Come parte del più ampio dispiegamento dei piani imperialisti statunitensi per ridisegnare il “Nuovo Medio Oriente” e dei processi incentrati sull’espansione delle alleanze di Israele, lo scorso 15 settembre sono stati firmati alla Casa Bianca di Washington i cosiddetti “Accordi di Abramo” sulla normalizzazione delle relazioni di Emirati Arabi Uniti (EAU) e Bahrain con Israele. Un accordo che segue quelli precedentemente già siglati, come quello con l’Egitto – Accordo di Camp David (1979) – e con la Giordania – Wadi Araba (1994) – sulla scia dell’Accordo di Oslo (1993). Tutti accordi che hanno un comune denominatore derivante dalle relazioni economiche e interessi di classe che si intrecciano, in modo contradditorio, tra le borghesie arabe e quella israeliana e le potenze imperialiste più forti, che in definitiva garantiscono il controllo israeliano sulla Palestina storica, dal fiume Giordano al mar Mediterraneo, creando una realtà de facto e rapporti di forza a discapito delle giuste aspirazioni del popolo palestinese.
Gli USA, Israele, i paesi più forti dell’UE, la Lega Araba e il Consiglio di Cooperazione del Golfo provano così a liquidare la causa palestinese sulla base della “situazione di fatto” creata attraverso la “normalizzazione” sulla base dei propri interessi, con sullo sfondo il piano di annessione unilaterale dei territori occupati da parte di Israele1 – temporaneamente sospeso2 per esser usato come pedina di scambio – e la legittimazione internazionale dell’occupazione di Gerusalemme. Nel mentre lo stato sionista d’Israele continua imperterrita negli attacchi militari su Gaza, negli omicidi e aggressioni, nelle demolizioni (506 edifici di palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza dall’inizio dell’anno, oltre 166mila dalla creazione di Israele) e nella sua politica di espansione degli insediamenti coloniali nei territori occupati in Cisgiordania: il Consiglio supremo israeliano per la pianificazione e la costruzione ha approvato la costruzione di 2.500 unità abitative coloniali nella Cisgiordania occupata, oltre ad approvare i piani per la costruzione di altre 2 mila unità abitative. Complessivamente, negli ultimi decenni il 51,6% della Cisgiordania (compresa la città di Gerusalemme) è occupato dalle colonie israeliane e delle basi militari.3
Gli EAU e il Bahrein – nell’ambito della contesa regionale con l’Iran – sono stati i primi ad aprire la danza degli accordi con Israele e dello sviluppo di relazioni con esso a tutti i livelli, con il sostegno dell’Egitto di Al-Sisi (sempre più vicino agli EAU come dimostra anche la Libia) e dell’Arabia Saudita. È probabile che seguiranno anche altri paesi della Lega Araba o del Consiglio di Cooperazione del Golfo, come “previsto” dall’ambasciatore americano all’ONU, Kelly Kraft lo scorso 23 settembre.4 Alcune voci riportano che uno di questi potrebbe essere il Sudan, che dopo anni di dittatura e conflitti civili ha vissuto negli scorsi mesi una rivolta popolare che ha portato alla destituzione del dittatore Omar al-Bashir ma con l’intervento dei militari che hanno mantenuto così la continuità del potere nelle mani di un regime borghese-militare con i suoi relativi riallineamenti nel campo internazionale. Altri paesi potrebbero essere la Mauritania e l’Oman.
Questi sviluppi hanno provocato la reazione dell’Autorità Nazionale Palestinese, che il 22 settembre ha lasciato la presidenza del Consiglio della Lega Araba, in segno di protesta per la decisione di quest’ultima di non condannare questi accordi.
Una serie di incontri a Beirut (Libano), Doha (Qatar), Il Cairo (Egitto) e in altre capitali, tra il presidente dell’ANP, Abu Mazen e il suo partito Fatah (socialdemocratico) al governo in Cisgiordania, quello islamista di Hamas al governo nella Striscia di Gaza e l’OLP sono avvenuti dopo il primo annuncio di un accordo di normalizzazione tra EAU e Israele, nel tentativo di superare il conflitto intra-palestinese e avviare processi di riconciliazione nazionale. Gli sviluppi più significativi sono avvenuti dopo le intense consultazioni avvenute – non a caso – presso il consolato palestinese a Istanbul, con la mediazione del governo turco di Erdogan. Il risultato è stato annunciato giovedì 24 settembre, con la decisione congiunta dei leader di Hamas e Fatah di indire dopo 14 anni le elezioni parlamentari e presidenziali nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, con il sistema proporzionale.5 A queste seguiranno le elezioni per il nuovo “Consiglio nazionale” dell’OLP. Va tuttavia sottolineato che già in passato sono stati annunciati accordi per lo svolgimento di elezioni senza che poi si realizzassero (soprattutto negli ultimi due anni).
Negli stessi giorni si teneva ad Amman un incontro tra i ministri degli Esteri di Giordania, Egitto, Francia e Germania (con la partecipazione anche del rappresentante speciale dell’Unione Europea per il processo di pace) che hanno mostrato una sostanziale convergenza di interessi tra questi paesi che hanno un peso specifico nelle alleanze predatrici come l’UE e la Lega araba. Tutti e quattro i ministri hanno accolto con favore gli accordi EAU-Bahrein con Israele come prova che “la pace nella regione è possibile” (come affermato dal ministro tedesco in videoconferenza per quarantena). Il ministro degli esteri francese ha dichiarato che i quattro paesi vogliono un “impegno permanente” da parte di Israele di non tentare di annettere unilateralmente i territori palestinesi occupati in Cisgiordania. Il corrispettivo giordano ha dichiarato che “non c’è altra soluzione che non sia basata sui due stati”.6
In nome di una finta pace e stabilità, regolate sugli interessi imperialisti e borghesi, i palestinesi vengono spinti a negoziare una “soluzione” sulla base della nuova situazione de facto creata dagli accordi sulla normalizzazione dei rapporti tra i paesi arabi e Israele. Un altro elemento di pressione è la diminuzione dei finanziamenti arabi all’ANP. Assieme al taglio del 50% degli aiuti esteri, questo comporta un calo totale delle entrate per Ramallah di circa il 70% nei primi sette mesi del 2020; l’ANP ha ricevuto circa 500 milioni di dollari in meno rispetto ai finanziamenti dall’estero nello stesso periodo del 2019. Fondi arabi che sono vitali per l’autorità palestinese, rivelandosi uno strumento di ricatto formidabile per provare a costringere l’ANP ad accettare il piano USA per il “Nuovo Medio Oriente” che di fatto ha definitivamente rimosso l’Iniziativa Araba di Pace (proposta nel 2002 al Vertice di Beirut della Lega Araba) che prevedeva nessun riconoscimento unilaterale di Israele senza un progresso verso uno stato palestinese indipendente. Il Qatar invece ha mantenuto il suo livello di finanziamento versando ogni mese 30 milioni di dollari a Gaza, dopo aver concesso ingenti prestiti a lungo termine all’ANP.7
Questa situazione potrebbe spingere Abu Mazen a spostarsi più verso l’asse Turchia-Qatar (che ugualmente non lesinano di relazioni economiche e accordi segreti con Israele) che si contrappone a quello composto da Arabia Saudita, EAU, Egitto e Bahrain – assi contrapposti che si confermano anche nel conflitto libico. Interessante a questo proposito segnalare come Erdogan in visita giovedì alla base militare turca in Qatar, abbia lanciato un velato messaggio minaccioso al resto dei paesi del Golfo: “La presenza militare della Turchia nel Golfo non disturba a nessuno, tranne coloro che desiderano creare caos nella regione”.8 Allo stesso tempo, il Qatar (che dal 2017 è in rottura con gli altri paesi del golfo – Arabia Saudita, EAU e Bahrein – e in stretti rapporti con la Turchia e Hamas e Jihad islamica a Gaza) ha chiesto agli USA di poter accedere all’acquisto degli F-359, finora assicurati solo agli EAU e Israele che naturalmente vuole il monopolio della supremazia militare in Medio Oriente. Tel Aviv potrebbe quindi far pressioni per impedirlo, così come anche l’altro grande alleato USA, l’Arabia Saudita. Il Qatar assume un ruolo importante per i piani degli USA,10 come testimonia la visita di Pompeo dello scorso 14 e 15 settembre nella quale ha affermato l’obiettivo di avanzare verso lo status del Qatar come “major non-NATO ally” (MNNA)11 per allontanarlo dall’Iran con cui Doha ha notevolmente incrementato le sue relazioni negli ultimi anni dopo la rottura con Arabia Saudita, Bahrain, EAU ed Egitto. Nella dichiarazione congiunta dell’incontro annuale USA-Qatar è presente – tra le altre cose – il riferimento alle “prospettive per una risoluzione negoziata del conflitto israelo-palestinese come delineato nella Visione per la pace degli Stati Uniti“12. Il Qatar inoltre, oltre ad esser il principale mediatore tra Hamas e Israele nella Striscia di Gaza, sta svolgendo un ruolo rilevante nei cosiddetti negoziati di pace tra USA e Talebani ospitati proprio a Doha, uscendo così dall’isolamento e provando a riguadagnare influenza nella competizione regionale con relazioni sia con la Turchia, gli USA, l’Iran e Hamas.
Caratteristica è anche la posizione della Russia – che ha diversi accordi con Israele13 – che ha accolto positivamente la firma degli Accordi di Abramo considerati come un “progresso” sottolineando però che il “problema palestinese rimane acuto” e “sarebbe un errore ritenere che sia possibile stabilizzare in modo duraturo il Medio Oriente senza trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese”. Per rafforzare i suoi interessi, piani e influenza nella regione, Mosca si offre per un “lavoro congiunto” nel quadro del Quartetto diplomatico dei negoziatori di pace in Medio Oriente14 e in coordinamento con la Lega Araba, finalizzato a riaprire i negoziati tra israeliani e palestinesi15; già in passato Putin si era proposto per ospitare un vertice israelo-palestinese e lo scorso aprile Abu Mazen ha proposto una “Conferenza internazionale di Pace per il Medio Oriente” a Mosca.16 17
La “soluzione” alla questione palestinese dovrebbe esser così regolata sugli interessi delle potenze imperialiste, globali e regionali, nel quadro delle dispute e competizioni interimperialiste per la riconfigurazione della più ampia regione che va dal Medio Oriente al Caucaso, dal Mediterraneo orientale all’Africa settentrionale in cui si scontrano diversi piani di ripartizione delle fonti energetiche, le vie di trasporto e gasdotti a beneficio dei profitti dei monopoli capitalistici.
Questa evoluzione espone le responsabilità dell’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Abbas, la cosiddetta leadership palestinese, i partiti e le organizzazioni borghesi palestinesi che continuano a muoversi nel quadro dell’Accordo di Oslo, nella politica di collaborazione e coordinamento della sicurezza con Israele, indebolendo la giusta causa palestinese, fino alla negazione dell’utilizzo di tutte le forme di lotta necessarie alla Resistenza per conquistare la liberazione e il ritorno. La recente formazione da parte di Hamas e Fatah (che erano in conflitto tra di loro dal 2007) della cosiddetta “leadership nazionale unificata sul campo” per guidare “una resistenza popolare totale” con l’ambizione di unire tutte le fazioni palestinesi contro i piani derivanti dalla “normalizzazione”, rappresenta sicuramente un fatto rilevante ma che non risolve la questione fondamentale della necessità di un reale e profondo cambiamento di orizzonte politico strategico, come sostengono – nelle loro specifiche differenze – le varie organizzazioni della sinistra palestinese (Partito Comunista Palestinese, Partito Popolare Palestinese, Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Fronte Democratico di Liberazione della Palestina).
La giusta soluzione per gli interessi del popolo palestinese (così come degli altri popoli della regione) potrà esistere solo come risultato della sua lotta complessiva contro i piani imperialisti e delle borghesie in Medio Oriente.
I tentativi di liquidare la causa palestinese in questo determinato contesto storico di ristrutturazioni nella piramide imperialista, anche se assestano duri colpi, non saranno in grado di piegare definitivamente la Resistenza che deve però trovare nuova linfa con il protagonismo della lotta delle masse operaie e popolari, dalla Cisgiordania e Gerusalemme occupata a Gaza, dai campi profughi alla più ampia diaspora palestinese, liberandosi dalla “camicia di forza” imposta dalla propria borghesia, dall’ANP e dal già ampiamente superato Accordo di Oslo, rigenerando l’OLP su nuove basi realmente democratiche e rompendo in definitiva con i vicoli ciechi del capitalismo. Così da tracciare la propria strada per sconfiggere l’occupante sionista e conquistare il diritto all’autodeterminazione, al ritorno, alla giustizia sociale con la costruzione di uno stato palestinese indipendente, laico e democratico.
A noi il compito di intensificare la solidarietà internazionalista con la giusta causa del popolo palestinese e con le forze progressiste e comuniste palestinesi e combattere contro la complice partecipazione della borghesia italiana ai piani imperialisti come testimonia la recente firma di un nuovo accordo che rafforza la già solida cooperazione industriale-militare con Israele18.
Un accordo che prevede l’acquisto da parte di Tel Aviv di dodici elicotteri ad ala rotante AW119Kx “Koala” e due simulatori per l’addestramento dei piloti dalla holding Leonardo-Finmeccanica, in cambio dell’acquisto di una partita di lanciatori e missili aria-superficie controcarro “Spike” dal Colosso industriale israeliano Rafael Advanced Defense Systems per armare gli elicotteri da guerra dell’esercito italiano. Commentando con soddisfazione l’agreement sottoscritto con Roma, il ministro della difesa israeliano Gantz ha sottolineato come esso rifletta “la grande importanza delle industrie della Difesa sia per la sicurezza di Israele che per la sua economia” e il generale Eshel ha sottolineato come “l’accordo è un’altra espressione delle strette relazioni economiche militari tra Israele e Italia”. La “normalità” dei ricchi affari per i capitalisti sul sangue del popolo palestinese.