Da Rizospastis, organo del Partito Comunista di Grecia (KKE)
2 agosto 2025
Link all’originale
Gli sviluppi drammatici a Gaza, con la guerra criminale condotta dallo Stato di Israele contro il popolo palestinese – giustamente definita come genocidio – suscitano un’ampia indignazione e rabbia, ma anche solidarietà verso il popolo della Palestina.
La propaganda israeliana ed euroatlantica sulla “lotta al terrorismo” e sul “diritto all’autodifesa”, in Grecia, ha subito una disfatta: non solo a causa del sistematico lavoro di smontaggio di tali argomenti, svolto fin dal primo momento dal KKE e dalle sue forze nel movimento operaio-popolare, ma anche per l’orrore e la rivelazione, davanti al mondo intero, che l’obiettivo dello Stato israeliano è, con ogni mezzo, lo “sgombero” di Gaza dai palestinesi, ponendo una pietra tombale definitiva su ogni tentativo di costruzione di uno Stato palestinese indipendente e libero.
Tutto ciò, oggi, è coscienza comune nella grande maggioranza del popolo greco.
Tuttavia, le domande che sorgono naturalmente in questo processo riguardano lo stesso movimento di opposizione all’occupazione e al genocidio israeliano, il movimento di solidarietà al popolo palestinese. La questione principale è la seguente: è sufficiente una solidarietà di carattere “umanitario” verso il popolo palestinese – solidarietà che è logico oggi prevalga e si rafforzi come sentimento davanti all’orrore della guerra? È sufficiente un’opposizione generica alla guerra, senza porsi la domanda su quale movimento sia oggi necessario e contro chi debba rivolgere i propri attacchi? Cosa deve rivendicare, per cosa deve lottare, quale deve essere la sua prospettiva?
In altre parole, la domanda è: verso dove deve essere indirizzata tutta questa indignazione, rabbia e protesta? Verso dove deve essere orientata la mobilitazione operaia e popolare?
A tali questioni non danno la stessa risposta tutte le forze che partecipano, organizzano o sostengono le mobilitazioni di solidarietà al popolo palestinese. Oggettivamente esiste un confronto, che riflette strategie politiche contrapposte. Si tratta, in sostanza, dello scontro tra la linea che vuole esprimere l’opposizione alla guerra attraverso un movimento operaio-popolare fondato sui sindacati, sulle associazioni e sui loro organismi, con un orientamento complessivamente anticapitalista e antimperialista – linea promossa dalle forze del KKE e della KNE all’interno del movimento – e, dall’altra parte, delle varie versioni di incanalamento del movimento in una direzione borghese o piccolo-borghese.
Cerchiamo di soffermarci in questo primo testo su alcuni punti di questo confronto. Ne seguiranno altri, in prossime edizioni del giornale.
1. Chi è il colpevole?
Una serie di forze sostengono che la politica dello Stato di Israele derivi dai problemi interni del Paese e dal tentativo di Netanyahu di gestirli senza mettere a rischio il proprio governo.
Altri parlano dell’“estrema destra” di Netanyahu, che con l’appoggio dell’altrettanto “destra estrema” Trump e con la “incapacità” dell’UE di intervenire, persegue il suo sogno di un Grande Israele.
Altri ancora affermano che il problema sia il “sionismo” [1], cioè il “nazionalismo” israeliano e – per usare un termine greco – il “megaloiodeatismo” (NdT: la Grande Idea, ideologia nazionalista greca del XIX-XX secolo, nazionalismo espansionista e revanscista).
Tuttavia, sebbene tutte queste opinioni possano mettere in evidenza aspetti reali della questione, esse oscurano l’elemento principale, la visione d’insieme.
La visione d’insieme è che Israele è uno Stato borghese del Medio Oriente che, per tutto il periodo dalla sua fondazione in poi, ha svolto e continua a svolgere un ruolo cruciale nella promozione dei piani di USA, NATO e UE nella regione.
Si tratta di progetti economici, energetici e militari in contrapposizione inizialmente con l’URSS e la sua influenza sui movimenti di liberazione nazionale e antimperialisti dei paesi arabi, e successivamente con i piani di potenze capitalistiche rivali, del cosiddetto blocco eurasiatico, cioè la Cina, la Russia e i loro alleati nella regione (Iran).
Sulle macerie di Gaza passano vie di trasporto di merci ed energia, si sviluppano vari progetti imprenditoriali.
Questa “carta” è quella che la borghesia israeliana ha giocato e gioca per promuovere i propri interessi e soprattutto per annullare la possibilità della creazione di uno Stato palestinese veramente indipendente e libero, così da emergere come forza dominante della regione, nel proprio confronto con altri Stati borghesi – Turchia, Iran, ecc.
Questi interessi sono rappresentati dal governo Netanyahu e per questo motivo esso riceve sostegno, nonostante le contraddizioni interne esistenti in Israele.
Il “sionismo” può essere l’ideologia reazionaria ufficiale dello Stato di Israele, tuttavia non può essere considerato la causa della guerra condotta dallo Stato israeliano contro i palestinesi. È il quadro ideologico che giustifica tale guerra all’interno del Paese.

Le mobilitazioni contro il coinvolgimento del nostro Paese esprimono il rifiuto dei lavoratori di “sporcarsi le mani di sangue”
Il progetto statunitense del “Grande Medio Oriente” e i famosi “Accordi di Abramo”, d’altronde, promuovevano questi interessi, che convergono con quelli degli USA nella regione.
Gli USA sostengono “strategicamente” Israele indipendentemente dal fatto che governino i Democratici o i Repubblicani, Trump o Biden, indipendentemente dalle sfumature.
Inoltre, l’UE non è inerte, non è “incapace” o indifferente; al contrario, è attiva nel sostenere Israele e la sua politica.
Un movimento, dunque, che si oppone a questa guerra imperialista in corso in Medio Oriente – ossia a una guerra che ha come obiettivo la spartizione di mercati e sfere di influenza (in questo spartirsi non “trova posto” il diritto del popolo palestinese al proprio Stato) – deve evitare di oscurare i veri colpevoli.
Al contrario, deve mettere nel mirino lo Stato di Israele, la borghesia israeliana, la NATO, gli USA e l’UE, i piani imperialisti nella regione, che costituiscono la causa del massacro del popolo palestinese, e non semplicemente un “Netanyahu fascista”.
2. Cosa significano, per un Paese come la Grecia, l’opposizione alla guerra a Gaza e la solidarietà al popolo palestinese?
La questione della guerra in Medio Oriente e della solidarietà al popolo palestinese non è un problema “esterno”, non riguarda una guerra che si svolge in un angolo remoto del pianeta, non è semplicemente una questione di solidarietà verso un popolo oppresso.
Si tratta di una guerra imperialista che avviene nel nostro vicinato, ma soprattutto di una guerra condotta da un Paese con cui la Grecia ha un’alleanza, sia attraverso l’UE e la NATO, di cui è membro, sia autonomamente, tramite la cosiddetta “cooperazione strategica”. Questa cooperazione, del resto, è avanzata molto negli ultimi almeno quindici anni, sul piano economico, politico e militare.

La relazione strategica con lo Stato-assassino è stata realizzata da tutti i governi borghesi
Esistono molti legami che uniscono la borghesia greca e i gruppi imprenditoriali greci, in vari settori dell’economia (energia, turismo, ecc.), con gruppi imprenditoriali israeliani; vi sono progetti comuni d’affari.
Su questa base, esiste anche un’avanzata cooperazione militare tra i due Paesi. Sul territorio greco si sono addestrate e si addestrano forze armate israeliane insieme alle Forze Armate greche; infrastrutture militari NATO presenti nel nostro Paese vengono utilizzate per sostenere la guerra di Israele.
Sono, del resto, gli stessi fili che coinvolgono la Grecia, per conto della borghesia greca nel suo complesso, nei piani di guerra degli USA, della NATO e dell’UE, piani che promuovono l’economia di guerra e la preparazione bellica.
Di conseguenza, quando parliamo del nostro Paese, parliamo di un Paese direttamente coinvolto nella guerra condotta dallo Stato-assassino.
La borghesia del nostro Paese, lo Stato borghese con tutti i suoi governi (ND, SYRIZA, PASOK, ecc.), è complice in questo crimine.
Pertanto, non possiamo parlare in Grecia di un movimento di solidarietà al popolo palestinese, di un movimento contro la guerra in Medio Oriente, senza mettere come priorità assoluta l’opposizione al coinvolgimento del nostro Paese in questa guerra, senza dare priorità alla cessazione di ogni collaborazione con lo Stato di Israele.
Il nostro dovere “nazionale” e, allo stesso tempo, internazionalista è svelare questo coinvolgimento, smascherare la propaganda della borghesia, che sostiene che il popolo greco possa avere interesse e difendere i propri diritti sovrani sostenendo una guerra imperialista ingiusta e il genocidio di un popolo. Come quelle dichiarazioni che, senza veli, ha fatto l’altro giorno Flōridīs in Parlamento, elevando l’atteggiamento verso Israele a criterio di patriottismo! (NdT: per approfondire questo riferimento, si veda qui)
È dovere del movimento affrontare il tentativo di abbellire lo Stato di Israele, la campagna diplomatica condotta con ogni mezzo, sfruttando anche le relazioni legate al turismo.
È un dovere “nazionale” e internazionalista mettere nel mirino della lotta operaia e popolare ogni forma e modalità di coinvolgimento e sostegno della borghesia greca alle guerre imperialiste di Israele e del blocco USA-NATO-UE nella regione.
Ogni denuncia del genocidio, ogni azione o iniziativa che non metta come priorità la questione dell’opposizione al coinvolgimento greco, che non evidenzi le responsabilità della borghesia greca, del governo e dei partiti dell’euroatlantismo che sostengono la politica della “cooperazione strategica” con Israele, rischia, indipendentemente dalle intenzioni, di diventare alla fine un colpo sparato a salve.
Un aspetto particolare di questa questione sono le posizioni che distorcono il carattere di tale coinvolgimento.
Diverse forze della socialdemocrazia – PASOK, SYRIZA, Nuova Sinistra – e, accanto a loro, forze dell’opportunismo, portano avanti la tesi che il sostegno a Israele sia una scelta del “governo di Mītsotakīs”, che Mītsotakīs e ND sostengano il “fascista Netanyahu”. La conseguenza di questa logica è che, se cade il governo Mītsotakīs e arriva un altro governo “progressista”, ciò sarà un’evoluzione in grado di cambiare la posizione della Grecia sulla guerra. La verità, però, è che la “relazione strategica” con Israele non è stata costruita dal governo Mītsotakīs, ma da tutti i governi borghesi, in particolare dal 2010 in poi. Tutti i governi hanno firmato accordi a lungo termine di cooperazione economica, politica e militare. La maggior parte di essi è stata firmata con Netanyahu, poiché dal 2009 a oggi egli è stato Primo ministro di Israele, tranne nel periodo 2021-2022. In particolare, il governo di SYRIZA “al completo” (compresi quindi anche i dirigenti che hanno formato poi la Nuova Sinistra) sviluppò relazioni particolarmente strette con il governo Netanyahu nel periodo 2015-2019. Dunque, parliamo di una scelta strategica decisiva della borghesia greca, servita e ancora servita da tutti i partiti euroatlantici. Per questo motivo, queste forze non mettono in discussione l’intera relazione strategica con Israele, ma parlano solo di un congelamento parziale della cooperazione militare.
Di conseguenza, l’obiettivo di tale posizione è trascinare, di fatto, la protesta popolare contro la guerra in Palestina e il coinvolgimento greco, verso il sostegno all’alternanza tra governi borghesi.
Un’altra posizione diffusa da alcune forze è che il governo greco sia “servile”, “collaborazionista” verso Israele e i suoi alleati. Questa logica è errata e serve, in sostanza, solo ad assolvere la borghesia greca e i suoi governi, con uno schema di “sudditanza” che sostiene che il Paese stia diventando una “colonia israeliana”.
La borghesia greca non è affatto subordinata. Il suo coinvolgimento nella guerra imperialista avviene in termini di partecipazione attiva alla spartizione dei mercati dell’energia e delle reti di trasporto delle merci, perseguendo l’obiettivo di trasformare il Paese in un nodo energetico e commerciale.
Da tutto ciò si conferma, ancora una volta, che nelle rivendicazioni del movimento contro la guerra in Medio Oriente devono emergere in primo piano le questioni dell’opposizione al coinvolgimento greco, al sostegno allo Stato di Israele, all’utilizzo delle infrastrutture militari. Deve emergere la richiesta di chiusura delle basi NATO, il rientro delle navi da guerra dal Mar Rosso e della batteria di artiglieria dall’Arabia Saudita (NdT: ci si riferisce al sistema Patriot prestato dalla Grecia nel 2021), l’annullamento di tutti gli accordi di “cooperazione strategica” con Israele.
Allo stesso tempo, deve sostenere anche richieste che riguardano direttamente la sopravvivenza del popolo palestinese, come ad esempio l’apertura di corridoi di aiuti umanitari a Gaza, ecc.
Deve esprimere la propria solidarietà anche agli israeliani che, in condizioni molto difficili, lottano all’interno dello Stato di Israele contro la politica di occupazione e di guerra, che riconoscono la necessità della creazione di uno Stato palestinese, che fanno parte del movimento di rifiuto del servizio militare nell’esercito di occupazione, l’IDF, movimento che in questo periodo si sta rafforzando e che, proprio per questo, è oggetto di repressione.
3. Per la difesa del diritto del popolo palestinese ad avere il proprio Stato libero e indipendente
Un movimento di solidarietà non può non porre in primo piano la difesa del diritto del popolo palestinese ad avere il proprio Stato libero e indipendente. Questo è il significato del sostegno alla richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese sui confini basati sulla Risoluzione ONU del 1967. Ogni silenzio su questa richiesta, con varie “scuse” e pretesti, in sostanza non serve la lotta del popolo palestinese.
L’insistenza sulla Risoluzione ONU del 1967 non deriva da illusioni su una “giustizia internazionale”, che oggi è certamente la legge del più forte imperialista. Deriva invece dalla difesa dell’obiettivo di ripristinare tutte le annessioni territoriali effettuate da Israele a partire dalla Guerra dei Sei Giorni, come l’occupazione della Cisgiordania, ecc. Significa anche la demolizione degli insediamenti, il ritorno dei profughi, rappresenta il minimo con cui si può veramente garantire l’esistenza di uno Stato palestinese libero e indipendente. Con questo criterio, inoltre, quella Risoluzione fu sostenuta dall’URSS e dagli altri Stati del blocco socialista, dal Movimento Comunista Internazionale, dal movimento operaio – popolare e antimperialista. Un obiettivo che fu adottato anche dall’OLP, ma persino da Hamas nel 2017.
Ricordiamo che anche il governo Biden degli USA ha parlato di uno “Stato palestinese”, e oggi Francia, Gran Bretagna e Canada parlano di riconoscimento dello “Stato palestinese”, esercitando pressioni sul governo Netanyahu. Ma cosa intendono realmente? Intendono una formazione statale che sarà in realtà sotto la sovranità di Israele, con una sovranità limitata, senza proprie Forze Armate, senza unità territoriale, sostanzialmente divisa in “cantoni” all’interno dello Stato di Israele, alcune comunità autonome, mantenendo così tutte le “fonti” dell’ingiustizia contro il popolo palestinese.
Da questo punto di vista, alcune posizioni che esprimono forze all’interno del movimento operaio – popolare risultano problematiche. Per esempio, quando si sostiene che oggi la questione della creazione di uno Stato palestinese è superata dai fatti, e quindi la questione cruciale è la rivendicazione dei diritti dei palestinesi all’interno di uno Stato unico di israeliani e arabi. Ciò significa in sostanza accettare, compromessi con i fatti compiuti creati dallo Stato di Israele. Oppure un’altra posizione sostiene che non debba esistere lo Stato di Israele, posizione accompagnata da teorie infondate che negano l’esistenza del popolo israeliano, della sua identità nazionale ecc.
La lotta nazionale di liberazione del popolo palestinese è una lotta giusta con l’obiettivo della creazione del proprio Stato, per questo necessita del sostegno senza riserve del movimento operaio – popolare a livello internazionale. Tuttavia è certo che questa lotta potrà realizzare le aspettative dei lavoratori e delle forze popolari della Palestina solo nella sua connessione, nel suo rapporto con la lotta per il socialismo. Come si risolverà la questione del rapporto tra israeliani e palestinesi in un processo di vittoria di rivoluzioni socialiste in Medio Oriente, non può essere determinato oggi. In nessun caso però, in nome della prospettiva socialista, può essere messa in discussione la necessità della lotta odierna del popolo palestinese per la costituzione del proprio Stato indipendente, che peraltro può costituire anche un “anello” nella lotta per il socialismo.
Secondo il criterio di sostegno a questa lotta, il KKE ha rapporti con il Partito Comunista Palestinese e con il Partito del Popolo Palestinese, nati dalla scissione del Partito Comunista Palestinese nel 1991, e mantiene contatti con il Fronte Popolare e con il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina.
4. Cosa può ottenere un movimento contro la guerra in Medio Oriente e di solidarietà con il popolo palestinese?
Il sostegno internazionale alla lotta del popolo palestinese, non solo contro la sporca guerra condotta da Israele a Gaza, ma anche per la rivendicazione del suo diritto a uno stato indipendente, è molto importante per il presente e per il futuro della questione palestinese. È cruciale per porre ostacoli ai piani di Israele – USA – NATO – UE in Medio Oriente, nella direzione della generalizzazione della guerra imperialista, come hanno dimostrato anche i recenti attacchi di Israele e degli USA contro l’Iran.
Non dobbiamo dimenticare che la resistenza del popolo palestinese, che combatte contro un avversario molto più potente e i suoi alleati, la sua tenacia e determinazione a rimanere sulla sua terra, mostrano le potenzialità che ha la resistenza e la lotta popolare. Perché le previsioni che l’esercito israeliano avrebbe annientato la resistenza palestinese sono state smentite.
Il primo obiettivo quindi è rafforzare oggi la direzione della lotta contro la guerra imperialista e contro il coinvolgimento nella guerra, all’interno dello stesso movimento operaio e popolare organizzato, per raggruppare forze operaie e popolari in una direzione antimperialista e contro la guerra. Oggettivamente, questa mobilitazione non può essere affrontata separatamente dalla lotta complessiva del movimento operaio e popolare contro la guerra imperialista, dalla lotta complessiva contro la preparazione alla guerra, contro i piani dell’economia di guerra. Del resto, la Grecia partecipa — è coinvolta — in entrambe le guerre in corso, sia in Medio Oriente sia in Ucraina, esattamente per gli stessi interessi dei gruppi imprenditoriali.
Non può quindi esistere un movimento a favore della Palestina che “ignori” la necessità di disimpegno del paese dalla guerra in Ucraina, o che non si opponga agli investimenti dei gruppi imprenditoriali dell’economia di guerra, alcuni dei quali già oggi hanno come “cliente” proprio Israele. È una sfida far evolvere il genuino sentimento contro la guerra e pacifista in una lotta militante contro la guerra imperialista.
Deve essere chiaro che nelle condizioni attuali, molte iniziative, movimenti e azioni che si svolgono, nonostante il limitato risultato pratico che hanno, acquistano un valore enorme.
Azioni combattive, come ad esempio bloccare treni o camion che trasportano materiale bellico o container nei porti da parte dei portuali, possono rendere difficile e ostacolare temporaneamente, tuttavia è chiaro che non possono fermare definitivamente il materiale bellico dal raggiungere l’Ucraina o Israele. Nonostante ciò, tali azioni, sia simboliche sia sostanziali, esprimono il rifiuto della classe operaia e delle forze popolari di “sporcarsi le mani con il sangue”, mostrano che il popolo non è indifferente al fatto che le sue città diventino vie di transito di armi verso i fronti di guerra, con tutti i rischi che questo comporta.
Sono mobilitazioni che rafforzano la linea della disobbedienza al consenso — sia silenzioso sia attivo — che viene chiesto ai lavoratori per la partecipazione del paese alla guerra. Perché oggi si chiede al popolo di far passare camion con munizioni davanti alla propria casa e di voltarsi dall’altra parte, si chiede al lavoratore di trasportare — senza fare troppe domande — carichi di guerra, domani di produrre per l’economia bellica e dopodomani di versare il suo sangue per i loro interessi sotto le loro bandiere. Lo stesso vale per le campagne pubblicitarie organizzate per promuovere la cooperazione della Grecia con Israele e gli USA, come pure per gli sforzi di comprare i lavoratori e le forze popolari nelle aree di importanza strategica per i vari piani, per indebolire le resistenze con un prezzo economico, in nome sia del “miracolo turistico” sia dei nuovi posti di lavoro.
Su questa base e con questo criterio, di rafforzare la disobbedienza di massa e l’opposizione, cioè l’impegno di allargare la partecipazione di forze operaie e popolari per rompere la narrazione secondo la quale i lavoratori trarrebbero vantaggio dal coinvolgimento e dalle collaborazioni con Israele, USA, NATO, devono essere scelte anche le forme appropriate di lotta e le azioni che assicurano un impatto militante, ma che affrontano anche i tentativi del governo e della borghesia di “isolare” coloro che lottano contro i piani imperialisti.
Con questo criterio, nessuna forma di lotta o tattica di opposizione può essere assolutizzata. In ogni caso deve basarsi sull’azione di massa di organismi del movimento operaio e popolare e l’alternanza delle forme deve assicurare l’essenziale: che il messaggio combattivo della disobbedienza, del non consenso alla partecipazione del paese ai piani imperialisti di guerra, raggiunga ampie forze operaie e popolari.
5. Quale deve essere la prospettiva del movimento?
Alcune forze sostengono che la guerra possa fermarsi o non intensificarsi, che Israele possa cedere sotto la pressione della solidarietà internazionale o sotto la pressione che possono esercitare forme di lotta come, per esempio, il boicottaggio di prodotti e aziende israeliane, ecc.
La verità è che un movimento di protesta contro la guerra, per quanto forte e di massa sia, non può impedirla. È un’idea utopistica quella che dice che “i potenti potrebbero cedere sotto la pressione popolare”, che per esempio l’UE potrebbe essere spinta a prendere una posizione a difesa della Palestina, ecc. Tale logica ignora e sottovaluta il vero carattere della guerra imperialista, ovvero che si tratta di una guerra dietro la quale ci sono grandissimi interessi di imprese capitalistiche e stati borghesi, che dietro c’è una lotta di vita o di morte per le posizioni all’interno del sistema imperialista per la spartizione di territori e sfere di influenza [2]. Questa logica riproduce illusioni e false speranze circa la possibilità che le istituzioni borghesi e le unioni imperialiste tra stati possano assumere un carattere “pacifico” sotto la … “pressione popolare”. Mette il movimento contro la guerra alla “coda” delle varie tregue temporanee con arbitrati imperialisti, lo trasforma in sostenitore dei vari cessate il fuoco temporanei e fragili.
Mentre la guerra imperialista è in pieno svolgimento, mentre la sua direzione è verso l’intensificazione e la generalizzazione, e mentre per questa intensificazione il movimento operaio e popolare deve prepararsi, posizioni come quelle sopra contribuiscono alla compiacenza, lasciano la lotta popolare esposta alla propaganda dell’attesa di compromessi momentanei “con la pistola alla testa”. Nel momento in cui invece è possibile allargare la lotta e mettere in discussione la politica dominante, tali logiche neutralizzano di fatto la radicalizzazione, riproducono l’utopia che i falchi della guerra possano diventare colombe di pace.
Offuscano, infine, il fatto che la guerra è nella stessa natura del capitalismo, che nasce dalle sue stesse leggi inevitabili. Ciò che in tempo di pace si chiama “competitività”, “conseguimento di profitti”, “conquista di nuovi mercati”, in tempo di guerra assume la forma di distruzione di massa, genocidi, conquista di territori.
Come è ovvio, questa logica non è molto distante da quella che nasce dalle forze che sostengono che il risultato del movimento popolare debba essere un governo “progressista”, “di sinistra”, “orgoglioso”, ecc., che possa far uscire il paese dalla guerra, costituire un elemento di un “cambiamento progressista” nell’equilibrio di forze nell’UE o dichiarare la “neutralità”.
La domanda dunque se un movimento contro la guerra può “vincere”, se può offrire una via d’uscita dalla guerra imperialista, deve essere risposta dal punto di vista della prospettiva di questo movimento. Se rimane solo un movimento di protesta, una voce contro gli orrori della guerra, una risposta popolare di massa che al dilemma “guerra o pace” risponde semplicemente “pace”, è certo che non riuscirà ad aprire la strada per trovare una soluzione alla guerra.
D’altra parte, esistono precedenti storici di uscita dalla guerra in condizioni di crescita dei movimenti rivoluzionari. Esiste il precedente dei movimenti che contestarono e rovesciarono il potere borghese. Ciò avvenne con la Rivoluzione d’Ottobre e l’ondata rivoluzionaria che ne seguì in Germania, Ungheria, Italia, ecc. Come esiste il precedente negativo della separazione della lotta nazionale di liberazione, anticoloniale, di resistenza, dalla lotta per il potere in vari Paesi e periodi storici.
La questione cruciale quindi è che il movimento operaio e popolare che oggi si rafforza sulla base degli sviluppi della guerra in Medio Oriente e in Ucraina, del coinvolgimento greco, per la solidarietà con il popolo palestinese e la sua lotta, acquisti un orientamento anticapitalista e anti-monopolistico, metta in discussione la borghesia, il suo potere nel paese, gli interessi del grande capitale e dei gruppi imprenditoriali.
Per questo, fin da ora deve mettere nel mirino la vera causa della guerra, il vero nemico, gli imperialisti e i loro conflitti, il sistema capitalistico stesso. Specialmente in questa fase critica, deve mettere al centro il principio di “nessuna fiducia nel governo e nella borghesia, nel loro stato e nel loro sistema politico”.
Deve lottare proprio contro gli interessi della borghesia del Paese, che partecipa direttamente o indirettamente alla guerra imperialista. Da questo punto di vista, deve colpire la preparazione bellica a livello economico e politico. Nei luoghi di lavoro, per far fallire le prediche di sostegno al coinvolgimento. Nei settori strategici (porti, aeroporti, telecomunicazioni, infrastrutture), affinché i lavoratori non diventino complici e carnefici nel massacro. Nelle università e nei centri di ricerca, contro il coinvolgimento negli scopi della NATO. Nelle città e province coinvolte nei piani bellici, contro le basi e le altre strutture NATO. Spezzando nella pratica lo sforzo di ottenere il consenso dei lavoratori al coinvolgimento bellico.
Deve collegarsi con le più ampie lotte operaie e popolari contro lo sfruttamento, con le lotte delle forze popolari contro la politica che sostiene i monopoli. Deve contribuire alla formazione di un’alleanza sociale tra classe operaia, altre forze popolari, contadini e piccoli lavoratori autonomi, che abbia come obiettivo complessivo il sistema di sfruttamento e le guerre imperialiste a vantaggio dei monopoli. Per questo è necessario che sia un movimento che poggia sulle organizzazioni di massa dei lavoratori, delle forze popolari, degli studenti, dei sindacati, delle associazioni.
Un movimento che non calpesti le “buccia di banana” del sostegno a soluzioni governative borghesi alternative, che non diventi lo “zerbino” per riorganizzazioni nel sistema politico borghese, ma che contribuisca alla radicalizzazione delle forze operaie e popolari, al rafforzamento della fiducia nella propria forza, nella capacità di scontrarsi con il sistema capitalistico. Non deve seminare nuove illusioni su governi transitori nel terreno del capitalismo che, facendo uscire il paese dalla guerra e appoggiandosi al blocco eurasiatico, aprirebbero la strada al rovesciamento del sistema.
Deve rivelare e non tollerare l’ipocrisia di forze come la socialdemocrazia, che pur avendo le mani sporche di sangue, avendo sigillato la collaborazione con lo stato assassino di Israele, oggi riesumano di nuovo le kefiah palestinesi e fingono di manifestare per “libertà in Palestina”, per cercare di lavare le proprie responsabilità.
Un movimento che non scelga campo imperialista, che non coltivi illusioni e false speranze di poter, sostenendo un cambiamento di equilibrio a favore del campo delle forze imperialiste “in ascesa” (blocco eurasiatico), condurre a una via d’uscita popolare per il popolo del paese. Esprimerà senza alcuna riserva la solidarietà alla lotta del popolo palestinese e di tutti i popoli che combattono contro l’imperialismo. Un movimento che lotta per la prospettiva del disimpegno del paese dalle alleanze imperialiste NATO e UE, combinato con la lotta per il potere della classe operaia.
Le condizioni per la maturazione di un tale movimento si formano oggi, nella lotta quotidiana, nelle battaglie, nelle iniziative prese per rafforzare l’orientamento anticapitalista, nella dialettica con le concezioni borghesi e opportuniste. Ciò si valuta dalle caratteristiche che oggi il movimento assume, come descritto sopra.
Questa battaglia la conducono ovunque all’interno del movimento operaio e popolare i membri e i dirigenti del KKE e della KNE, promuovendo la politica del Partito, il suo Programma, affinché si comprenda la necessità della controffensiva, della rottura con l’attuale sistema. La necessità del suo rovesciamento e della conquista del potere operaio e popolare. Questa sarà la via definitiva d’uscita per i popoli.
Note
- “Sionismo”: teoria nazionalista reazionaria che considera la creazione dello Stato di Israele nel territorio della Palestina come il compimento di una promessa divina al “popolo di Israele” e, in questo senso, che la terra della Palestina appartenga legittimamente a Israele.
- Per dimostrare che una pressione popolare può portare alla fine della guerra (o impedirne l’inizio), si utilizza l’esempio della guerra del Vietnam e del grande movimento sviluppatosi allora negli USA contro la guerra. Tuttavia, questo “esempio” trascura alcuni parametri fondamentali. In primo luogo il rapporto di forze internazionale, cioè il fatto che allora esisteva l’URSS, il sistema socialista internazionale, le sue relazioni con popoli e paesi che combattevano contro il colonialismo. Era in corso la lotta internazionale tra capitalismo e socialismo, che influenzava tutte le scelte e le posizioni del campo imperialista. Inoltre, le proteste contro la guerra in Vietnam negli USA si svolsero sul terreno di piccole e grandi vittorie dei comunisti vietnamiti, vittorie che ovviamente derivarono anche dal sostegno multiforme dell’URSS e di altri paesi e, di conseguenza, dalla sconfitta militare degli USA. In questo contesto, contribuì indubbiamente anche la mobilitazione di massa, popolare, soprattutto negli USA ma anche a livello internazionale contro la guerra imperialista, la solidarietà multiforme al popolo vietnamita che rafforzò divisioni e contrasti nelle file della borghesia USA, in condizioni di crisi economica. Pertanto, le proteste contro la guerra in Vietnam erano oggettivamente collegate a una più ampia lotta internazionale tra socialismo e comunismo, nonostante la forte influenza di concezioni revisioniste, riformiste e pacifiste borghesi all’interno del movimento pacifista, che lo limitarono infine nell’ambito di scelte borghesi.