In questi giorni sta spopolando, sulla piattaforma online Netflix, Don’t Look up, film di denuncia che vuole sensibilizzare lo spettatore sulla tematica ambientale. Il film si sviluppa grazie all’escamotage narrativo di una cometa che sta per colpire la terra e, grazie ad una comicità cinica e tagliente (e tristemente veritiera), viene messo a nudo e descritto con disarmante precisione l’approccio del sistema capitalista su questioni che riguardano la collettività. In particolar modo viene descritta l’irrazionalità con cui evidenze scientifiche e necessità collettive vengono messe in secondo piano rispetto agli interessi particolari di settori politici ed economici. In sostanza, volendo porre luce sull’emergenza ambientale, viene involontariamente descritto il modello generale di gestione capitalistica, in cui gli interessi della collettività in ogni campo sono subordinati agli interessi particolari delle classi dominanti, cioè alla necessità di fare profitto ad ogni costo.
Questo tipo di gestione è globale e riguarda a 360 gradi la nostra società e va dal cosa, al come e al quanto viene prodotto fino ad arrivare a cose più assurde come le guerre necessarie per assicurare nuovi mercati alle imprese dei vari blocchi imperialisti. Vorremmo però soffermarci sul mostrare i caratteri di questo approccio irrazionale (se visto dal punto di vista degli interessi collettivi) rispetto alla crisi sanitaria, che è l’elemento principale della fase che stiamo vivendo.
Abbiamo visto come sin dagli albori della pandemia la pericolosità del virus fosse stata presa sottogamba e persino negata da quei settori (ristoratori, albergatori ecc..) che avrebbero nell’immediato avuto una riduzione delle proprie entrate. Abbiamo visto come nel mezzo della prima ondata, in una Bergamo messa in ginocchio dal virus con migliaia di morti, il presidente di Confindustria della città uscisse con lo slogan “Bergamo is running”, che grondava di sangue e grida ancora vendetta. Sin dalla prima ondata si è mostrato palese il braccio di ferro tra governo e le organizzazioni padronali su quali fossero i settori essenziali o meno (l’Italia non ha mai interrotto la produzione di armi), con i padroni che avevano la bava alla bocca pur di non perdere neanche un giorno di produzione, a costo di mettere in pericolo la salute e la vita dei propri dipendenti.
Passata la prima ondata abbiamo poi visto come tutte le promesse relative al miglioramento e all’investimento per la copertura delle carenze strutturali del nostro paese, in primis del settore sanitario, siano state del tutto disattese. Solo l’8,1% dei fondi del PNRR sono stati indirizzati alla sanità mentre oltre il 50% dei fondi andranno in Ricerca, Innovazione e Digitalizzazione, a stragrande beneficio delle imprese. La crisi pandemica è un’opportunità per le grandi imprese per portare avanti opere di ristrutturazione e per cercare in tutti i modi di spartirsi al meglio la fetta di torta che arriva dai fondi pubblici stanziati proprio per far fronte alla crisi. Un po’ come nel film di cui sopra, dove il presidente della Bash, dall’arrivo di un meteorite che potrebbe distruggere il pianeta, vede l’opportunità per arricchirsi ulteriormente. Non c’è dunque da meravigliarsi se dopo quasi due anni di emergenza sanitaria ci ritroviamo da capo a dodici con decine di migliaia di casi al giorno.
Ciò che lega la trama di Don’t Look Up alle dinamiche sociali ed economiche a cui stiamo assistendo durante la lotta al Covid (nonostante la sceneggiatura del film sia stata scritta prima dell’esplosione della pandemia) è, soprattutto, la completa mercificazione dell’informazione, intesa non solo in senso mediatico ma anche in senso di “conoscenza” (culturale, scientifica). Nel film non esiste un settore sociale che non sia interessato alle informazioni sulla cometa per ragioni che non siano commerciali e mediatiche, e ciò riguarda sia i negazionisti sia gli “allarmisti” sia, chiaramente, la classe dirigente e monopolistica, rappresentata sullo schermo dal presidente della Bash, personaggio che ricorda il prototipo di imprenditore ‘illuminato’ del settore big-tech americano.
In questo contesto siamo nella piena post-verità, in un mondo dove impera il pensiero post-strutturalista, o post-dialettico: non esiste un progetto comune, una “teleologia” o un valore comunitario da costruire o in funzione del quale pianificare collettivamente la propria reazione alla catastrofe, esiste solo il circolo pragmatico e atomistico denaro-merce-denaro e potere-merce-potere, che è la stessa cosa. Nulla ha valore se non in funzione di questo e, perciò, anche il rischio di scomparire per sempre passa in secondo piano se la salvezza della vita non può essere sfruttata per alimentare questo circolo. Continuare a esistere nella società attuale, per i capitalisti del film, senza alimentare la propria accumulazione utilizzando un’occasione unica come quella della cometa, sarebbe una cosa talmente poco dignitosa e insensata che perderebbero proprio la loro ratio essendi. In questo squarcio drammatico di realtà verosimile, come nel modo in cui la società civile ha fronteggiato il virus, si manifesta l’homo oeconomicus nella sua essenza più profonda. Ciò si manifesta ai nostri giorni nelle vicende richiamate in precedenza, come anche nel rifiuto di derogare alle licenze sui vaccini. Nel film c’è anche un rimando, in termini offensivi, al presunto carattere “marxista” (secondo uno spettatore televisivo) della dottoranda Kate, il personaggio che si sente più spaesato e scandalizzato dall’intero atteggiamento della società verso la notizia della catastrofe. È forse l’unico – o quasi – richiamo esplicitamente politico in oltre due ore di film: segno che chi ha la “folle e squallida” idea di anteporre la “grigia” pianificazione per scopi collettivi alla baldoria del marketing viene, nonostante tutto, legato inconsapevolmente (forse) all’unica ideologia che effettivamente ha perseguito nella storia tali obiettivi.
Al giorno d’oggi, con l’arrivo poi dei vaccini il meccanismo irrazionale appena descritto non risulta mutato, anzi si è mostrato ancora più palese. La campagna vaccinale su scala nazionale, e poi ancor di più su scala globale, non è stata minimamente pianificata. Il vaccino è stato presentato come la panacea di tutti i mali e nessuna critica rilevante è stata posta alla sua modalità di produzione e distribuzione, e questa euforia è servita solo ai governi per evitare dì investire adeguatamente nel trasporto pubblico nelle strutture scolastiche e a 360 gradi nella sanità, sperando inoltre di garantire ai padroni la continuità della produzione. La notizia di questi giorni che i contratti stretti con un positivo, se in possesso di dose booster o di seconda dose da meno di 4 mesi, sarebbero esenti dall’isolamento, va proprio in questa direzione. Questo significa andare contro ogni logica scientifica e sanitaria pur di salvaguardare il profitto.
La mancanza di una pianificazione dell’economia e della società comporta che il vaccino sia visto dalle case farmaceutiche solo come uno strumento per fare profitti enormi e non come uno strumento da mettere al servizio dell’umanità. Ci siamo così ritrovati nel bel mezzo di battaglie mediatiche tra le varie case farmaceutiche per arraffare fette di mercato le più ampie possibili. La cosa più assurda è che quasi metà della popolazione mondiale non è vaccinata e di questa metà la stragrande maggioranza vive in paesi in via di sviluppo, dove fattori economici e strutturali (ad esempio la catena del freddo per distribuire alcuni tipi di vaccini) non permettono la diffusione del vaccino. Il sistema capitalista essendo animato da settori economici in competizione tra loro non riesce ad avere una visione globale e prospettica ma riesce solo a pensare all’immediato, è evidente che la copertura vaccinale globale sia uno step necessario per interrompere la creazione di varianti e uscire dalla pandemia da covid-19, ma evidentemente questo vorrebbe dire per le case farmaceutiche (che hanno spesso sviluppato il vaccino con l’aiuto di fondi pubblici) rinunciare a una grossa fetta di profitti.
Insomma, Don’t Look Up è una frizzante commedia catastrofica che, anche se vuole mostrare le storture di questo sistema ponendo luce sulla questione ambientale, riesce a mostrare in maniera caricaturale ma assolutamente vicina alla realtà alcune delle dinamiche intrinseche di questo modo di produzione e della società che ne consegue. Anche se siamo certi che Di Caprio e la casa produttrice Netflix non siano dei ferventi anticapitalisti, volendo fare luce sulla gestione della crisi ambientale in maniera seria essi hanno finito per mostrare molti elementi veritieri di questo sistema: per fortuna, evidentemente, i fatti hanno ancora la testa dura e c’è un limite anche alla società liquida.
Riccardo Beschi