nord Africa, le potenze dell’Asse si trovavano al culmine della loro capacità militare, e anche l’Inghilterra, per quanto non ancora arresa, sembrava fosse sul punto di crollare. Le insegne con la croce uncinata, spesso abbinate a quelle con il tricolore crociate, sventolavano su decine di città che fino a due anni prima avevano fatto parte di Paesi indipendenti. La macchina da guerra di Hitler godeva di un’aura di imbattibilità conquistata sul campo e comprovata dall’estendersi delle conquiste nazionalsocialiste.
Se ad ovest, a fermare l’avanzata della Wehrmacht vi è l’oceano Atlantico, l’est si presenta come un’enorme distesa di terra, quello “spazio vitale” che è fondamentale nella teoria politica nazista e che si vede comparire già sulle pagine del Mein kampf nel 1922:
“Quando oggi parliamo di un nuovo territorio in Europa, dobbiamo pensare in prima linea alla Russia e agli stati limitrofi suoi vassalli. Sembra che il destino stesso ci voglia indicare queste regioni. “1
L’ala destra del partito nazista, formata fra gli altri da Heinrich Himmler, Reinhard Eydrich e Julius Rosenberg, considerava inevitabile e necessaria l’inizio di quella che veniva vista come una guerra santa, necessaria sia alle sorti del popolo tedesco che del mondo intero.
D’altro canto, i rapporti con l’U.R.S.S., sorretti dal traballante patto Molotov-Ribbentrop, voluto da Stalin per guadagnare tempo proprio in vista dell’inevitabile guerra, erano ormai irrecuperabili.
Dopo un rinvio di due mesi la decisione diviene ufficiale, il primo giorno d’estate del 1941, il 22 giugno, il III Reich dichiara guerra all’Unione Sovietica, aprendo quindi un secondo fronte.
Hitler investì a oriente tutto quello di cui disponeva. Centoquarantasei divisioni, un totale di tre milioni e mezzo di uomini, perfettamente armati e addestrati. L’attacco si dispiega su tre direttrici principali: a nord est, verso Leningrado, a est verso Mosca e a sud est verso Stalingrado. L’Armata Rossa, rallentata da problemi di ordine tecnico e logistico non riesce a porre un freno all’avanzata della Wehrmacht. Non mancheranno episodi di difesa accanita, ma le forze nemiche si rivelano troppo superiori in questa fase.
I piani di attacco, le direzioni che esso doveva prendere non erano stati scelti casualmente, e soprattutto Stalingrado aveva un doppio valore per il III Reich, impegnato in una guerra che si allargava dall’Europa occidentale al nord Africa alle pianure russe. Lo sforzo bellico contro l’U.R.S.S. era stato presentato nell’ottica della sbandierata “crociata contro il bolscevismo” con cui Hitler aveva cercato di rendersi presentabile agli occhi di inglesi e statunitensi prima del 1939 e anche dopo l’invasione della Francia. Non è un caso che all’Operazione Barbarossa presero parte tutti i Paesi guidati da regimi di stampo reazionario. Le truppe tedesche vennero appoggiate da italiani, rumeni, croati, ungheresi. La presa di Stalingrado avrebbe avuto, dunque, un forte valore simbolico in virtù del nome ma anche per il suo essere una delle maggiori metropoli russe dell’epoca, un peso che venne rimarcato più volte dalla propaganda tedesca. La città costituiva anche uno snodo fluviale e ferroviario importante, un centro industriale cruciale e la via d’accesso agli enormi giacimenti di petrolio che si rendevano necessari alle potenze dell’Asse per evitare il tracollo totale.
L’offensiva si sviluppa inizialmente tra il maggio e il novembre 1942 con l’occupazione della regione meridionale della Russia arrivando alle coste del mare d’Azov e del Mar Nero. Cadono Sebastopoli, Rostov e Millerovo mentre la VI Armata, élite della Wermacht, punta direttamente sulla città del Volga mentre gli alleati si dedicano alla difesa dei fianchi e alla gestione delle retrovie. Al comando si trova Friedrich Paulus, uno degli ufficiali più brillanti e capaci tra le fila dell’Alto Comando tedesco.
I sovietici, in questa prima fase, oppongono una resistenza accanita: nessuna città viene lasciata in mano al nemico senza colpo ferire. Ogni metro di terra viene tenuto fino all’ultimo uomo e quando l’Armata Rossa si ritira nelle zone sotto controllo tedesco fiorisce una resistenza popolare fatta di guerriglia partigiana e aperta ostilità verso l’occupante.
Questa difesa ha costi pesantissimi per i difensori che si trovano costretti a ritirarsi progressivamente verso Stalingrado per raccogliere le forze e riorganizzarsi. In queste prime settimane sono 400.000 i caduti nelle file sovietiche.
A fronteggiare le manovre di Paulus nella regione rimangono i resti di diversi corpi, dispersi e afflitti da diversi problemi logistici. A luglio, la 62° e la 64° Armata, che tengono la prima linea, possono contare su soli 160.000 uomini, spesso malarmati. La VI Armata può, invece, contare su circa 280.000 effettivi, ben armati e riforniti e decisi a conquistare quella città che il Fuhrer stesso aveva indicato come obbiettivo imprescindibile. Questa situazione disperata viene affrontata dalle truppe sovietiche con una tenacia che si sovrappone al sacrificio vero e proprio, portando avanti una serie di attacchi che nella loro durezza e ostinazione costringeranno Berlino a interrompere il resto delle offensive nella regione per riuscire a spezzare la resistenza russa. Nell’estate del 1942 le forze dell’Asse nell’area ammontano a un milione e mezzo di uomini, un gigantesco maglio pronto a calare sulla metropoli del Volga.
Man mano che l’estate avanza si vedrà l’inevitabile ritirata dei russi verso l’area urbana, eletta a caposaldo da non cedere assolutamente.
Stalin, che è rimasto nella Mosca assediata a dirigere l’andamento delle operazioni militari, è consapevole della necessità di tenere la città. La perdita di una metropoli di quell’importanza sarebbe un colpo fatale per la tenuta del fronte interno oltre che per la gestione dell’economia di guerra. L’ordine che arriva alle truppe il 28 luglio è semplice e rappresenta tutta la gravità del momento: “Non un passo indietro.”2
Il 13 settembre, dopo giorni di pesanti bombardamenti incendiari su Stalingrado, inizia ufficialmente l’offensiva della VI Armata che ha ormai il controllo della regione. Paulus è intenzionato a conquistare la città settore dopo settore, approfittando anche della debolezza di quanto è rimasto dei reparti dell’Armata Rossa.
È qui che si gioca una delle partite fondamentali della Seconda Guerra Mondiale. L’entità delle forze in gioco rende questa battaglia di cruciale importanza per il III Reich. Lo sforzo bellico portato avanti sullo sconfinato fronte russo, una linea di quasi tremila chilometri, costringe Hitler e l’Alto Comando a dirigere tutte le forze disponibili a oriente. Le vie di rifornimento sono tempestate dagli attacchi delle forze regolari e dai partigiani, le truppe occupanti, che daranno sfogo alla barbarie nazista in modo tragico, sono ovunque accolte con ostilità. Il freddo, con l’arrivo dell’autunno, tempesta la Wermacht e la grande pianura su cui hanno corso i Panzer diventa una distesa di ghiaccio ostile. Leningrado, Mosca, Stalingrado, i trofei di guerra che il Fuhrer voleva esibire di fronte al mondo si stanno rivelando bocconi troppo duri da mandare giù. L’esercito di straccioni e subumani che la propaganda di Berlino ha disegnato e a cui gli stessi gerarchi hanno creduto, si è rivelato un’armata ben motivata, dove ufficiali e soldati semplici combattono insieme in prima linea.
La tattica adottata dai russi in città frustrò velocemente le speranze di Paulus di conquistarla grazie alla pura brutale potenza numerica. I sovietici decisero di ritirare il grosso delle truppe sulle rive del Volga, ai limiti dell’abitato e di dare battaglia strada per strada evitando gli scontri frontali ricercati invece dai tedeschi. La Wermacht, fiduciosa dei propri numeri e mezzi, aveva infatti optato per la soluzione più semplice: attacchi in forza sulle vie principali di comunicazioni della città, sostenuti dall’artiglieria, allo scopo di frazionare le forze nemiche. Questa tattica si rivelò però totalmente inconcludente in quanto i russi vi contrapposero quella che si potrebbe definire come la prima vera guerriglia urbana organizzata.
“Nuclei di resistenza” venivano installati ovunque, costituiti da piccoli nuclei sotto la guida di ufficiali esperti, difficili da espugnare e piazzati in snodi strategici. Attacchi costanti sui fianchi delle formazioni rendevano insidioso anche il semplice pattugliamento, mentre la fanteria conobbe l’incubo dei cecchini. Si trattava spesso di giovani cacciatori reclutati nelle zone rurali del Paese, esperti tiratori per necessità, a loro agio a muoversi nella foresta di macerie urbane come lo erano stati nella steppa.
I nomi di molti di questi fanno ormai parte dell’immaginario collettivo nazionale come Zajcev ventisettenne, che abbatté duecentoventicinque nemici o Passar “occhio preciso”, volontario, che arrivò a duecentotrentaquattro o il leggendario Chechov che a vent’anni raggiunse il numero incredibile di duecentosessantacinque. Le storie di chi difese la città sono d’altronde simboliche di quello che il conflitto rappresentava per l’U.R.S.S., rappresentano una cartina tornasole fondamentale per comprendere il più importante avvenimento della Seconda Guerra Mondiale. Numerosissimi furono i volontari, e 75.000 civili decisero di rimanere volontariamente sul campo per poter dare una mano nell’edificazione delle difese, aiutando le truppe con il lavoro di manodopera. Insieme a loro vediamo altre figure, come quella della dodicenne Ljusja Radyno che portò a termine sette missioni dietro le linee nemiche per portare informazioni sullo stato delle forze tedesche.
Mille storie che si intrecciano sullo sfondo di una Stalingrado ridotta in maceria, spazzata dal vento gelido dell’autunno che diventa inverno nelle regioni meridionali della Russia. La notte era illuminata più del giorno dai bombardamenti, mentre la luce del sole veniva coperta da nubi di fumo che sembrava solido e denso. Paulus manovra freddamente la sua armata, è un ufficiale esperto e sa cosa possono fare i suoi soldati. Nel novembre 1942, dopo due mesi di scontri feroci, Hitler dà la notizia della fine dell’assedio. Stalingrado è caduta, il III Reich ha trionfato, ancora una volta il destino ha mostrato quale potenza è destinata alla gloria. Ma ciò che dice alla radio non corrisponde alla verità: agli uomini che compongono i resti della 62° non interessano i discorsi di propaganda. Tengono ancora in mano la riva del Volga con una testa di ponte che è ridotta a qualche centinaio di metri nei suoi punti più sottili, un chilometro e mezzo in quelli più avanzati. Il ghiaccio rende sempre più difficile portare approvvigionamenti e rinforzi a quei pochi che sono sopravvissuti a tre mesi di inferno.
Ma mentre in città si combatte, a Mosca non si sono dimenticati di loro. Il 23 novembre scatta l’Operazione Urano, un piano semplice ed efficace che costituirà il primo anello spezzato nella catena di vittorie naziste. I soldati della 62° nel loro rifiuto di cedere Stalingrado hanno permesso all’Armata Rossa di avere il tempo necessario per reagire.
Alla guida del piano d’azione, immenso nelle sue proporzioni, vi sono uomini come Vasilevskij e Zukov, ufficiali brillanti e profondamente motivati. L’idea è quella di schiacciare in una tenaglia le forze dell’Asse presenti nella regione, trasformando la città da preda sotto assedio a centro di una trappola mortale. Il 28 novembre l’esercito russo sferra il suo colpo, rovesciando rapidamente le sorti di quella che sembrava essere una battaglia ormai perduta. Un milione di uomini converge sulla regione, sostenuti da reparti corazzati veloci e organizzati. Le retrovie rumene, italiane e tedesche vengono spazzate vie, colte di sorpresa da un nemico che sembra essere ovunque e che colpisce senza pietà. Interi reparti spariscono nel nulla, inghiottiti dalla notte russa, sotto i colpi dei T34.
Paulus, colto di sorpresa, è costretto a interrompere la battaglia in città per provare a salvare la situazione. Sarebbe forse possibile una rapida ritirata ma gli ordini di Berlino sono chiari: non indietreggiare di un metro, complice anche l’illusione che le forze sovietiche siano facilmente sgominabili e che la Luftwaffe, l’aviazione di Goering, riuscirà a rifornire gli uomini accerchiati. Nasce, nella propaganda nazista, il mito della Festung Stalingrad, la Fortezza Stalingrado, da difendere ad ogni costo dopo quanto è costata la sua conquista. Duecentocinquantamila uomini rimangono chiusi nella sacca.
Presto la realtà dei fatti si mostra in tutta la sua durezza. Hitler è costretto a dirottare uomini e mezzi in un’operazione di salvataggio, denominata Tempesta Invernale, in cui investe tutto il possibile. Circa centoventimila uomini e seicentocinquanta carri armati, tra cui reparti d’eccellenza, vengono inviati in soccorso di Paulus ma non è più possibile recuperare quanto perduto. Le forze della Wehrmacht fiaccate dal freddo e dalla fame, demotivate e mal guidate, vengono travolte da forze sovietiche inferiori in numero ma non in determinazione. Il blocco di Stalingrado lascia d’altronde scoperte le truppe italiane sul Don, mandate al fronte senza adeguato equipaggiamento, che saranno costrette a una ritirata rovinosa nell’inverno russo, impossibilitate a difendere la posizione e tagliando il fronte in maniera inesorabile. L’enorme affresco della vittoria nazionalsocialista perde ormai pezzi, lasciando vedere morte e rovina.
L’anello, intanto, si chiude sulle forze di invasori, lento ma inesorabile. Il 2 febbraio 1943 gli ultimi spari risuonano in città, per poi spegnersi del tutto. Del milione e mezzo di uomini impegnati nella regione, cuore pulsante della Wehrmacht, rimangono sparuti drappelli arroccati tra le macerie in periferia, dentro le carcasse di vagoni blindati, nei tunnel fognari sopravvissuti. Alcuni reparti tentano di prendere la via di una ritirata impossibile, scomparendo nella steppa innevata che li divide da casa. I prigionieri, devastati dalla fame e dal freddo, saranno più di centomila, tra cui lo stesso Paulus che seguirà la sorte dei suoi uomini, sapendo anche che tornare in Germania avrebbe significato la morte sicura dopo il disastro della VI Armata.
Termina così la battaglia di Stalingrado, svoltando radicalmente il corso dell’intero conflitto mondiale. Hitler sull’altare della vittoria a est ha sacrificato le sue armate migliori, si contano quasi un milione di caduti lungo tutto il fronte orientale, il dispiego di mezzi e risorse è stato immenso. La necessità di concentrare quanto più possibile contro l’Armata Rossa ha impedito che adeguati rinforzi e approvvigionamenti arrivassero a Rommel impegnato in Nord Africa, vittorioso contro gli inglesi e costretto alla ritirata proprio per mancanza di benzina, munizioni e truppe fresche.
A livello simbolico si contano conseguenze ancora più alte: Stalingrado rappresenta la prima sconfitta importante subita dalla Wehrmacht. La macchina da guerra più perfetta mai costruita si trova battuta da quelli che la propaganda definiva untermenschen, subumani, distrutti dal comunismo, incapaci di credere in qualcosa, di organizzarsi. E questo mostra che il gigante non è imbattibile. Negli Stati Uniti vengono prodotte pellicole che glorificano l’eroica Armata Rossa: The Boy from Stalingrad, Song of Russia, Mission to Moscow, che verranno tutte censurate negli anni ’50, quando l’URSS diventerà il nemico per antonomasia. Pablo Neruda, a quell’epoca impegnato attraverso il Sud e Centro America, scriverà Canto de Amor a Stalingrado, pubblicato poi nel 1947. L’esempio russo verrà ripreso dai partigiani in tutta Europa come simbolo della possibilità di resistere e vincere.
Città, Stalingrado, non possiamo
giungere alle tua mura, siamo lontani.
Siamo i messicani, siamo gli araucani,
siamo i patagoni, siamo i guaranì,
siamo gli uruguaiani, siamo i cileni,
siamo milioni di uomini.E abbiamo altra gente, per fortuna, nella famiglia,
ma non siamo ancora venuti a difenderti, madre.
Città, città di fuoco, resisti finché un giorno
arriveremo, indiani naufraghi, a toccare le tue muraglie
con un bacio di figli che speravano di tornare.Stalingrado, non esiste un Secondo Fronte,
però non cadrai anche se il ferro ed il fuoco
ti mordono giorno e notte.3
Niccolò Rettagliata
Note
1 A. Hitler, Mein kampf, Vol. I, V. Pinto (a cura di), Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni 2017.
2 https://en.wikisource.org/wiki/Translation:Order_No._227_by_the_People%27s_Commissar_of_Defence_of_the_USSR
3 Un estratto da P. Neruda, Canto de Amor a Stalingrado, in Tercera Residencia, Debolsillo, Barcelona 2003.