La crisi della ristorazione e la testimonianza di due lavoratori del settore
I numeri di un settore già in crisi
La pandemia innescata dal virus Covid-19 causerà, secondo le stime del Governo, una contrazione del PIL italiano del 9,5% nel 2020. Tra i settori più colpiti c’è senza dubbio quello della ristorazione, A marzo 2020, secondo Confcommercio, il ramo della ristorazione ha registrato un decremento del 69,5%[1] rispetto all’anno precedente, risultando il settore in assoluto più colpito davanti a trasporti e abbigliamento. Secondo la FIPE (Federazione italiana pubblici esercizi) i due mesi di chiusura degli esercizi disposto dal Governo hanno causato fino ad oggi una perdita di circa 21 miliardi di euro[2]. Più bassa la stima condotta dalla Cna sull’analisi di un campione di circa 50mila s.r.l. attive nel campo, che ha parlato di una perdita nei mesi di marzo-aprile pari a circa 8.8 miliardi (-38%)[3]
Per capire di cosa stiamo parlando, nel 2019 l’insieme di ristorazione e agroalimentare rappresentava il 18% del PIL italiano. Un dato nettamente superiore a quello di altri paesi a capitalismo avanzato, e soprattutto caratterizzato da una presenza molto maggiore di piccoli esercizi commerciali, dato connesso con la tradizione tipica della nostra cultura gastronomica. Il discorso non varia sul lato dell’occupazione. Nel 2019 in Italia risultavano attivi 337mila ristoranti per un numero di lavoratori impiegati superiore a 1 milione e 400mila persone. Un impatto occupazione importante specialmente nelle grandi città: Milano (122mila lavoratori), Roma (101mila) e Napoli (50mila).
Come ogni settore la ristorazione vive di concorrenza e di processi di centralizzazione e concentrazione, che solo una tradizione e eccellenza tipicamente italiana ha in qualche modo contribuito a rallentare. La pandemia sotto questo punto di vista non ha fatto altro che acuire molte delle contraddizioni già presenti nelle cucine italiane.
Chiunque si è reso conto che negli ultimi anni la ristorazione ha registrato un boom, assorbendo seppur parzialmente una parte della forza lavoro espulsa dai processi produttivi post crisi 2008-2009. Un boom incoraggiato anche dal grande fascino del settore ri-lanciato quotidianamente da programmi televisivi, libri e pubblicazioni di ogni tipo quasi al limite della saturazione, con i grandi chef divenuti vere e proprie star nella cultura popolare. Il tutto unito alla stretta connessione con il settore del turismo – anch’esso fortemente colpito dalla crisi – e con la perenne convinzione della possibilità di costruire l’economia del Paese sulla base della vocazione turistica e delle eccellenze e tradizioni, di cui oggi si mette a nudo la fragilità.
Ma anche la variazione parziale delle abitudini della popolazione italiana aveva garantito maggiori risorse di mercato interno al settore. In tutti gli anni dal 2009 in poi la spesa media pro-capite delle famiglie italiane era tendenzialmente aumentata.
Il boom era stato favorito inoltre dai processi di liberalizzazione voluti dai governi di centrosinistra e dal famoso decreto Bersani, che abolendo le differenti licenze le ha sostituire con un’unica autorizzazione valida per tutte le precedenti fasce. Una facilità solo apparente: come in tutti i processi di liberalizzazione gli ostacoli all’entrata – prima rappresentati dall’acquisto della licenza, oggi priva del valore precedente – con ostacoli economici intrinseci all’attività. Con la conseguenza che molte delle imprese che aprono, dopo non poco tempo finiscono per chiudere. Per esempio nel 2015 a fronte delle circa 17.000 nuove società aperte, ben 27mila avevano chiuso i battenti. Numeri simili nel 2018: a fronte di 3.629 nuove insegne oltre 26mila avevano chiuso (-12.444). L’analisi condotta dal Gambero Rosso evidenziava il paradosso dell’incremento dell’offerta a fronte delle chiusure e del peggioramento del livello qualitativo complessivo[4]
Se i costi delle licenze si sono praticamente azzerati, altrettanto non si può dire per i costi fissi di gestione di un ristorante, a partire da affitto e/o acquisto dei locali, che specialmente nelle grandi città a causa della bolla immobiliare sono particolarmente esosi. Migliaia di piccoli ristoratori finiscono dunque per dover cedere gran parte dei propri guadagni alla rendita immobiliare o nel ripianare i prestiti bancari, acuendo la concorrenza e finendo per scaricare sui lavoratori parte dei costi.
In questo quadro non stupisce che anche la criminalità organizzata – con capitali da investire e soprattutto ripulire – abbia negli anni puntato al settore. Solo lo scorso novembre in rapporto agro-mafie di Coldiretti aveva stimato che circa 5.000 ristoranti erano nelle mani di organizzazioni criminali per introiti di oltre 24miliardi.[5]
Le testimonianze dei lavoratori tra sfruttamento e disoccupazione
Ma soprattutto in questo quadro di concorrenza e lotta per la sopravvivenza a farne le spese nella lotta micidiale verso il basso finiscono per essere i lavoratori, sui quali viene scaricata la catena finale di pressioni. Per questa ragione abbiamo chiesto un contributo a due cuochi comunisti per loro stessa ammissione «mosche bianche in questo settore». Per entrambi manterremo l’anonimato per ragioni di tutela. Il primo, Jacopo, è un rinomato chef romano. Il secondo, Gabriele, ha girato gran parte dell’Italia lavorando e frequentando corsi. Ci raccontano di una vita di sacrifici, fatta di passione e lavoro, di costi sostenuti in proprio per la formazione, lavori e stage non retribuiti.
La testimonianza dei lavoratori rende immediatamente chiaro il modo in cui sui lavoratori viene scaricato il costo finale della concorrenza. Il rispetto degli orari di lavoro nelle cucine non esiste. «Sono abituato a lavorare molte più ore di quelle che dovrei – ci racconta Jacopo – nei giorni festivi e spesso con un solo giorno libero a settimana. In alcuni ristoranti ho lavorato anche 80 ore a settimana, senza retribuzioni aggiuntive, senza poter recuperare i miei riposi». Stesso discorso per Gabriele:
«Prima della pandemia, lavoravo con un contratto semestrale, part time, 38 ore settimanali, il resto nero, fuori busta. In genere un extra di 150 euro fisso mensile nero più gli straordinari, sei, sette euro nere l’ora, il prezzo del mio sudore».
«La pandemia – dice Jacopo – ha cambiato tutto. Ha scoperchiato un vaso di Pandora. La ristorazione si è giustamente fermata, molti colleghi sono entrati in cassa integrazione consigliati dall’azienda in cui erano assunti, tanti sono stati licenziati e hanno richiesto la disoccupazione. Il problema è che in questo settore spesso solo una parte del salario è conteggiata in busta paga, il resto è in nero (cifre grandi o piccole), sempre per far fronte alla famosa flessibilità chiesta dai padroni, quindi le indennità sono ridotte. I piccoli imprenditori non tutelati cercano di far fronte ad una crisi economica devastante con le proprie possibilità, spesso riconvertendo l’azienda in servizi di delivery, bisognosi di continuare a lavorare per non chiudere e licenziare anche a discapito della propria salute. La distribuzione alimentare arranca, priva di introiti provenienti dalla ristorazione e questo si ripercuote su tutta la filiera. Si assume in nero, si chiede “elasticità” negli stipendi, si chiedono sacrifici. Ci dicono che siamo tutti sulla stessa barca, si lanciano appelli alla solidarietà nazionale».
Dello stesso avviso la testimonianza di Gabriele «All’inizio c’è stato un calo fortissimo dei coperti. Se normalmente ne facevamo 400 eravamo ridotti a meno della metà e considerano che i guadagni per la proprietà iniziavano dal cinquantesimo in poi, tutto sommato restavano in parte coperti. Il 10 marzo il mio contratto scadeva, inizia la quarantena e non mi veniva rinnovato, nonostante fossi stato rassicurato dalla proprietà sul rinnovo a tempo pieno e ad una maggiore retribuzione economica. Gli altri colleghi sono stati messi in cassaintegrazione, ma per me non era prevista perché non conveniva rinnovare il mio contratto. Non mi restava che chiedere il sussidio di disoccupazione. Oggi non posso dire quando tornerò a lavoro così come non posso dire quando torneremo alla normalità. Che poi la normalità è essere pagati sette euro l’ora, in nero. Normalità è lo sfruttamento del lavoro stagionale. Quest’anno la stagione estiva sarà una grande incognita, non si sa in cosa costituiranno i nostri spostamenti. Non si sa cosa vorrà dire turismo, non si sa se ristoranti e pub riusciranno a riaprire».
Quanto al futuro la crisi è enorme e la prospettiva davanti per i lavoratori della ristorazione è nera. «Senza un supporto finanziario ed economico – dice Gabriele – questa sarà un dramma per tutti, con debiti e affitti da pagare».
Ma quando si parla di prospettive non vogliono sentir parlare di semplice ritorno ad una presunta normalità.
«Tutti – dice Jacopo – auspicano un ritorno alla normalità, al prima. Io no, perché tutta questa deriva economica, tutta questa precarietà è frutto del prima, di quel marcio del sistema che c’era già prima del Covid-19. Dobbiamo riprenderci con determinazione quello che ci hanno tolto e vogliono continuare a toglierci».
Non sappiamo cosa accadrà nelle prossime settimane. Molti ristoranti stanno adeguando le loro strutture per il take away, o puntano con interventi di sanificazione e riduzione dei coperti alla riapertura parziale. È facile prevedere che chi avrà soldi da investire e risparmi potrà superare questo periodo di difficoltà, mentre chi non ha queste risorse a disposizione sarà inevitabilmente costretto alla chiusura. L’impatto in termini di posti di lavoro sarà molto forte.
A questa situazione si unisce la difficoltà di organizzare i lavoratori della ristorazione, che, salvo le ipotesi in cui siano concentrati in grandi catene, lavorano in un contesto frammentario di piccole imprese spesso a conduzione familiare o para-familiare. Nelle cucine la lotta di classe si interseca con i differenti piani sociali, costituendo un osservatorio privilegiato della difficoltà pratiche di realizzare quelle forme di alleanza di classe antimonopolistica tra lavoratori salariati e piccoli proprietari spesso sbandierate. Nella pratica la sopravvivenza dei piccoli proprietari – come avviene in agricoltura, e in ogni altro settore – passa anche per l’incremento del grado di sfruttamento dei dipendenti, per la riduzione dei loro diritti, come le testimonianze che abbiamo raccolto hanno evidenziato. Questo indipendentemente dalla valutazione morale dei singoli, ma come piano generale di sopravvivenza indotta dalle necessità di drenare appunto gran parte dei propri ricavi verso la rendita immobiliare, il capitale bancario e anche la fiscalità generale dello Stato, unico elemento che può essere- come spesso accade – eluso. Quel che è certo è che la ristorazione, insieme con il turismo e con i settori più immediatamente colpiti dalla pandemia porterà ad una massiccia espulsione di lavoratori che appare difficile altri settori, o lo stesso sistema di ammortizzatori sociali statali, riescano ad assorbire o tutelare, in un contesto generale di difficoltà di tutti i settori e di presenza di un livello di disoccupazione già elevato, di cui proprio la ristorazione era divenuta una potenziale via d’uscita. La bolla, già evidente prima della pandemia, è definitivamente scoppiata.
———
[1] http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/coronavirus-confcommercio-consumi-31-7-marzo-pil-aprile-13-f6256a28-c004-4cab-a545-dd461f6a8873.html?refresh_ce
[2] https://www.confcommercio.it/-/fipe-perdita-ristorazione
[3] https://www.agi.it/economia/news/2020-04-04/coronavirus-crollo-ristoranti-alberghi-8179853/
[4] https://www.gamberorosso.it/notizie/ristoranti-italiani-il-rapporto-2018-spesa-record-per-il-consumo-fuori-casa-ma-quante-attivita-sopravvivono/
[5] http://www.today.it/cronaca/ristoranti-agromafie.html