Cinema ritrovato: Il muro di gomma, di Marco Risi, 1991
Quarant’anni dopo, il muro di gomma è stato demolito senza per questo essere giunti alla verità. Oramai, dai vertici della politica all’ultimo usciere di viale dell’Università (sede dell’Aeronautica), tutti chiacchierano senza indugi di “errore” NATO e missili francesi, di guerra non dichiarata e depistaggio di Stato. Il vociferare si è tramutato in verità, grazie anche a questo film di Marco Risi, utile – ancora oggi – soprattutto a smentire un certo anticomplottismo militante: andatelo a spiegare alle famiglie delle vittime di Ustica e di Bologna che “i complotti non esistono”, che la verità è sempre palese e il DC9 ha subito un “cedimento strutturale”.
Eppure, se decidiamo di tornare su di un film fin troppo noto come questo muro di gomma non è solo per ricordare i quarant’anni dalla strage di Ustica, controverso episodio immerso nelle regole della Guerra fredda. È certamente brutale ricercare una ragione nell’abbattimento del DC9 di Itavia, e nonostante ciò di episodi simili è piena la cronaca degli anni Ottanta, dal volo della Korean Airlines abbattuto da Andropov alla tragedia di Lockerbie di matrice libica. Sono le regole di ingaggio dello scontro politico di quel tempo a spiegarne gli orrori connessi. Non questo o quel “sistema deviato” – che pure ci fu – ma la sostanza stessa di quello scontro, la sua radicalità politica, la sua drammaticità intrinseca. Eppure, occorre rammentare con dolore il monito hegeliano: «la vita dello Spirito non è quella che si riempie d’orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa». In questo confronto necessario non siamo nudi ed impotenti di fronte alla pura negatività, a patto che sappiamo soggiornare presso di essa, riconoscerne la razionalità in quanto parte di noi stessi. E infine combatterla.
Tutto ciò, ovviamente, scompare nella pellicola di Marco Risi, e questo ne fa un film di denuncia pulito e innocuo, compatibile con i pruriti liberali dei ceti intellettuali, adatto per tutte le latitudini civiche.
Il film si inserisce nel lungo e contraddittorio filone del cinema di denuncia civile degli anni Settanta, adattandolo allo spirito dei tempi dei primi Novanta, e perdendo per strada – inevitabilmente – ogni discorso complessivo, al fine di edificare il monumento al vero soggetto-storico portatore di scomode verità: il giornalista. Un approccio tipico del cinema americano del precedente ventennio (ma ancora oggi di gran moda, vedi l’orribile The Post), ma che si impone in Italia con non poche difficoltà, data la peculiare condizione intellettuale influenzata, se non a volte subordinata, dal livello delle lotte di classe di quegli anni.
Il giornalista in quanto soggetto dis-ingaggiato, non implicato e, proprio per questo, “obiettivo”, anche quando deve svelare le terribili ragioni del potere. La figura sociale della post-modernità.
Ebbene, la vicenda narra le peripezie del giornalista del Corriere della Sera Rocco Ferrante (ricalcato sulla figura di Andrea Purgatori, protagonista del giornalismo d’inchiesta di quegli anni e in particolare sulla vicenda del DC9, e interpretato dal pur bravo e dimenticato Corso Salani), che non crede alla verità ufficiale diramata dalle istituzioni pubbliche in riferimento alla “caduta” dell’aereo Itavia in viaggio tra Bologna e Palermo, e conduce un lungo lavoro d’inchiesta contro i vertici dell’Aeronautica e della politica, ma anche contro le ritrosie e gli accomodamenti dei poteri “intermedi”, in primo luogo del suo giornale. La verità non verrà a galla, ma la caparbietà del protagonista è ricambiata dall’incriminazione dei vertici militari italiani nel processo che si aprirà nel 1990 e che chiude simbolicamente il film.
L’impegno civile del film è fuori discussione: l’ignobile tentativo di depistare e accomodare una verità “ufficiale” andava combattuto, sebbene nel ’91 fossero presenti quasi tutti gli elementi per rendersi conto di ciò che non tornava (e infatti lo stesso Purgatori, insieme ai familiari delle vittime, li andava ripetendo già da molti anni), e quindi si sarebbe potuto osare di più anche sotto il punto di vista della responsabilità giudiziaria. Oggi che “tutti sanno” (ma cosa, di preciso?), la visione del film ha ancora lo stesso valore e lo stesso impatto? In realtà, ciò che non torna nella ricostruzione del regista, e dello stesso Purgatori, è altro e concerne l’essenza stessa del fatto, non il rumore di fondo italiano.
Nel film scompare il contesto che di fatto determinava Ustica come evento “possibile”, ancorché non auspicabile da nessuna delle parti in gioco. Scompaiono le ragioni profonde, i responsabili diretti, per concentrarsi unicamente sulla superficie del depistaggio, gli ufficiali corrotti e le macchiette del sottopotere. E scompare Bologna, strage non più messa in connessione con Ustica neanche in forma dubitativa.
C’è il giornalista-eroe e i poteri buoni (ça va sans dire: l’apparato mediatico, i giornali, i giornalisti, e poi le vittime); ci sono i cattivi, militari e politici, sempre presentati in forma parodistica, mai davvero spersonalizzati, e quindi mai davvero espressione del potere ma sua alterazione umana.
In questo quadro a tinte decise e irrealistiche, veniamo a sapere che in territorio italiano, nei cieli del Tirreno meridionale, si stava combattendo una guerra in cui i protagonisti erano tutti stranieri: americani, francesi, libici. Che la battaglia aerea aveva probabilmente fatto la classica “vittima accidentale” (81, per la precisione, senza contare l’abbattimento del Mig libico e la morte del pilota, trattata senza alcuna enfasi quasi a dimostrarne la correità), e che la ragion di Stato imponeva di tacitare l’episodio, orchestrando una verità di comodo imbarazzante per i suoi stessi sostenitori. Infine, che gli stessi sostenitori di questa verità imbarazzante, grazie alla caparbietà del giornalista e degli avvocati delle vittime (l’avvocato è l’altro tipo sociale del racconto post-moderno), saranno infine processati. Il problema è che l’infima qualità umana dei vertici militari, anche nella migliore delle vicende giudiziarie a lieto fine, non spiegherebbe comunque Ustica. Non sono stati “gli italiani” a tirare giù il DC9 di Itavia, e lo smascheramento delle coperture non può che fermarsi alla superficie degli eventi.
Eppure la politica italiana c’entra: dove si situa in una vicenda simile la subordinazione militare agli interessi NATO, e in primo luogo agli Usa? Anche in assenza dell’evento clamoroso, della tragedia dell’aereo abbattuto, è normale un’esercitazione militare straniera in territorio italiano?
E, ancor di più, è normale una battaglia militare straniera, in tempo di pace, in un territorio italiano usato come momentaneo teatro di guerra tra interessi contrapposti? E gli interessi contrapposti, erano tutti su di uno stesso piano valoriale? Gli interessi Nato erano uguali e speculari alla lotta anticoloniale della Libia di Gheddafi? Si stava combattendo una battaglia, oppure si è trattato di un’aggressione Nato ad un aereo libico? È davvero sovrano uno Stato che permette l’uccisione di 81 suoi cittadini, da parte di alleati militari, senza chiederne conto ai diretti responsabili?
Queste e altre domande avrebbero dovuto trovare accenno in un lavoro volto a disvelare la verità di un fatto storico. La verità del giornalista dis-impegnato non può però tracimare nell’impegno sociale, ma limitarsi al ruolo di megafono civile di una proceduralità giudiziaria de-radicata dalle ragioni ultime della politica. In questo sta tutta l’alterità con il cinema d’impegno civile degli anni Sessanta e Settanta, la differenza con Francesco Rosi de Le mani sulla città, oppure di uno qualsiasi dei lavori di Elio Petri; ma anche di un cinema dal respiro più internazionale e mainstream à la Costa-Gavras, in cui l’equilibrio realistico si mantiene nonostante l’incipiente deterioramento. Questo il limite, di un cinema presuntamente impegnato, in realtà annichilente.
Oggi rimane la traccia di un buon film civico, inutile alla comprensione degli eventi e utile all’indignazione intellettuale. Le vittime di Ustica (e di Bologna) continuano a lottare contro quella verità di comodo, anche quando questa si veste dei panni della buona coscienza democratica.