Raccogliamo e pubblichiamo due articoli di commento, da parte del Partito Comunista di Grecia, sul tema della “Guerra cognitiva” e delle nuove strategie di controllo della NATO sulle società, in particolare indirizzate alla manipolazione delle coscienze e al superamento della riluttanza dei popoli di farsi massacrare nelle guerre. Buona lettura.
Obiettivo: la mente umana!
Sulla conferenza dei propagandisti della NATO ad Atene
Di Dīmītrīs Mavidīs, da Rizospastis, organo del Partito Comunista di Grecia (KKE)
4 ottobre 2025
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La “guerra cognitiva”, il “nuovo campo di battaglia” della NATO
«La guerra è cambiata. Controllo della genetica, controllo dell’informazione, controllo delle emozioni, controllo del campo di battaglia. Tutto è sorvegliato e tenuto sotto controllo (…) e chi controlla il campo di battaglia, controlla la Storia. La guerra è cambiata».
Le frasi precedenti si sentono all’inizio di una delle più popolari serie di videogiochi di guerra, come commento all’evoluzione tecnologica nei campi di battaglia. Tuttavia, gli alti comandi della NATO sembrano non essere d’accordo. Anche nell’epoca dell’informazione, dei droni, dei satelliti e degli attacchi di precisione, l’essere umano — e il controllo della sua coscienza — restano al centro della guerra…
“La dimensione assoluta del conflitto”
La conferenza annuale dei “comunicatori” della NATO (NATO Communicators Conference) si è tenuta quest’anno ad Atene, alla fine di settembre. Vi hanno preso parte quasi 500 funzionari, riuniti per discutere di un nuovo tipo di guerra che mira direttamente alla mente umana — al modo in cui le persone pensano, provano emozioni e prendono decisioni.

La copertina del primo periodico della NATO dedicato alla “Guerra Cognitiva”
«La conferenza» — si legge sull’account del Comando Alleato per la Trasformazione (Allied Command Transformation, ACT) della NATO — «si è concentrata sulla sfida rappresentata dalla Guerra Cognitiva (Cognitive Warfare): su come gli avversari prendono di mira le percezioni, manipolano l’informazione e cercano di minare la fiducia».
Come ha sottolineato dal podio del convegno la dottoressa Vlasta Zekulic, vicedirettrice per la Gestione Strategica e le Comunicazioni dell’ACT, «la Guerra Cognitiva prende di mira la mente umana — la dimensione assoluta del conflitto».
Tuttavia, dietro la retorica della “protezione dei cittadini dalle influenze nemiche”, i vertici della NATO cercano di nascondere il fatto che stanno sviluppando in modo sistematico una nuova dottrina di guerra, che trasforma la mente umana in un campo di battaglia.
«La conferenza ha sottolineato che la NATO non deve soltanto difendersi dagli attacchi nello spazio cognitivo, ma anche agire attivamente al suo interno», si legge nel comunicato dell’ACT.
Che cos’è la “Guerra Cognitiva”
Secondo la definizione formulata dall’ACT, la “Guerra Cognitiva” riguarda «attività condotte in coordinamento con altri strumenti di potere, allo scopo di influenzare atteggiamenti e comportamenti attraverso l’influenza, la protezione e/o la perturbazione della cognizione individuale e collettiva, al fine di ottenere un vantaggio».
Si tratta di una forma di conflitto in cui l’obiettivo è il controllo del modo in cui le persone pensano e prendono decisioni.
Questo approccio si differenzia sostanzialmente dalla tradizionale “guerra dell’informazione”, che mira a determinare che cosa pensano i popoli attraverso la manipolazione delle notizie. La “Guerra Cognitiva” invece si concentra su come le persone pensano, cercando di alterare la stessa capacità di ragionamento e il processo decisionale.
«La Guerra Cognitiva non è lo strumento con cui combattiamo: è essa stessa la lotta. Il cervello è al tempo stesso il bersaglio e l’arma nella battaglia per la superiorità cognitiva. Il conflitto in questo ambito comprende attività militari e non militari, intenzionali e coordinate, lungo l’intero spettro della competizione, con l’obiettivo di acquisire, mantenere e proteggere il vantaggio cognitivo», afferma l’ACT.
La base scientifica della manipolazione
Lo sviluppo del concetto di “Guerra Cognitiva” si fonda su decenni di ricerche nel campo delle neuroscienze, dell’economia comportamentale, della psicologia e di altre scienze affini. I teorici della NATO si richiamano agli studi dello psicologo israelo-americano e premio Nobel Daniel Kahneman e alla sua teoria del “pensiero veloce” e “pensiero lento”, nonché a lavori analoghi di altri ricercatori, secondo i quali solo una piccola parte delle decisioni umane è consapevole e razionale — meno del 5%.
Il resto delle decisioni è limitato e influenzato da fattori inconsci, come la ripetizione, le reazioni automatiche, i pregiudizi e gli errori di ragionamento, fenomeno che viene definito “razionalità limitata”.

Rapporto pubblicato dall’Allied Command Transformation: “Considerare il genere nella guerra cognitiva”
Questa conoscenza sui limiti cognitivi e sui pregiudizi (cognitive biases), che per decenni è stata impiegata soprattutto dalle aziende di marketing, ora viene perseguita per un’applicazione sistematica a livello geopolitico e militare. La NATO studia e registra fenomeni comportamentali come l’“anchoring effect” — la tendenza a basarsi eccessivamente sulla prima informazione ricevuta — e il “confirmation bias” (pregiudizio di conferma), la propensione a cercare informazioni che confermino le convinzioni già esistenti di una persona.
Il professore francese Bernard Claverie, uno dei “pionieri” della NATO nello studio della “Guerra Cognitiva”, osserva che le moderne scienze cognitive “dure” hanno radicalmente cambiato lo scenario: «Queste scienze studiano il pensiero come un oggetto materiale… I loro risultati mostrano che è possibile prendere di mira con precisione i processi cognitivi stessi, e così modificare direttamente i processi di pensiero dell’avversario». [1]
Come egli stesso nota, la “Guerra Cognitiva” può influenzare il pensiero a breve termine, il processo decisionale e la reazione, agendo sull’attenzione, sfruttando i bias cognitivi e il pensiero riflesso per modificare le abitudini di ragionamento delle vittime. «La guerra cognitiva è l’arte di usare strumenti tecnologici per alterare la cognizione degli obiettivi umani (…) con conseguenze negative sia a livello individuale sia collettivo».
La Guerra Cognitiva è ormai considerata un campo distinto del conflitto moderno. Accanto ai quattro domini militari definiti dall’ambiente — Terra, Mare, Aria e Spazio — e al cyberspazio che li connette tutti, eventi recenti che hanno rovesciato l’equilibrio geopolitico delle forze hanno dimostrato che questo nuovo dominio bellico è emerso ed è già stato messo in opera.
E spiega: «Un pilota può essere indotto a reagire in modo errato in una determinata situazione; un tecnico responsabile della manutenzione di una macchina può vedere le proprie motivazioni progressivamente minate da influenze “digitali e sociali”; oppure individui possono essere radicalizzati all’interno di gruppi identitari tramite le piattaforme sociali, fino a essere convinti — apparentemente per libera volontà — della correttezza morale di operazioni letali». [2]
Il termine “Guerra Cognitiva” viene utilizzato con questo significato negli Stati Uniti dal 2017, per descrivere in particolare i metodi di manipolazione dei meccanismi mentali di un nemico o dei suoi cittadini. «Benché questa missione più ampia sia sempre stata parte dell’arte della guerra, qui abbiamo a che fare con un nuovo campo, che richiede ulteriori analisi», osserva Claverie.
«Si stanno sviluppando nuove teorie — tra cui quelle relative alla resilienza o alle vulnerabilità delle neuroscienze, allo sfruttamento dei bias cognitivi e della possibilità di errori cognitivi, alla manipolazione delle percezioni, ai modi in cui la nostra attenzione può essere sovraccaricata o indirizzata, e alle pressioni cognitive che possono essere indotte. Tutto ciò ha conseguenze prevedibili sulla nostra lucidità mentale, sulle relazioni sociali e sulle motivazioni, così come sull’efficacia delle organizzazioni».
Gaming, influencer e social media
La conferenza di Atene è stata in larga parte dedicata al ruolo delle tecnologie emergenti nella “Guerra Cognitiva”. I social media sono considerati il principale campo di battaglia. Come sottolineano gli analisti, un utente medio trascorre su queste piattaforme 2,5 ore al giorno, cioè 5,5 anni nell’arco di una vita media. Questa enorme esposizione crea opportunità senza precedenti per modellare e controllare la cognizione.
L’intelligenza artificiale generativa (Generative AI) si prevede trasformerà ulteriormente il panorama. Non solo aumenterà il volume e la portata delle campagne di disinformazione, abbattendo gli ostacoli economici e tecnici, ma ne migliorerà anche qualità ed efficacia.
Esempio significativo è il programma del prossimo congresso NATO analogo, il Digital Frontlines 2025, previsto per l’8 ottobre a Riga, in Lettonia, dove vengono presentate le priorità della NATO nella Guerra Cognitiva. «Quest’anno l’agenda del convegno tratterà il futuro dei social media, l’influenza dell’Intelligenza Artificiale sul pensiero critico e razionale, e le vulnerabilità nel mondo del gaming (videogiochi)», si legge, e tra i temi principali figurano:
- Il futuro dei social network: come mantenere la NATO dominante sulle piattaforme emergenti.
- Approccio al pubblico in contesti informativi limitati: ossia, come far penetrare la propaganda NATO in paesi dove i media sono controllati da governi “ostili”.
- Il ruolo degli influencer nelle strategie di comunicazione: l’uso di personalità popolari dei social media per diffondere i messaggi della NATO.
- Intrattenimento o sfruttamento? Il mondo del gaming, con milioni di giovani utenti in tutto il mondo, è riconosciuto come un campo critico della Guerra Cognitiva.
- Oltre le grandi aziende — il caso dei social network decentralizzati: come affrontare piattaforme non controllate dai gruppi imprenditoriali “occidentali”.
Questi temi rivelano l’ampiezza totale della strategia: nessuno spazio di interazione e comunicazione umana deve rimanere fuori controllo. Dai bambini che giocano a Fortnite ai giovani che seguono influencer su Instagram, tutti devono essere esposti alla “narrazione corretta”.
Il settore dei videogiochi, in particolare, è considerato particolarmente vulnerabile e “privilegiato”. Milioni di giovani trascorrono ore ogni giorno in mondi virtuali dove narrazioni su guerra, eroismo e nemici vengono costruite dai creatori dei giochi. La NATO riconosce che queste esperienze modellano le percezioni dei giovani sul conflitto, sull’esercito e sulla guerra, e vuole garantire che tali narrazioni siano coerenti con gli interessi dell’Alleanza.
I concorrenti strategici
La NATO concentra sistematicamente l’attenzione su due principali avversari nella “Guerra Cognitiva”: la Cina e la Russia. Per quanto riguarda la Russia, i funzionari della NATO pongono l’accento sulle operazioni di disinformazione, in particolare intorno alla guerra in Ucraina, sottolineando che le campagne russe volte a minare il sostegno “occidentale” all’Ucraina si sono intensificate.
Maggiore tuttavia è l’interesse riversato negli studi sulla Cina: secondo alcune analisi dell’esercito statunitense, le Forze Armate cinesi considerano la “Guerra Cognitiva” alla pari con gli altri domini bellici (aria, mare, spazio) e la ritengono cruciale per la vittoria — in particolare per la vittoria senza ricorrere alla guerra.
In un articolo pubblicato sulla rivista del National Defense University degli USA, intitolato «La ricerca del vantaggio militare da parte della Cina tramite le scienze cognitive e la biotecnologia» [3], si osserva: «Gli Stati Uniti cominciano ad affrontare sfide senza precedenti alla supremazia militare e tecnologica di cui godevano nella storia recente. La Cina emerge come potenza in una serie di tecnologie emergenti e riconosce l’attuale rivoluzione tecnologica come un’opportunità cruciale — persino storica — per conseguire un vantaggio strategico.
L’innovazione cinese è pronta a perseguire sinergie tra la scienza del cervello, l’intelligenza artificiale e la biotecnologia, le quali potrebbero avere impatti estesi sulla sua futura potenza militare. I leader militari cinesi sembrano credere che tali tecnologie emergenti finiranno inevitabilmente per essere cooptate nella guerra, richiamando spesso un aforisma di Engels: non appena gli sviluppi tecnologici possono essere usati per scopi militari e vengono effettivamente usati per scopi militari, molto rapidamente e quasi inevitabilmente — spesso contravvenendo alla volontà del comandante — essi provocano cambiamenti o addirittura trasformazioni nel modo di fare la guerra. L’esercito cinese intende conseguire un vantaggio operativo prendendo l’iniziativa durante questo processo di trasformazione.
(…) Secondo He Fuchu, all’epoca presidente dell’Accademia Cinese delle Scienze Mediche Militari, già nel 2015: “La sfera delle operazioni si estenderà dal dominio fisico e dal dominio dell’informazione al dominio della coscienza. Il cervello umano diventerà un nuovo spazio di battaglia”. Di conseguenza, il successo nel futuro campo di battaglia richiederà il conseguimento non solo della “supremazia biologica”, ma anche della “supremazia mentale/cognitiva”. Questi concetti emergenti, discussi sempre più frequentemente in scritti autorevoli, riflettono il riconoscimento, da parte dell’esercito cinese, dell’importanza crescente di contestare la superiorità entro questi nuovi confini per ottenere un vantaggio. Nonostante la complessità e la potenza delle tecnologie avanzate, questo elemento umano della guerra rimane una vulnerabilità critica e una fonte potenziale di vantaggio».
Chi manipola chi?
La conferenza NATO di Atene non è stata una discussione accademica. È stato un laboratorio per perfezionare tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica e controllo del pensiero. I quasi 500 “combattenti cognitivi”, come sono stati definiti i partecipanti, si sono riuniti per progettare «come conquistare, mantenere e proteggere il vantaggio cognitivo».
Come ha dichiarato Jay Paxton, direttore delle Relazioni Pubbliche e vicedirettore per le Comunicazioni Strategiche dell’ACT: «I comunicatori si sono riuniti qui per cercare di capire cosa dobbiamo fare per proteggere al meglio un miliardo di cittadini nell’ambiente informativo». La frase è rivelatrice: non si parla di informare un miliardo di cittadini, ma di “proteggerli” — in altre parole, di controllare quali informazioni riceveranno e come le interpreteranno.
La retorica della NATO sulla “protezione” dei cittadini dagli attacchi cognitivi coesiste con il discorso aperto su come questo debba “funzionare attivamente” nella Guerra Cognitiva. La differenza non sta nei metodi, ma nello scopo. Quando la NATO applica la Guerra Cognitiva ai popoli degli Stati membri, lo fa “per il loro bene”, per “proteggerli” dalla disinformazione. Quando lo fanno i suoi concorrenti, è considerato “attacco cognitivo” e “sovversione della democrazia”. Questo approccio ipocrita è evidente in ogni documento, presentazione e analisi della NATO.
Dietro la retorica sulla “difesa della democrazia” e sulla “protezione dalla disinformazione” si nasconde una strategia che trasforma la mente umana in campo di battaglia e i cittadini in obiettivi — non solo dei “nemici”, ma anche dei governi civili dei loro stessi Stati.
L’intera discussione ricorda il programma oscuro e barbaro della CIA, MK Ultra, attivo negli Stati Uniti tra il 1953 e il 1973. Quanto i comandi della NATO, così come i loro concorrenti, riusciranno a mettere in pratica la Guerra Cognitiva, o se finiranno per diventare essi stessi fonte d’ispirazione per serie televisive come Stranger Things, resta da vedere. La sostanza, però, va oltre il bersaglio, e si riflette in un insegnamento senza tempo di Brecht:
«Generale, il tuo carro armato è una macchina potente
spiana un bosco e sfracella cento uomini.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un carrista.».
Riferimenti
[1] Claverie du Cluzel, Cognitive Warfare
https://innovationhub-act.org/wp-content/uploads/2023/12/CW-article-Claverie-du-Cluzel-final_0.pdf
[2] Polytechnique Insights, Cognitive Warfare – The New Battlefield
[3] National Defense University Press, Minds at War – China’s Pursuit of Military Advantage
«Il dilemma non è se i giovani combatteranno, ma per quale futuro combatteranno»
Sul Collegio di Difesa della NATO
Da Rizospastis, organo del Partito Comunista di Grecia (KKE)
11 ottobre 2025
Link all’originale
Lo studio analizza la «volontà delle società di combattere» e propone strategie di manipolazione per la loro mobilitazione
Mentre le rivalità nel sistema imperialista internazionale si acuiscono, trascinando con sé punti di confronto “freddi” e fronti di guerra “caldi”, e mentre l’UE e la NATO entrano a pieno regime sulla strada dell’economia bellica, i governi borghesi e le loro Forze Armate si interrogano sempre più intensamente su una questione cruciale: fino a che punto i popoli — e in particolare i giovani — sono disposti a combattere sotto la bandiera degli interessi della classe dominante dei loro Paesi?
A questo tema centrale è dedicata una pubblicazione estesa, di oltre 80 pagine, nella collana Future del Collegio di Difesa della NATO, intitolata «Not Withstanding? An Upbeat Perspective on Societies’ Will to Fight» (Riluttanti? Una prospettiva ottimistica sulla volontà delle società di combattere).
«Le guerre sono condotte da coloro che vedono il conflitto come mezzo per riformare la propria patria»

NATO Defense College: «Una prospettiva ottimistica sulla volontà delle società di combattere»
Secondo lo studio, il problema è politico e ideologico, non tecnico: «Un esercito di massa emerge dalla società e si fonda sul suo sostegno. Tuttavia, gli Alleati non possiedono una reale percezione collettiva di come reagirebbero alla guerra quasi un miliardo di persone nei loro territori. Pur disponendo di dati precisi sulle capacità materiali, la valutazione della disponibilità sociale a combattere rimane una sfida complessa, che merita maggiore attenzione nella pianificazione difensiva».
I quadri dell’organizzazione imperialista giudicano d’altronde che i vasti sondaggi d’opinione condotti prima dei vertici NATO — che misurano il sostegno generale delle popolazioni a questioni come lo schieramento di truppe o le spese nazionali per la difesa — non coprono «le domande più sensibili», come:
«– Combattereste per il vostro Paese se questo desse priorità alla vittoria a qualunque costo?
– Combattereste se aveste legami personali con l’avversario o se riteneste che la NATO avesse agito in modo aggressivo?
– Per quale tipo di futuro sareste disposti a combattere?
– Come vi immaginate di combattere per esso?».
Qui risiede il nucleo delle preoccupazioni degli staff NATO. «La Storia mostra che, alle condizioni giuste, la società si solleverà e combatterà. Mostra anche che pochi combattono soltanto per dovere e ancor meno per mantenere uno status quo insoddisfacente. Le guerre su larga scala sono condotte da coloro che vedono il conflitto come mezzo per riformare la propria patria. La vera sfida della mobilitazione non è chiedere fede, ma ispirare la fede in un futuro per cui valga la pena combattere», si osserva in modo emblematico.
Sulla base di quanto detto, lo studio precisa: «Le élite odierne spesso dipingono i giovani come apatici, antimilitaristi e disconnessi dalle questioni della difesa. Il vero problema non è che la Gen Z (nati 1997–2002) non combatterà — è che non le è stato offerto una visione di futuro per cui valga la pena combattere. (…) Soprattutto, la mobilitazione deve essere più che una richiesta di sacrifici — deve offrire una visione del futuro».
Il problema fondamentale, però, per i capitalisti, il loro Stato e le alleanze imperialiste è proprio questo: non sono in grado di offrire alcun tipo di visione alle popolazioni, a causa del perverso ciclo di crisi, guerre, povertà e sfruttamento, il tutto rivestito con i “valori” del loro sistema marcio.
Implicitamente, inoltre, questo traspare anche nelle osservazioni del rapporto secondo cui oggi prevalgono due percezioni dominanti, che riflettono questo “pessimismo delle élite” della NATO.
Primo: che «la società euro‑atlantica è diventata post‑moderna: frammentata, distratta da identità politiche e incapace di agire contro minacce esterne chiare», descrivendo così come le finte apparenze e i costrutti ideologici del campo euro‑atlantico — presentati come una presunta “linea di demarcazione” con l’eurasiatico —, anziché pesare sui popoli, ritornino come boomerang contro di loro.
Secondo: che «la società euro‑atlantica è diventata post‑eroica: agiata, evita il rischio, riluttante a fare sacrifici per il bene collettivo», dove per “bene collettivo” s’intende in realtà… l’interesse individuale di una manciata di parassiti sociali.
Gli autori del rapporto tuttavia vogliono restare ottimisti, sostenendo che «queste assunzioni trascurano la capacità della società moderna di sorprendere e trasformarsi. Questo è sottolineato da una terza narrazione, meno dominante: c) La Storia mostra che, in presenza delle condizioni giuste — uno scopo chiaro, fiducia reciproca e leadership — le società possono rispondere all’appello».
«Coinvolti attivamente» per «forze sociali gestibili»
In questo contesto, lo studio descrive la preoccupazione reale degli staff militari e governativi: i piccoli eserciti professionali post‑Guerra Fredda non si espandono facilmente — il reclutamento di massa non è più scontato. Tuttavia, il punto cruciale non si limita a riconoscere questa debolezza: propone interventi attivi, come la «trasformazione» della società, la produzione di narrazioni e l’uso di influencer, social network, gaming e piattaforme tipo TikTok come spazi di «coinvolgimento» per convertire la resistenza individuale o collettiva in conformità, in arruolamento sotto la bandiera degli interessi della classe dominante.
«Gli eserciti degli Alleati devono interagire con la società, comprendere i comportamenti contemporanei, immaginare molteplici scenari di battaglia in cui questi possano offrire vantaggio e ideare strategie per sfruttare queste conoscenze», si legge nello studio.
E aggiunge cinicamente: «I loro analisti devono andare oltre l’oggettività distaccata, intervenendo attivamente e influenzando i comportamenti sociali per rendere le dinamiche sociali più prevedibili e gestibili». Il rapporto è chiaro: «Il modo migliore per prevedere un comportamento è spesso plasmarlo».
Proprio per modellare i comportamenti, il documento sottolinea che «l’Organizzazione NATO per la Scienza e la Tecnologia rafforza ora la conoscenza del “fattore umano”, studiando questioni come la gestione della fatica e le resistenze psicologiche», evidenziando che «il fattore umano richiede un approccio olistico». È necessario «identificare comportamenti emergenti, rafforzare tendenze positive e garantire che le strutture militari possano assorbire la piena complessità del fattore umano quando conta di più».
In questo quadro, si osserva che la strategia NATO deve includere anche lo sfruttamento dei periodi di crisi. «Le crisi funzionano come catalizzatori», recita il testo. «Non devono essere necessariamente guerre o minacce esterne. Una crisi può essere un risultato elettorale inatteso (Francia), un esito shock di un referendum (Regno Unito) o critiche persistenti da parte degli alleati (Germania)». Come esempi si citano «le reti civiche popolari della Slovacchia, emerse in risposta a scandali politici» e «le indagini annuali sulla resilienza sociale in Lituania», che mostrano «come i governi possano trasformare questo in un continuo anello di retroazione tra governo e società».
Mirano ai giovani
Ampia parte dello studio, come era prevedibile, si occupa del coinvolgimento soprattutto della nuova generazione, della “Generazione Z”, «in particolare perché la NATO farà affidamento su di loro per l’azione bellica almeno fino al 2040, quando saranno rimpiazzati dalla prossima leva di combattenti».
Si sottolinea anzi che la nuova generazione ha deluso gli staff circa le possibilità di reclutarla. «C’è un forte sentimento in tutto il settore che questa generazione sia completamente diversa da tutte le precedenti, e non in senso positivo. (…) Tali delusioni hanno portato a richieste di impegni più vincolanti di servizio militare: se la Gen‑Z fatica a trovare un senso e uno scopo interni nel servizio militare, non ci resta altra scelta che imporlo. L’idea è che, una volta arruolati, vedranno come anche la routine (militare) contribuisca a una missione più grande», recita il rapporto, descrivendo iniziative come quella promossa dal governo greco per la leva obbligatoria a 18 anni.
Il testo avverte sulle conseguenze se la NATO dovesse fallire: «Se la NATO non riconosce la determinazione dei suoi cittadini, i segnali dell’Alleanza verso gli avversari potrebbero perdere efficacia, la sua resilienza indebolirsi e potrebbe perdere la capacità di mantenere una produzione di forze a lungo termine».
Ammette inoltre che «questa carenza non deriverà da una mancanza di capacità analitica, ma piuttosto dal punto di forza stesso della NATO — la sua rigorosa attenzione alla pianificazione materiale. Mentre i pianificatori militari sono esperti nella gestione degli asset materiali, possono incontrare difficoltà a comprendere la natura fluida della volontà sociale. (…) Gli eserciti degli Alleati devono interagire con la società, comprendere i comportamenti contemporanei (…). Devono trarre insegnamenti dalla Storia, dove società apparentemente compiacenti hanno reagito alle sfide, e seguire lo stesso percorso».
Lo studio della NATO mette in luce la natura di classe della guerra imperialista. La borghesia — le «élite», come le definisce il testo — si preoccupa di quanto i popoli siano disposti a sacrificarsi per i suoi interessi. Il rapporto parla di una «visione per cui valga la pena combattere». In realtà si tratta di uno sforzo sistematico per convincere i lavoratori, i giovani e i ceti popolari a farsi massacrare in guerre estranee ai loro interessi. Per difendere un sistema che li sfrutta, che ruba loro il futuro e genera soltanto barbarie, guerre, povertà e fuga.
Di fronte ai tentativi della NATO di plasmare la «volontà delle società di combattere», diventa ancora più chiara l’esigenza di organizzarsi contro i progetti guerrafondai degli imperialisti. Lotta per la rottura radicale con il sistema della barbarie e delle guerre imperialiste, per il socialismo, per una società di reale prosperità popolare, per la pace e la convivenza fra i popoli. Ed è davvero questo l’unico «progetto» per cui valgono davvero la pena tutti gli sforzi dei popoli e dei giovani.








