Di Luiz Brizuela, da Adelante!, organo del Partito Comunista Paraguaiano (PCP)
1° luglio 2025
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La solitudine è un tema che, dalla pandemia di COVID-19, sta suscitando un interesse crescente. Ma la pandemia non ha creato la solitudine: ha piuttosto contribuito a scoperchiare e ad approfondire una solitudine che esisteva già da prima.
Perché la classe operaia non riesce a mantenere legami significativi?
Mentre il giorno più freddo dell’anno[1] scivola via nella settimana, molte lavoratrici e molti lavoratori si interrogano sulla propria solitudine e desiderano il calore umano per affrontare l’inverno. È un momento importante per riflettere sulla natura delle nostre relazioni oggi.
Già negli anni Sessanta, il racconto L’autostrada del Sud[2] metteva in guardia sul carattere sempre più occasionale delle nostre relazioni e dei nostri legami e, dietro a ciò che è occasionale, su una fragilità pulsante. Il racconto di Julio Cortázar esplora la vicenda di un gruppo di persone che, bloccate per lungo tempo nel traffico, cominciano a intrecciare relazioni fondate sulla cura reciproca, arrivando persino a diventare genitori — nel caso di due personaggi. Quando finalmente l’ingorgo si sblocca, ciascun personaggio, a bordo della propria auto, scompare nella rapidità dell’autostrada, fino a che diventa impossibile che possa avvenire di nuovo un contatto tra loro. Sono stati inghiottiti dall’immediatezza con cui si è dissolta quella situazione contingente.
La storia è una metafora che rappresenta con grande precisione l’imprevedibilità delle nostre vite, attraversate dalla necessità e dal caso. Un aspetto prezioso di questo racconto è che rivela una preoccupazione che già prendeva forma negli anni Sessanta, ma che col tempo si è accentuata. Più di sei decenni dopo, ci troviamo di fronte a realtà sempre più imprevedibili per la classe operaia.
Una pandemia di solitudine
La solitudine non è soltanto un sentimento triste, è anche un pericolo per la vita. Esistono studi che dimostrano che l’effetto dell’isolamento sociale sulla salute è paragonabile a quello della pressione alta, della mancanza di esercizio fisico, dell’obesità o persino del fumare 15 sigarette al giorno[3]. Questi pericoli si aggravano quando la solitudine diventa cronica. Ieri, la Commissione per la Connessione Sociale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un rapporto in cui si rivela che 1 persona su 6 soffre di solitudine, e che ogni ora 100 persone muoiono per cause legate alla solitudine: più di 871.000 morti annuali nel mondo[4]. Il rapporto sottolinea che siamo molto connessi digitalmente, ma che nonostante ciò molti giovani si sentono soli. Ovviamente, raccomanda di salutare un vicino, comunicare con gli amici o addirittura unirsi a un’attività di volontariato. Ironia della sorte, nello stesso tempo riconosce che la causa della solitudine può risiedere, tra le altre cose, nella cattiva salute e nei bassi redditi. Viene spontaneo chiedersi: da dove si trova denaro e tempo, in queste condizioni di sfruttamento, per unirsi a un’attività di volontariato?
Lavoro precario in Paraguay: perché i giovani non hanno tempo per gli amici?
Il 12,5% della popolazione giovanile è disoccupata (INE, 2023). Secondo dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), il 64% dei giovani lavoratori non ha né contratto né accesso alla previdenza sociale. Nel settore rurale questa percentuale sale all’82%. Il 41% della classe operaia in Paraguay guadagna meno del salario minimo (INE, 2025). A tutto ciò si aggiungono problemi che conosciamo molto bene, come la pessima qualità del sistema sanitario, il trasporto pubblico affidato a gestioni private, l’eccessivo costo di alimenti e affitti, in sintesi: una vita indegna. Di fronte a queste condizioni, la gioventù lavoratrice vive spinta dall’urgenza delle necessità, sotto il peso alienante dello sfruttamento, e con i consolatori anestetizzanti dell’intrattenimento superficiale che occupano grandi porzioni del poco tempo libero che rimane. Non sorprende che in questo contesto risulti più difficile compiere sforzi materiali e psicologici per prendersi cura e sviluppare legami importanti.
Questo è il vero motivo del nostro isolamento collettivo: nel quadro del modo di produzione capitalistico, non esiste un reale interesse affinché gli esseri umani sviluppino abilità che permettano di legare in modo profondo e significativo. Non esistono nemmeno condizioni materiali perché la classe operaia possa mantenere solidi nel tempo i propri rapporti di amicizia, di coppia e familiari. Come fa un gruppo di cinque amici d’infanzia a incontrarsi regolarmente quando due di loro lavorano ogni fine settimana a Tupi, uno fa turni notturni a Biggie e gli altri due studiano in università private mentre lavorano in modo informale per pagarsi gli studi? Come fa una coppia di giovani a vedersi quando dipendono dai genitori, o l’affitto è più della metà del loro salario, o non hanno un’auto per spostarsi la sera o nei weekend, o non hanno soldi per mangiare fuori insieme? Abbiamo davvero paura dell’impegno o semplicemente non abbiamo soldi?
Sui social circolano idee che giustificano il nostro modo di relazionarci. Forse ci sentiamo responsabili e abbiamo bisogno di creare narrazioni per giustificare la nostra mancanza di cura nelle relazioni. Sarebbe importante capire che non siamo singolarmente responsabili di questa situazione. Una delle idee che emergono come narrazione per normalizzare questo è che le “vere amicizie” sono quelle in cui gli amici possono ignorarsi per un anno intero, senza però arrabbiarsi o smettere di essere amici. Questo è solo un modo di nascondere che non abbiamo le risorse per lavorare, studiare e allo stesso tempo mantenere le amicizie. In realtà, le amicizie sono rapporti che meritano cura, attenzione e dedizione, e non è positivo che le amicizie scompaiano dalla vita degli altri.
Non si tratta di avere sempre le stesse relazioni, ma di criticare il poco spazio che ci resta per poter godere delle nostre connessioni umane. Questo spazio limitato ci costringe a relazionarci nel quadro delle nostre situazioni particolari e contingenti, proprio come rappresentato in L’autostrada del Sud. Forse proviamo un affetto profondo per i compagni di lavoro, di università, di scuola o di qualche gruppo di lettura. Ma tutte queste relazioni poggiano sulla fragilità della contingenza e in qualsiasi momento potremmo perdere il lavoro, essere costretti a migrare in altre città o paesi, o non avere più soldi per pagare la partecipazione a quel gruppo di lettura, e con la stessa incertezza e rapidità le nostre relazioni si disgregano.
Questo poco spazio che ci resta può anche spingerci a chiuderci nelle poche relazioni che riusciamo a mantenere nel tempo: nelle domeniche in famiglia, o nelle relazioni di coppia, dove è molto più semplice coordinare spese e impegni, allontanandoci dagli amici per concentrarci su quei pochi legami che sono davvero possibili.
Da Cortázar a Kollontaj: la fragilità dei legami nel capitalismo
Aleksandra Kollontaj criticava già il fatto che queste relazioni di famiglia e di coppia si basano sulla logica della proprietà sull’altro; per questo motivo, relazioni di questo tipo non potranno mai saziare completamente la sete di connessione umana della classe operaia. “Pretendiamo sempre di ottenere per intero, senza eccezioni, l’essere amato in corpo e anima, e siamo incapaci di rispettare la formula più semplice dell’amore: avvicinarci allo spirito dell’altro con il più attento affetto (…). L’umanità soffre ancora del freddo della solitudine morale, e non può che sognare quel secolo migliore in cui tutte le relazioni umane saranno impregnate di sentimenti solidali, forgiati in nuove condizioni di esistenza”.[5]
Questo modo di produzione limita la quantità e la qualità delle relazioni che possiamo avere. Anche se facciamo lo sforzo di instaurare qualche legame, siamo stanchi dallo sfruttamento, e non possiamo essere la migliore versione di noi stessi quando viviamo questa condizione. Qui risiede la vera sofferenza della solitudine: una persona può avere molti amici sui social o sul lavoro, ma la vera solitudine riguarda l’assenza di legami significativi, che richiedono una cura che non sempre e non tutti abbiamo le condizioni di sviluppare.
Portiamo con noi la solitudine da molto tempo, specificamente da quando domina globalmente il modo di produzione capitalistico. Quando la solitudine diventa cronica, non entra in gioco solo la paura per la salute o la vita stessa, ma anche il nostro senso di umanità. Una volta cronica, la solitudine ci impedisce di desiderare di connetterci con gli altri per paura del rifiuto, e ostacola persino la nostra capacità di comprendersi vicendevolmente. È dimostrato che più siamo soli, più prestiamo attenzione ai gesti e ai toni di voce, ma meno siamo capaci di interpretare correttamente le persone[6], il che ci porta ad assumere atteggiamenti difensivi che ci allontanano. Fa paura pensare a un futuro in cui il capitalismo continui a essere il modo di produzione dominante, e le grandi masse della classe operaia si ritrovino in miseria e povertà, sfruttate e infelici, incapaci di capirsi e prendersi cura gli uni degli altri come esseri umani. Ma fa paura anche questo presente, in cui si sta già diffondendo un’epidemia di solitudine, e in cui il suicidio è ogni anno una delle principali cause di morte tra adolescenti e giovani.
Come costruire connessioni reali in un sistema che ci isola?
Per evitare la solitudine, abbiamo bisogno di essere veramente connessi con noi stessi, con i nostri legami più diretti e con qualche progetto collettivo che sia superiore alla nostra mera individualità[7]. Aleksandra Kollontaj parlava delle ombre di quelle nuove relazioni che verranno una volta superato il modo di produzione capitalistico. Con questo intendeva che, nel quadro del capitalismo, non possiamo sapere esattamente come saranno quelle relazioni, ma le loro molteplici e diverse forme si possono intuire già dal presente, ogni volta che ci organizziamo sforzandoci di andare contro questa logica di individualismo, di proprietà sull’altro e su altri legami, quando cerchiamo di rubare al capitalismo il tempo che ci resta e, invece di rifugiarci nella solitudine di un videogioco o di una serie TV, ci spingiamo a stare vicini gli uni agli altri.
La risposta per cambiare questa situazione potrebbe essere la lotta per una società comunista senza sfruttatori né sfruttati, in cui possiamo scoprire il nostro vero potenziale per l’arte e la scienza, dove possiamo convivere con la natura, conoscere il mondo, e soprattutto avere il tempo e gli strumenti per connetterci come un’umanità nuova. E finché quella nuova società non esiste, lottare perché esista potrebbe essere la cosa più vicina a goderne nelle nostre vite.
Note
[1] NdT: il Paraguay è nell’emisfero del sud, in cui la data di pubblicazione di questo articolo si colloca in pieno inverno.
[2] NdT: di Julio Cortázar, si veda qui. Purtroppo il link (presumibilmente al testo) proposto dall’articolo originale non è funzionante in data 11/08/2025 in cui è stato consultato, ma risulta disponibile tramite Internet Archive qui.
[3] “Solitudine, natura umana e bisogno di relazioni sociali”, capitolo 1, John T. Cacioppo, William Patrick.
[4] https://www.who.int/es/news/item/30-06-2025-social-connection-linked-to-improved-heath-and-reduced-risk-of-early-death
[5] Le relazioni tra i sessi e la lotta di classe, Aleksandra Kollontaj. NdT: non disponibile online in italiano, è disponibile una versione in spagnolo qui e una in inglese qui.
[6] “Solitudine, natura umana e bisogno di relazioni sociali”, capitolo 9, John T. Cacioppo, William Patrick.
[7] “Solitudine, natura umana e bisogno di relazioni sociali”, capitolo 5, John T. Cacioppo, William Patrick.