Il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) è un ambito lavorativo in netta crescita rispetto ai decenni recenti. Nel 2024 in Italia il settore impiegava complessivamente 631.500 lavoratori, in aumento del 3,4% rispetto al 2023, mentre nello stesso anno il numero di aziende del settore ICT italiano contava 132.400 imprese, con una crescita del 2,1% rispetto all’anno precedente.
Generalmente, si considerano parte dell’ICT le aziende che si occupano di tecnologia dell’informazione (IT), la quale si concentra principalmente sulla gestione, elaborazione e archiviazione delle informazioni tramite sistemi informatici, e quelle che operano nel campo delle tecnologie e dei servizi di comunicazione. Secondo questa suddivisione, sono le aziende del settore informatico a trainare il settore dell’ICT, mentre quelle delle telecomunicazioni registrano in questi anni un calo.
Nonostante alcune statistiche attestino retribuzioni medie per i lavoratori di queste settore superiori alla media nazionale, oggi i lavoratori del settore informatico non possono certo essere considerati dei privilegiati nella maggioranza dei casi: come in altri settori, anche nell’ICT è molto diffuso il ricorso a contratti a termine, consulenze[1], lavori freelance o tramite agenzie interinali, che spesso non garantiscono stabilità né tutele contrattuali adeguate. I lavoratori dell’ICT non formano inoltre un gruppo omogeneo: esiste una forte polarizzazione tra lavoratori ben pagati in grandi multinazionali e quelli con contratti precari o stipendi modesti, come nel caso di chi lavora in assistenza tecnica o outsourcing[2].
Tra le pratiche di sfruttamento che caratterizzano il settore dell’ICT è particolarmente diffuso il cosiddetto “body rental”, un fenomeno che viene in alcuni casi definito come il caporalato degli informatici. Secondo le leggi attualmente in vigore in Italia, la somministrazione di lavoro è una forma di lavoro in cui un’agenzia autorizzata (le cosiddette agenzie per il lavoro) assume un lavoratore e lo manda a lavorare presso un’azienda utilizzatrice, che lo dirige ma non lo assume direttamente. Questa pratica era originariamente illegale perché si riteneva che “affittare” manodopera violasse la tutela del lavoratore, riducendolo a merce e aggirando l’assunzione diretta; essa è stata però legalizzata nel 1997 con il pacchetto Treu, che introdusse il lavoro interinale, e infine nel 2003 con la legge Biagi, che introdusse il lavoro somministrato tuttora in vigore.
Come già detto, solo una serie di aziende riconosciute come agenzie per il lavoro possono “affittare” lavoratori ad altre imprese. In tutti gli altri casi in cui un soggetto si trovi a fornire dei propri dipendenti a un’altra impresa dietro compenso si è in presenza della cosiddetta interposizione illecita di lavoro. Questo fenomeno, chiamato per l’appunto body rental nel settore ICT, non è un’esclusiva di questo settore, ma la natura delle mansioni e dei progetti che lo contraddistinguono ne ha incentivato l’uso: un caso tipico è quello di un’azienda che necessita di un informatico e si rivolge (praticando quindi un appalto illecito) a un’azienda di consulenza, la quale manda in cambio di un compenso uno dei suoi informatici in prestito per una durata pattuita e per svolgere un compito specifico; l’azienda cliente paga a quella di consulenza una cifra giornaliera e il lavoratore riceve un fisso mensile. Generalmente le aziende clienti pagano 400-500 € al giorno a quelle di consulenza, e al lavoratore restano in tasca poco più di 1000 € al mese. Nonostante il costo giornaliero sia una cifra importante, all’azienda cliente conviene pagare una somma simile per un periodo limitato di tempo, piuttosto che assumere l’informatico, pagarne i contributi e doverlo eventualmente licenziare.
Spesso questa forma di sfruttamento illegale viene effettuata alla luce del sole, in quanto con il body rental si spaccia il lavoro tipicamente da dipendente per lavoro di consulenza[3], e le aziende, il più delle volte banche o altre grandi imprese, non hanno più bisogno di assumere, perché esiste un mercato di persone da cui attingere. Le aziende aggirano l’impossibilità legale di somministrare lavoratori descrivendo nei contratti solo il genere di figura professionale che verrà messa a disposizione, fingendo che il body rental sia in realtà uno “skill rental”, un prestito di una particolare capacità.
Le imprese che utilizzano questo sistema si limitano a fornire i lavoratori e ad assumersi il rischio economico nel caso il progetto del cliente dovesse essere sospeso, senza formare in alcun modo gli informatici. Oltre alla precarietà del lavoro, quindi, questo fenomeno scarica la mancanza di formazione e crescita professionale sul lavoratore, che sarà costretto ad aggiornarsi e migliorarsi autonomamente e a proprie spese; in caso contrario il lavoratore rischierà di rimanere sottopagato e sfruttato per tutta la propria carriera lavorativa.
Per fornire una comprensione di alcune tra le più comuni forme di sfruttamento nel settore della tecnologia dell’informazione, il nostro giornale ha dato la parola a Giacomo (nome di fantasia), un lavoratore dell’informatica, che ha risposto ad alcune domande. La vicenda di Giacomo si intreccia con diverse grandi imprese italiane, di cui omettiamo di fare menzione per tutelare i lavoratori coinvolti in questa vicenda.
Ciao Giacomo, grazie per aver accettato di raccontare a L’Ordine Nuovo la tua esperienza. Puoi iniziare dicendoci come ha avuto inizio la tua vicenda?
La mia esperienza lavorativa è iniziata nel 2007, quando ero alla ricerca di un impiego come tecnico informatico. Risposi a un annuncio in cui mi ero imbattuto e fui convocato per un colloquio dal responsabile dell’assistenza di una piccola azienda di informatica, la quale forniva servizi in appalto a una più grande società partecipata statale. Il colloquio ebbe esito positivo e mi fu comunicata la disponibilità ad assumermi.
Tuttavia, già al momento dell’assunzione, mi vennero proposte condizioni lavorative e contrattuali diverse da quelle inizialmente presentate: il contratto sarebbe stato soltanto a progetto, contrariamente a quanto credevo; inoltre, ad assumermi non sarebbe stata l’azienda presso cui avrei lavorato, né la società appaltante, ma una delle più note agenzie per il lavoro, attraverso una propria azienda specializzata nel settore informatico.
Una volta assunto, mi resi subito conto che, nonostante mi fosse stato proposto un incarico su un progetto — che, per definizione, dovrebbe essere temporaneo, con un inizio e una fine legati al raggiungimento di un obiettivo preciso — ero stato invece assegnato a un presidio che svolgeva mansioni di servizio, con attività continuative e ripetitive.
Infine, anche gli orari lavorativi non erano corrispondenti a ciò che mi era stato descritto: il ruolo prevedeva turnazioni, e quindi dovetti lavorare in fasce orarie variabili nel tempo.
A che tipo di mansioni sei stato assegnato? Erano coerenti con quanto ti era stato proposto e commisurate al tuo stipendio?
Secondo quanto stabilito, avrei dovuto lavorare in un help desk, ossia un servizio che aveva il compito di fornire assistenza tecnica e informazioni. Tuttavia, all’interno della commessa con la società partecipata dallo Stato erano previste diverse mansioni a cui fui assegnato: tra queste, la riparazione di apparecchiature informatiche, l’inventario dei beni in magazzino, lo spostamento del materiale, i test del software, il monitoraggio dei sistemi informatici, la gestione dei ticket, delle sale riunioni e persino attività di call center. Si trattava di compiti che andavano oltre quanto previsto dal mio contratto e che, spesso, rientravano nella diretta competenza della società appaltante, non dell’azienda appaltatrice presso cui avrei dovuto lavorare.
Queste mansioni, che in realtà non mi spettavano ma che mi venivano comunque affidate, unite al fatto che io e i miei colleghi — anche per buona volontà o per mancanza di consapevolezza — restavamo spesso oltre l’orario e ci rendevamo disponibili, avrebbero richiesto un livello salariale certamente più alto di quello che ci veniva riconosciuto. La situazione non migliorò; anzi, peggiorò con i successivi sviluppi societari.
A quali sviluppi fai riferimento?
Mi riferisco al fatto che dopo 6 mesi arrivò a scadenza il contratto che avevo firmato con l’agenzia per il lavoro. Concluso questo rapporto, fui assunto direttamente dalla stessa azienda di informatica per cui già operavo, con un contratto a tempo determinato, continuando a svolgere le stesse mansioni che avevo in precedenza per la società partecipata dallo Stato. Alla scadenza di questo contratto, mi fu proposto — come anche a tutti gli altri colleghi del mio gruppo — un contratto a tempo indeterminato, ma con un’ulteriore riduzione dello stipendio, e l’inquadramento al terzo livello del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) metalmeccanici.
Negli anni successivi si verificarono pratiche societarie poco trasparenti: l’azienda fallì e fu messa in liquidazione; ci fu però proposto di essere assunti da una nuova società, guidata dagli stessi dirigenti della precedente, con la rassicurazione che ciò non avrebbe influito sul nostro lavoro e che l’appalto di cui beneficiava la nostra azienda sarebbe stato immediatamente trasferito alla nuova. Così avvenne, ma questa operazione di fallimento e trasferimento in blocco a una nuova società sostitutiva si ripeté ben tre volte, sempre con modalità identiche.
Infine, nel 2017 io e i miei colleghi fummo assunti da una delle maggiori aziende italiane nel settore della tecnologia dell’informazione. Infatti, alla scadenza dell’appalto che la società per cui lavoravamo aveva con la società partecipata dallo Stato, fu indetto un nuovo appalto, vinto da questa grande azienda informatica, che prevedeva una clausola sociale e l’obbligo di assumere i dipendenti della società uscente.
In tutti questi passaggi societari non ci fu mai riconosciuto alcun adeguamento salariale, nonostante da anni ne facessimo richiesta e continuassimo a garantire prestazioni lavorative che andavano ben oltre quanto previsto dal nostro contratto.
Altri aspetti fecero capire a te e ai tuoi colleghi che il vostro era un caso di sfruttamento selvaggio?
Sì, ci furono sviluppi che ci fecero capire di trovarci in un vero e proprio caso di body rental, ossia interposizione illecita di manodopera. In particolare, il nostro responsabile dell’assistenza — con cui mi ero interfacciato fin dalla mia assunzione — fu assunto dall’azienda appaltante, cioè la società partecipata dallo Stato di cui la nostra azienda era fornitrice. Così, da un giorno all’altro, colui che era il nostro responsabile divenne il nostro cliente.
Da quel momento iniziammo a rispondere direttamente ed esclusivamente a questa persona, concordando con lui la gestione degli orari di lavoro e comunicandogli eventuali assenze per ottenerne l’autorizzazione, invece di rivolgerci alla nostra azienda. Di fatto, con quest’ultima non avevamo più alcun rapporto: lavoravamo presso la sede della società appaltante, utilizzavamo le sue apparecchiature e strumentazioni (computer, monitor, telefoni fissi e cellulari) ed effettuavamo formazione per suo conto.
In poche parole, operavamo come se fossimo a tutti gli effetti dipendenti della società appaltante e non dei nostri formali datori di lavoro, percependo però uno stipendio inferiore, poiché la nostra azienda applicava il CCNL metalmeccanici, mentre la società appaltante adottava quello elettrici, che prevede una retribuzione più alta.
In questo periodo tu e i tuoi colleghi avete subito particolari episodi di vessazione?
Sì, diversi. Gli atti di bullismo e di scherno erano ormai ricorrenti. Ad esempio, un nostro collega era stato additato come omosessuale ed era per questo oggetto di insulti e battute omofobe. Allo stesso modo, anch’io ero diventato bersaglio di commenti simili, dopo che quel collega aveva lasciato l’azienda, a causa dell’“accusa” di avergli dato troppa confidenza. Un clima del genere era davvero difficile da sopportare.
Per far comprendere meglio la nostra condizione di sfruttamento, posso però raccontare un episodio specifico che vissi insieme ai miei colleghi. In un certo momento del mio percorso lavorativo, il gruppo di cui facevo parte era arrivato a contare 14 dipendenti. La società appaltante, presso la cui sede lavoravamo, ci aveva assegnato una stanza capiente, con spazi e arredi adeguati al numero di persone che vi avrebbero dovuto lavorare. Tuttavia, questa stanza aveva un problema: era interamente esposta al sole attraverso un grande finestrone, privo di tende o di altri sistemi per proteggerci dalla luce diretta. Nelle ore più calde, quella finestra faceva salire la temperatura in quel lato della stanza anche di oltre 20° rispetto alla zona in cui si trovavano i condizionatori. Eravamo quindi costretti a sospendere spesso il lavoro e uscire per cercare un po’ di refrigerio.
Un giorno, uno dei nostri colleghi, parlando in confidenza con un dipendente di una società terza che condivideva gli spazi con la società a cui eravamo fornitori, si lamentò delle difficili condizioni in cui eravamo costretti a lavorare. In qualche modo, i responsabili dell’azienda appaltante ne vennero a conoscenza e decisero di attuare una vera e propria ritorsione: ci spostarono in una stanza adiacente, di soli 4 metri per 3, che avremmo dovuto occupare in 14 persone. Lo spazio si ridusse ulteriormente quando vi furono collocati armadi, scrivanie, sedie, stampanti e computer.
Ci trovammo così a lavorare in un ambiente angusto e sovraffollato. Le condizioni divennero insostenibili, e spesso eravamo costretti ad alternarci al lavoro: se fossimo stati tutti contemporaneamente alle postazioni, non avremmo avuto lo spazio neppure per muoverci. Quando non era possibile allontanarsi, io o altri colleghi eravamo costretti a spostarci con l’attrezzatura nel magazzino dell’azienda per lavorare da lì.
Le settimane seguenti furono caratterizzate da un clima particolarmente acceso e dalle numerose discussioni. Dopo circa sei mesi, alcuni responsabili dell’azienda si resero conto della nostra situazione e, temendo conseguenze negative, ci trasferirono nuovamente nella stanza precedente, dopo aver applicato materiale opacizzante alla finestra e montato tende sui vetri. Questo fu solo uno dei soprusi che ci trovammo a subire.
Come si è conclusa la vostra vicenda?
Ormai pienamente consapevoli del regime di sfruttamento a cui eravamo sottoposti, io e altri sei colleghi, nel 2017, decidemmo di intraprendere azioni legali contro la società partecipata statale appaltante. Chiedevamo che fosse riconosciuto il nostro status di lavoratori somministrati illegalmente, con l’obbligo per questa azienda di assumerci e, di conseguenza, di riconoscerci l’aumento salariale previsto dal diverso CCNL di riferimento.
Dopo tre anni di traversie legali, nel 2020 la sentenza del tribunale di Roma ci diede solo parzialmente ragione. Il giudice riconobbe nel nostro caso un’interposizione vietata di mere prestazioni di manodopera e un illecito appalto. Tuttavia, dispose l’obbligo di assunzione solo per me e per un altro collega, che avevamo un’anzianità in azienda maggiore. Infatti, circa un anno dopo la nostra assunzione, il governo Berlusconi IV aveva promulgato la legge 6 agosto 2008, n. 133, che estendeva alle società partecipate le regole di selezione previste per la pubblica amministrazione. Per una triste beffa, gli altri cinque colleghi erano stati assunti dopo l’entrata in vigore di questa legge e, secondo il giudice, non potevano essere integrati in una società partecipata senza un processo di selezione conforme alle norme attuali.
La sentenza negò inoltre la nostra richiesta di pagamento delle differenze retributive tra il CCNL a cui avremmo dovuto fare riferimento e quello che ci era stato effettivamente applicato.
Qual è il bilancio che trai delle vicende che hai raccontato? Come ti senti al termine di questa esperienza?
Mi sono sentito come se valessi poco o nulla. Mi sono sentito sfruttato e testimone di comportamenti biechi da parte di persone a cui importava poco o niente degli sforzi che avevo fatto in quegli anni. Per queste persone noi lavoratori non contiamo nulla: ciò che interessa loro è solo il proprio ego, con tutte le conseguenze che questo comporta per quanto riguarda portafogli e credibilità. Se fossi stato meno ingenuo e avessi saputo come sarebbero andate le cose, non avrei proseguito e avrei cercato un altro lavoro, magari sperando di trovare persone più umane e meno fantocci.
Il danno maggiore che ho subito in questo periodo è stato quello alla mia formazione, a causa del totale disinteresse delle società in cui ho lavorato per questo aspetto. Ciò che sono stato e ciò che sono oggi lo devo unicamente alle attività di autoformazione. Resta il fatto che, ancora oggi, le azioni e le decisioni di queste aziende mi hanno provocato uno stato depressivo: il non poter progredire nella mia professione mi deprime ogni giorno di più, insieme all’odio che mi è stato riversato addosso. Ma questa, forse, è un’altra storia…
La vicenda di Giacomo e dei suoi colleghi riassume alcune tra le principali forme di sfruttamento che affliggono i lavoratori dell’informatica. Anche le azioni legali hanno avuto risultati solo parziali: Giacomo è stato assunto con uno stipendio più basso di quello previsto dagli accordi collettivi, mentre diversi suoi colleghi non hanno ottenuto nemmeno l’assunzione.
Questa vicenda dimostra quindi non solo la necessità, per i lavoratori, di acquisire maggiore consapevolezza circa le modalità di sfruttamento a cui i padroni fanno ricorso per poter difendere con ogni mezzo i propri interessi, ma anche e soprattutto quella di stabilire una coscienza di classe collettiva, che porti tutti i lavoratori di un’azienda o di un settore a mobilitarsi come forza organizzata anche quando non si è colpiti individualmente.
Solo unendo le forze e rivendicando nuove conquiste a scapito dei padroni e del loro potere i lavoratori potranno reagire all’attacco ormai senza quartiere degli sfruttatori, passando dal difendere quei limitati diritti residui dalle lotte passate ad avviare un nuovo ciclo di vittorie per la classe operaia e per gli strati popolari tutti.
Note
[1] Nel settore informatico, si parla di consulenza quando un’azienda o un professionista offre competenze tecniche e soluzioni IT a un cliente, spesso su progetti specifici o per supporto continuativo.
[2] L’outsourcing si ha quando un’azienda affida a un’altra impresa attività o servizi che prima svolgeva internamente, invece di farli con propri dipendenti.
[3] La differenza principale tra la consulenza informatica e l’interposizione di manodopera (il body rental) sta in chi gestisce il lavoro e come: nel caso della consulenza l’azienda fornitrice mantiene il controllo sul personale, decide come organizzare le attività e consegna un risultato al cliente, il quale indica cosa vuole, ma non gestisce direttamente i consulenti; si ha invece interposizione di manodopera quando il cliente dirige direttamente le persone (orari, modalità operative, ferie, autorizzazioni), come se fossero suoi dipendenti, anche se formalmente assunti da un’altra azienda.