S’infrange il “sogno americano” dei migranti venezuelani
A San Antonio del Tachira, frontiera tra Colombia e Venezuela, la fila sembra interminabile. Un soldato con camice e mascherina controlla le persone una per una: misura la febbre, prende le impronte e smista tutti nelle tende per le visite sanitarie. Una voce in sottofondo, spiega intanto tutti i passi che si stanno compiendo in base al protocollo di sicurezza preventiva per il coronavirus.
Sono migliaia i venezuelani che tornano in patria dai paesi di frontiera e anche dagli Stati Uniti. Il governo ha chiesto a Trump di sospendere le “sanzioni” alla compagnia aerea Conviasa per andare a riprendersi i propri cittadini anche negli USA. Ha potuto farlo arrivare solo fino in Messico, dove un aereo attrezzato per l’infezione da coronavirus è andato a riprendersi chi è voluto rientrare.
Venezuelani che se n’erano andati sia spinti dalla situazione critica che il paese ha vissuto a causa del blocco economico-finanziario imposto dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, sia a causa della propaganda di opposizione contro il governo socialista. Ben presto, però, hanno potuto darsi conto che l’Eldorado promesso dal capitalismo era assolutamente di cartapesta, e adesso ha assunto i colori dell’incubo.
Per mandare 10 euro alla famiglia in Venezuela, hanno lavorato al nero, hanno subito abusi e discriminazioni, si sono ammassati in una stanza da cui sono stati cacciati in malo modo adesso che il virus ha impedito loro di pagare l’affitto.
E ora tornano, dopo aver capito che, seppur quei 10 euro per un periodo sono stati l’equivalente di due salari minimi in Venezuela, nel loro paese è proprio difficile morire di fame: perché tutti i servizi sono praticamente gratuiti, a partire dalla casa, perché ci sono le borse di alimentazioni e i sussidi, e perché, se non puoi pagare il mutuo, nessuno, per legge, può mandarti fuori di casa.
Soprattutto, esiste un partito politico, il Partito socialista unito del Venezuela (PSUV, oltre 6 milioni di iscritti) il quale, in alleanza con altri aderenti al Gran Polo Patriottico, come il Partito Comunista o i Tupamaros, organizza in modo capillare e cosciente quella che nei paesi capitalisti si chiamerebbe “società civile”, e che invece nel socialismo bolivariano è immediatamente società politica.
Quel che da noi vediamo attivarsi in termini di solidarietà territoriale o di assistenzialismo religioso che serve a contenere il conflitto sociale, in Venezuela come a Cuba è organizzazione di classe: una leva per far crescere la coscienza delle masse, si sarebbe detto un tempo.
Per attirare quei venezuelani che l’alto prezzo del petrolio e la felice congiuntura politica ai tempi d’oro del chavismo aveva portato a percepirsi come classe media, si è messo in moto un intero apparato di propaganda internazionale. La stragrande maggioranza di quelli che se ne sono andati dal paese sono professionisti o laureati che hanno potuto studiare in modo totalmente gratuito grazie alla rivoluzione bolivariana.
Per andarsene via si sono probabilmente venduti la casa popolare, i portatili e l’ipad che il governo dà gratuitamente a partire dalle elementari insieme a tutti i libri, e la macchina acquistata a prezzi sussidiati. E magari hanno utilizzato i dollari ottenuti al mercato parallelo, una delle modalità della guerra economica con la quale si è cercato di mettere in ginocchio il Venezuela.
Lo specchietto per le allodole ventilato dagli USA e dai paesi vassalli dell’America Latina come la Colombia è stato il medesimo adottato contro Cuba con la politica di “pies secos, pies mojados” (wet feet, dry feet policy), una revisione della Ley de Ajuste Cubano, decisa nel 1995 per sottrarre alla rivoluzione cubana preziose energie. Adottata nel 1966, sette anni dopo la vittoria della rivoluzione a Cuba, quella legge stabiliva che chiunque abbandonasse l’isola illegalmente, dopo un anno avrebbe ottenuto la residenza permanente negli Stati Uniti.
Allora, i giornali erano pieni delle testimonianze di quelli che dicevano meraviglie del sistema imperialista, facendo notare come con i pochi dollari che inviavano a Cuba, potevano arricchire una intera famiglia. Arricchire, appunto, perché nel socialismo cubano nessuno moriva di fame, nessun bambino era obbligato a dormire per strada. C’era poco, ma quel poco era uguale per tutti.
Ovviamente, gli adoratori del capitalismo tacevano sul micidiale blocco economico imposto a Cuba, così come tacciono ora sull’altrettanto micidiale blocco economico-finanziario che, dopo la drastica caduta del prezzo del petrolio, sta impedendo al governo bolivariano di vendere il petrolio e le altre sue ricchezze per acquistare medicine, alimenti e tecnologia sul mercato internazionale.
La ley de ajuste era stata concepita nel contesto della “lotta al comunismo” che, con la martellante propaganda di mettere a confronto il tenore di vita della classe operaia nei due sistemi politici, mirava a distruggere la necessaria spinta al sacrificio collettivo dei lavoratori e delle lavoratrici per il socialismo.
Un grimaldello potente che, alla lunga, sortirà i suoi effetti nei paesi dell’Unione Sovietica, ma non con Cuba che, ancora oggi, sta dando lezioni di solidarietà al mondo nel corso di questa pandemia. “Non siamo venuti a dare quel che ci avanza, ma a condividere quello che abbiamo”, hanno detto i medici cubani all’arrivo in Itala.
La stessa logica vige nel “socialismo umanista” venezuelano, che è andato al governo nel solco della resistenza cubana (Chavez ha vinto le elezioni a dicembre del 1998), ma non ha preso il potere con le armi. Questo vuol dire che il blocco sociale anticapitalista e nazionalista, maggioritario nel paese, non ha messo fuori legge la borghesia e ha solo intaccato la forza economico-mediatica della oligarchia foraggiata dagli Stati Uniti.
Quel confronto che ai cubani arriva dall’esterno, i venezuelani ce l’hanno in casa propria. Tant’è che, come abbiamo potuto verificare molte volte, in piena guerra economica, mentre gli industriali facevano sparire le merci dagli scaffali come ai tempi di Allende in Cile, nei quartieri bene della capitale i ristoranti erano pieni, e così pure i negozi. E ogni volta che il governo aumentava i salari per decreto, i prezzi venivano aumentati di dieci volte, senza nessun rapporto neanche con i meccanismi dell’economia borghese. Il messaggio era chiaro: con il socialismo si soffre la fame, se ci fate tornare a governare ci pensiamo noi…
Una fatica improba in un mondo di squali, quella del governo Maduro, che ha preso le redini del paese dopo la morte di Chavez. Una fatica sempre più solitaria man mano che veniva picconata dall’imperialismo l’integrazione latinoamericana, basata su criteri distanti anni luce da quelli che hanno strangolato le classi popolari nell’Unione Europea.
Contemporaneamente, partiva la caccia ai giovani professionisti venezuelani, contrattati per pochi dollari per lavorare molte ore davanti a un computer nelle proprie case sulle piattaforme tecnologiche internazionali. Due piccioni con una fava, come si suol dire: sottrarre alla rivoluzione un “capitale sociale” prezioso e abbassare ulteriormente il costo del lavoro di certi servizi a livello internazionale.
Tra i settori che hanno fatto e continuano a fare la guerra al socialismo bolivariano, vi è la casta dei medici e quella dei professori, che considera assolutamente insopportabile l’abolizione del numero chiuso e dei privilegi nelle professioni. In questi giorni, in Venezuela, si festeggiano gli 11 anni dalla creazione della “Mision Barrio Adentro” con la quale, grazie alla collaborazione con Cuba, il Venezuela ha potuto portare per la prima volta un medico di famiglia nei settori popolari più reconditi e si sono creati gli ambulatori medici gratuiti, i CDI.
Alcuni dottori e dottoresse cubane si sono infettati curando gli ammalati da coronavirus. Lo ha detto Maduro nella notte durante il bollettino medico quotidiano, ricordando l’importanza della medicina territoriale e di prossimità, preventiva e gratuita che, a differenza di quanto sta avvenendo in Europa e negli USA, consente di fare i tamponi casa per casa e di individuare per tempo la pandemia.
Contro il Covid-19, il Venezuela ha adottato misure drastiche fin da subito, con l’apporto fondamentale dei medici cubani e della Cina. Per questo, nonostante anni di misure coercitive e unilaterali, imposte dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, si sta controllando il contagio e i morti al 17 aprile sono sempre 9.
Ma, intanto, in Italia, arrivano notizie manipolate e confuse, e decontestualizzate. Com’è possibile che il “dittatore” Maduro, sulla cui testa adesso pesa addirittura una taglia del gendarme nordamericano come “narcotrafficante” possa fare cose buone? Com’è possibile che il Venezuela dipinto come “un paese al collasso” riesca a proteggere adeguatamente la propria popolazione e addirittura ad accogliere a braccia aperte quelli che tornano da fuori?
Va da sé che, di fronte al collasso del sistema capitalista, evidentissimo in questi tempi di pandemia, di fronte al criminale ricatto degli industriali e alla complicità delle lobby scientifiche e mediatiche che li sostengono, l’esempio del Venezuela, forse ancor più di quello cubano, può essere un innesco benefico per la lotta di classe, e va adeguatamente disinnescato.
Ecco allora altri video e proclami inviati dalla banda di Guaidó e compari. In alcuni, medici che sembrano usciti da una rivista patinata, dichiarano di star lavorando all’estero per “l’immigrazione venezuelana”. Intanto, l’autoproclamato “presidente a interim” sostiene di aver “erogato 100 euro ai medici venezuelani attraverso l’Organizzazione degli Stati Americani”.
Intanto, circolano video di folle ammassate alla frontiera venezuelana in cui agitatori armati di telefonino urlano contro il governo Maduro che non gli starebbe prestando la necessaria assistenza. Peccato che si trovino dalla parte colombiana della frontiera.
Perché il presidente colombiano Duque, che ha ricevuto fiumi di denaro dagli USA per “far fronte alla crisi umanitaria dei migranti venezuelani” non li assiste nel ritorno a casa ora? E soprattutto: perché ci tengono così tanto a tornare in quella “tremenda dittatura”?
Intanto, circolano proclami di disertori che invitano gli Stati Uniti, che hanno inviato la IV Flotta sulle coste venezuelane e messicane col pretesto della “lotta al narcotraffico”, a invadere il paese. Un invito che i golpisti torneranno a chiedere “ufficialmente”, con la complicità di quanti, in Europa, continuano a reggergli il gioco.
Il livello della lotta di classe si evidenzia anche dalla forza con la quale gli apparati di controllo occultano o distorcono la feroce asimmetria di base insita nel rapporto capitale-lavoro e le conseguenze che provoca. Di fronte a una pandemia che si configura come una gigantesca operazione di smascheramento globale del capitalismo, questi apparati funzionano a pieno regime, confondendo i già tanto confusi cervelli del lettore medio occidentale.
Fra dietrologie e metafisiche che, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, hanno espunto il marxismo come criterio di analisi, la comunicazione egemonica riproduce la famosa notte in cui tutte le vacche sono nere.
I dominati si identificano con l’aggressore, i lupi si travestono da agnelli e tutti contribuiscono allo “spettacolo delle emozioni”, un gigantesco show in cui si piange a comando, anzi a… telecomando a seconda delle santificazioni del momento.
Una rappresentazione che abbisogna di un nemico all’ennesima potenza, che incarni le paure del secolo e le esorcizzi una volta consegnata la testa del cattivo al capestro del boia. Ad apparecchiare la scena pensano, ovviamente, le grandi corporazioni mediatiche, apripista nelle guerre asimmetriche di quarta e quinta generazione.
La notte in cui tutte le vacche sono nere o tutti i gatti sono bigi avvolge anche le reti sociali, nel tritacarne postmoderno in cui sembra scomparso il rapporto tra significante e significato, essendo andato a ramengo il vecchio universalismo che insegnava a tirare un filo.
Più ci convincevano che fosse scomparsa la coppia amico-nemico, più il nemico vero occupava però spazi e ti toglieva il respiro, dall’economico al simbolico, passando per il furto di linguaggio inerente i concetti forti per immaginare il futuro.
A conti fatti, il capitalismo non brilla per inventiva, la ricetta che propina è sempre la stessa, ma gli ingredienti e gli strumenti si affinano, metabolizzando il punto più alto in cui hanno sconfitto l’antagonista di ieri e producendo secondo lo spirito del tempo la “nouvelle cuisine”.
La novità, oggi, è che ti hanno tolto gli occhi per vedere anche quando sono obbligati a mostrarti la realtà delle cose. Ma fino a quando? A Bergamo, le bare continuano ad ammassarsi nei convogli militari. A capo della Confindustria è stato eletto un rappresentante di chi porta sulla coscienza quelle morti, e che ora sta imponendo la riapertura anche di quel 45% di fabbriche che erano rimaste chiuse.
A Cuba e nel mondo si ricorda l’invasione della baia dei Porci, messa in atto dalla Cia con un gruppo di mercenari anticastristi tra il 17 e il 19 aprile del 1961. Allora, gli USA vennero respinti e sconfitti, così come verranno sconfitti in Vietnam il 30 aprile del 1975. Se invadono il Venezuela potrebbe finire nello stesso modo. Ma si dovrà pagare un prezzo. Dobbiamo saperlo anche noi.
Postilla di redazione
Ringraziamo Geraldina Colotti per il contributo inviato. Geraldina è una profonda conoscitrice dei processi politici in America Latina, di cui è diretta testimone. La sua esperienza e il suo punto di vista arricchisce il dibattito sull’Ordine Nuovo, con testimonianza e contributi diretti aiutandoci a definire il sostegno in chiave antimperialista all’esperienza venezuelana. La questione delle esperienze latinoamericane e più in generale del “Socialismo del XXI Secolo” è oggetto oggi di dibattito tra le forze comuniste. Il concetto di socialismo è storicamente vasto e variegato, richiama diversi movimenti politici che hanno visioni, prospettive e strategie diverse, se ciò si intende in senso politico. Nell’ambito della definizione di socialismo come modello di sistema economico alternativo al capitalismo vi sono però delle condizioni obiettive, che attengono ai rapporti sociali. In questo senso è opinione della redazione che il Venezuela non sia oggi un Paese socialista, sebbene governato da uno schieramento fortemente progressista, in rottura con gli interessi imperialistici nordamericani, e che il socialismo del XXI secolo, con la permanenza dei rapporti sociali di produzione capitalistici e di molte delle sue strutture politiche e giuridiche non risolva in modo definitivo la questione del potere e la natura di classe dello Stato. Su questo aspetto di grande attualità, e precisata la complessità del giudizio sul ruolo delle forze socialiste, L’Ordine Nuovo accoglie il contributo di Geraldina, invitando tutti i nostri redattori – e le diverse organizzazioni politiche che collaborano alla redazione- al più profondo dibattito sulla questione. Siamo convinti infatti, che solo nel confronto-dibattito delle posizioni sia possibile far avanzare concretamente la prospettiva strategica dei comunisti in Italia. L’Ordine Nuovo deve essere, per restare fedele al suo compito, anche una tribuna di discussione. Coerente, mai distruttiva, finalizzata ad elevare il grado delle posizioni politiche che oggi esprimiamo.
La redazione de L’Ordine Nuovo