In dieci giorni di caldo estremo, nelle ultime settimane, oltre 1.500 persone sono morte in dodici città europee: lo conferma uno studio dell’Imperial College di Londra e della London School of Hygiene & Tropical Medicine. Il 65% dei morti registrati durante l’ultima ondata di calore che ha colpito l’Europa, nello specifico, è riconducibile al cambiamento climatico. L’impatto della crisi climatica in Europa e in Italia comincia ad essere, evidentemente, molto pesante per la popolazione. Eppure, gli ostacoli ad una piena presa di coscienza del problema sono ancora consistenti e riconducibili a diversi tipi di narrazione errata, che portano interessi di classe specifici. La prima di esse è quella che pone la responsabilità dell’impatto antropico della crisi climatica sul “comune cittadino” e sui comportamenti individuali invece che sulle contraddizioni del sistema capitalistico e del suo modello produttivo. La seconda, altamente disfunzionale ma in qualche modo legata alla prima, è quella che, nutrendosi di dietrologie di vario tipo e senza base scientifica, reagisce alla prima narrativa negando alla radice l’esistenza della crisi climatica o della sua natura antropica. Una terza può essere individuata, invece, nella credenza del carattere “inevitabile” del cambiamento climatico; essa, negando l’impatto delle scelte politiche sulla qualità della vita dei proletari, mira a deresponsabilizzare governi e amministrazioni per le tragedie legate al clima nelle grandi città. Infine, esiste una visione generalizzata secondo cui le classi sociali sarebbero tutte “sulla stessa barca” nel subire i danni della crisi. Mostrare che la crisi climatica esiste, dipende dal modello di produzione che adottiamo, impatta specialmente sui proletari e sarebbe evitabile equivale, invece, a denunciare quanto essa equivalga ad una scelta politica.
Un problema che esiste, con una responsabilità precisa
Abbiamo delineato, anche di recente, su questo giornale, i caratteri di una prospettiva di classe e legata alla critica del modo di produzione capitalistico della crisi climatica. Questa prospettiva riconduce tale crisi al carattere anarchico, irrazionale e legato al mero profitto della produzione capitalistica e del mercato e al suo essere, perciò, strutturalmente disfunzionale al metabolismo sociale – ovvero all’equilibrio tra essere umano e natura. Riconoscere tale caratteristica va contro sia alla convinzione di una responsabilità meramente individuale del cambiamento climatico (quella per cui il problema si risolverebbe con un semplice cambio di “abitudini” delle singole persone) sia a quella che nega il fenomeno stesso.
Il fenomeno della crisi climatica è difficilmente negabile al giorno d’oggi: la velocità di estinzione delle specie è 100 volte più alta rispetto alla “normale velocità” di estinzione in base alla nostra era geologica, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è ai suoi massimi livelli in 14 milioni di anni e la quantità di plastica di produzione umana negli oceani si è moltiplicata più di 200 volte dal 1960. Inoltre, secondo i dati ERA5-Land di Copernicus, nel giugno 2025 la temperatura media nazionale sulla terraferma a due metri dalla superficie è stata di 22,05°C: ben 3,53°C in più rispetto alla media di riferimento del trentennio 1991-2020. Negare le radici antropiche del cambiamento climatico è, perciò, criminale.
Le evidenze scientifiche raccolte nel rapporto dell’Intergovernamental Panel on Climate Change confermano, poi, che la responsabilità alla base del cambiamento climatico è da attribuirsi esclusivamente alle attività umane. Le cause possono essere ricondotte all’inquinamento e allo sfruttamento delle risorse in modo poco sostenibile, ma più in generale alla produzione e immissione di diossido di carbonio (CO2) e altri gas serra nell’atmosfera. Delle tonnellate di gas serra emesse, tre quarti derivano principalmente dalla combustione di materiali fossili, dall’agricoltura, dall’industria e dai rifiuti. Questo significa che, al contrario di quanto sostengono i negazionisti del cambiamento climatico, se ci sono “lobby” e “poteri forti” da denunciare, sono proprio quelli che non hanno interesse a rinnovare i mezzi e le materie prime per la produzione – cosa talmente complessa che, in effetti, può essere realizzata pienamente soltanto attraverso una pianificazione economica razionale e centralizzata e non certo attraverso gli investimenti privati, il che significa anche che bisogna abbandonare l’illusione di mantenere gli interessi dei capitali privati risolvendo, al contempo, le contraddizioni attuali del metabolismo sociale, come dimostra anche l’inganno del “capitalismo verde”.
Tutto ciò è corroborato anche dal fatto che, considerando sia il consumo personale che quello relativo agli investimenti, l’1% più ricco del pianeta emette all’incirca 110 tonnellate all’anno di CO2, lo 0,1% ne emette 467 e il top 0,01% ne produce addirittura 2530. L’1%, in altre parole, inquina quanto due terzi dell’umanità, e il destino collettivo dell’essere umano dipende esclusivamente dalle sue scelte in termini di mezzi di produzione e, in generale, dalle necessità di valorizzazione immediata dei grandi monopoli capitalistici.
Il caldo eccessivo e la condizione dei lavoratori
Esattamente come è errato “spalmare” la responsabilità del caldo eccessivo e dell’inquinamento sui comportamenti dei singoli individui, sarebbe un errore politico – come si vedrà anche nel paragrafo successivo – trascurare quanto il carattere classista della crisi climatica si manifesti anche e soprattutto attraverso la posizione in cui ogni classe sociale si situa nel processo del metabolismo sociale stesso. In altre parole, da una parte il capitale determina, attraverso la necessità della sua valorizzazione, le scelte produttive e i mezzi di produzione utilizzati. Dall’altra i lavoratori, in quanto venditori della merce “forza lavoro”, perdendo il controllo sui mezzi di produzione e diventando una merce soggetta allo sfruttamento capitalistico, subiscono strutturalmente e nella maniera più diretta possibile le conseguenze dell’inquinamento e dello squilibrio ambientale che questi mezzi producono.
Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, dall’inizio del secolo l’UE ha registrato un aumento del 42% dei decessi legati al caldo sul posto di lavoro. Questi dati sono confermati dalle recenti tragedie documentate dai quotidiani: ad esempio, due operai qualche settimana fa sono stati colti da malore per il caldo o per esalazioni mentre stavano lavorando in una buca, a Tezze sul Brenta, in provincia di Vicenza.
In questo contesto, il protocollo tra imprese, sindacati e Ministero del Lavoro firmato in Italia qualche giorno fa per i problemi del caldo estremo sul luogo di lavoro rimane altamente insufficiente.
Uno dei pilastri del protocollo, in effetti, è l’estensione automatica dell’accesso agli ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione, in caso di stop o riduzioni dell’orario causate dal caldo, anche per i lavoratori stagionali, per chi opera negli appalti e gli studenti tirocinanti. Vi è poi la possibilità di riorganizzazione degli orari, di sospendere le attività nelle ore più calde e prevedere pause obbligatorie in aree d’ombra o refrigerate. Un’attenzione è stata messa anche sull’abbigliamento e le protezioni individuali e sulla sorveglianza sanitaria.
Il problema, tuttavia, è che il protocollo non stabilisce una soglia di temperatura oltre la quale scatta automaticamente l’obbligo di fermare le attività, lasciando ai datori di lavoro e alle parti sociali la responsabilità di adattare le misure in base ai contesti specifici. Praticamente chi ha l’interesse a far lavorare oltre lo sfinimento i dipendenti può scegliere quando la temperatura è da considerarsi insostenibile.
Questo è grave anche e soprattutto considerando il fatto che l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite) ha stabilito che nove casi su dieci di esposizione al caldo eccessivo e l’80% degli infortuni sul lavoro causati dal caldo eccessivo si verificano in periodi nei quali non vi sono ondate di calore – quindi, in periodo nei quali i padroni non prenderebbero neppure in considerazione l’idea di fermarsi.
La maggior parte dei casi di esposizione e degli infortuni legati al calore eccessivo durante il lavoro si verificano al di fuori delle ondate di calore, mentre le misure di protezione dovrebbero essere applicate ogniqualvolta il calore eccessivo rappresenti un rischio per la salute e sicurezza delle persone, e non solo durante le ondate di calore. Questo significa che il rischio di problemi legati al caldo non è limitato ai giorni con temperature estreme, ma può presentarsi anche in condizioni più miti, quando le persone sono meno preparate o meno consapevoli del pericolo.
I rischi per la salute dovuti al caldo eccessivo al lavoro non sono, peraltro, da sottovalutare: nel lungo periodo, le lavoratrici e i lavoratori stanno sviluppando malattie croniche gravi e debilitanti, che colpiscono i sistemi cardiovascolari e respiratorio, così come i reni. Vanno considerate anche le conseguenze sulla salute mentale, così come i numerosi infortuni che si verificano a causa della riduzione delle capacità cognitive, delle superfici rese scivolose dal surriscaldamento e dell’inadeguatezza dei dispositivi di protezione individuale. A livello mondiale, 26,2 milioni di persone convivono con una malattia renale cronica attribuibile allo stress termico sul lavoro. I casi attribuiti all’esposizione al calore sul lavoro costituiscono circa il 3% di tutti i casi di malattia renale cronica, variando dal 3,34% in Africa all’1,8% nelle Americhe. L’unico strumento che rimane in mano ai lavoratori per farsi scudo da queste situazioni, a seguito del protocollo, sembra essere allora lo sciopero spontaneo e la decisione collettiva di abbandonare il luogo di lavoro nel momento in cui ci si rende conto che il rischio del caldo eccessivo è concreto e reale, come praticato già da operai come quelli della Elettrolux di Forlì qualche giorno fa.
Il caldo e le città-altoforni: le decisioni delle amministrazioni
In estate, le aree più centrali e urbanizzate della città diventano veri e propri accumulatori di calore, con i palazzi, l’asfalto e i marciapiedi trattengono l’energia del sole durante il giorno e la rilasciano lentamente durante la notte, secondo un fenomeno che si chiama “isola di calore urbana”. Spiega l’architetto Alberto Grieco che «l’isola di calore nasce ogni qual volta si sbarrano i venti dominanti con edifici dimensionati male e orientati peggio, si tappezza di asfalto la superficie dei parcheggi, si sceglie di lasciare a vista le guaine bituminose dei tetti piani, si rinuncia al verde per massimizzare le metrature del costruito». In molte città italiane, in effetti, il verde è stato relegato ai margini, sacrificato per nuovi quartieri, parcheggi, centri commerciali. In altre parole, le amministrazioni hanno scelto, negli anni, di avvantaggiare la speculazione edilizia e il capitale commerciale invece di investire in benessere.
Oltre a questa scelta a valle, vi è la scelta a monte da parte dei governi, in nome delle esigenze del grande capitale, di tagliare le risorse agli enti locali, i quali devono trovare ogni escamotage per risparmiare. E così, ogni anno, gli alberi sono i primi a sparire nei bilanci comunali: costano troppo da mantenere, danno fastidio alle auto, sporcano i marciapiedi. A decidere chi sopravvive al caldo estremo non è la pianificazione urbana, ma il taglio del salario indiretto corrispondente ai servizi pubblici. I lavoratori e chi abita nei quartieri popolari, coloro che spesso vivono in ambienti angusti e progettati male, che non possono permettersi vacanze e spostamenti eccessivi fuori dal luogo di residenza e che vivono la povertà energetica sono, ovviamente, le prime vittime di questa situazione.
In tutto il mondo questo ha ripercussioni soprattutto sulla classe degli sfruttati e degli oppressi: una ricerca pubblicata qualche anno fa su Proceedings of the National Academy of Sciences prevede uno scenario globale in cui in soli 50 anni, da 2 a 3,5 miliardi di persone, per lo più i poveri delle nuove grandi conurbazioni che non potranno permettersi sistemi di raffrescamento vivranno in un clima che sarà troppo caldo da gestire. Con ogni aumento di 1°C delle temperature medie annue globali, circa un miliardo di persone finirà in aree troppo calde per essere abitabili. Nello scenario peggiore, per la crescita della popolazione e per l’inquinamento da anidride carbonica, si prevede che vivranno circa 3,5 miliardi di persone in zone estremamente calde, ossia un terzo della popolazione prevista per il 2070. Ma anche lo scenario meno drammatico dello studio stima che tra 50 anni ci saranno circa due miliardi di persone che vivono in luoghi troppo caldi da poter sopportare senza aria condizionata. L’inquinamento e il caldo sono, come quasi tutto all’interno del capitalismo, una scelta classista.
Conclusioni
La crisi climatica è una realtà, purtroppo, difficilmente negabile. Farlo porterebbe solo acqua al mulino dei grandi capitali e dei piccoli padroni che non trovano economico, sicuro e conveniente adeguarsi alle minime misure di contrasto alla produzione di inquinamento e gas serra o alle banali misure di tutela per gli operai sul luogo di lavoro. Per lo stesso motivo, far discendere il cambiamento climatico da scelte operate dai singoli individui nella loro vita quotidiana (per quanto sia importante adottare dei comportamenti che minimizzino l’impatto ambientale dei materiali non biodegradabili o dell’anidride carbonica) fa il gioco di quella piccola fetta di umanità che si può permettere di contribuire in maniera determinante all’inquinamento del pianeta senza pagarne in nessun modo le conseguenze. Sia dal punto di vista macroscopico, con l’adozione e la difesa a spada tratta del sistema capitalistico da parte delle istituzioni e dei governi, sia dal punto di vista locale, con l’applicazione di politiche classiste da parte delle amministrazioni comunali e regionali, le cause dell’ondata di calore e le sue conseguenze si dimostrano una scelta politica e ideologica deliberata, che può essere contrastata solo con una presa di consapevolezza da parte della classe operaia, che subisce maggiormente i danni del cambiamento climatico e con una lotta sociale conseguente a questa coscienza.