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Home›Rassegna operaia›Coronavirus: morte e precariato nel racconto di un lavoratore sanitario di una RSA lombarda

Coronavirus: morte e precariato nel racconto di un lavoratore sanitario di una RSA lombarda

Di Francesco "Kento" Carlo
24/04/2020
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Qualche giorno fa, ho pubblicato una riflessione critica sul ruolo del volontariato nell’assistenza alle fasce più deboli della popolazione in questi giorni di pandemia, che ha ricevuto numerosi riscontri. Tra questi c’è chi mi è sembrato subito meritevole di approfondimento. Si tratta della testimonianza di un professionista della sanità impiegato in una residenza per anziani di una delle provincie più colpite dal virus e che, nelle scorse settimane, ha visto morire parecchie decine di ospiti. Ha accettato di rispondere a qualche domanda, chiedendo di restare anonimo per tutelare il proprio posto di lavoro ed evitare ripercussioni. Ecco quello che mi ha raccontato.

Ovviamente senza compromettere la tua richiesta di anonimato, puoi dirci che lavoro fai e in che tipo di struttura?

Resto anonimo perchè il mio è un contratto precario,  non sono più giovanissimo, come si dice “tengo famiglia” e non posso rischiare di perdere il posto. Sono un operatore sociosanitario. Mi dedico alla cura di base del paziente. Nel mio caso specifico di ospiti di RSA [ndr: Residenza Sanitaria Assistenziale], casa di riposo che si appoggia al sistema sanitario regionale. In Lombardia. Faccio presente che in questa struttura come in moltissime altre noi OSS [ndr: Operatori Socio Sanitari] siamo inquadrati come ASA [ndr: Ausiliario Socio Assistenziale, qualifica inferiore a quella a cui in questo caso il lavoratore avrebbe diritto]. Ergo: spendiamo di più per il corso di formazione (2350 Euro) per essere stipendiati di meno.

Cosa hai visto succedere negli ultimi mesi?  

All’incirca quello che è avvenuto in tutto il Paese.

All’inizio la negazione della questione, probabilmente perché considerata come lontana da noi. Poi, quando sono iniziati i primi decessi sospetti, una certa titubanza. Quindi una perdita di tempo nella definizione di protocolli sanitari e nella distribuzione dei dispositivi di protezione personale agli addetti. Noi OSS siamo i più vicini al paziente, i più esposti al contagio. Abbiamo tuttavia ricevuto occhiali e mascherine adatte solo giorni dopo rispetto agli infermieri.

La piramide sociale è evidentemente una forma mentis anche nella comunità sanitaria. Poi è capitato un fatto puramente consequenziale: la grande maggioranza dei colleghi a contratto indeterminato si sono messi in malattia. Ovviamente la tutela della propria salute e quella dei propri familiari, magari anziani, conta di più di andare a lavoro. Visti i presupposti, non li posso biasimare.

In seguito come si è evoluta la situazione? Attualmente quali sono le condizioni? 

Il numero dei morti è iniziato ad aumentare, e sono arrivate le visite da parte di specifici apparati delle forze dell’ordine. Sono comparse lettere di ringraziamento da parte dei famigliari degli ospiti, giustamente interdetti alle visite già al termine di febbraio. Quando non è stato più possibile nascondersi, la direzione ha affisso un patetico foglio, nemmeno firmato, nel quale ci ricorda che “godiamo di riconoscimento” e di non lasciarci sopraffare dallo scoramento. Con settimane di ritardo, sono arrivati anche i moduli esplicativi per la gestione dei dispositivi di protezione individuale, ma bollati da un’altra regione.  Penso che questo sia esemplificativo dell’opera della regione Lombardia nell’emergenza.

Al montare del turno siamo tenuti a firmare una autocertificazione in cui attestiamo di non avere febbre. Per misuralra agli ospiti abbiamo, su tutto il piano dove lavoro, abbiamo un solo termometro digitale, una manciata di quelli vecchio tipo a colonnina, e nemmeno uno di quelli che rilevano la temperatura a distanza.

In pratica significa aumentare l’esposizione da parte nostra alla possibilità di contagio, aumentando il rischio che il virus circoli. Tutto ciò mentre il dibattito si incentra sulla prevenzione. Ho visto morire per covid-19 diverse persone ricoverate, per una somma di deceduti che arriva oramai a oltre un terzo della iniziale popolazione della struttura.

Qual è l’atteggiamento dei tuoi colleghi e dei professionisti in generale, e quello dei sindacati?

Il mio sentimento è comune alla stragrande maggioranza dei miei colleghi, credo che chiunque di loto sottoscriverebbe quello che ho racocntato, compresi quelli he si sono messi in malattia, alcuni dei quali si sono ammalati davvero. Per il futuro della struttura, per provvedimenti giudiziari, per la rimozione di alcuni dirigenti che hanno la responsabilità di tutto questo, leggo una certa disillusione tra il personale. Disillusione che aumenta più si scende verso la base della piramide. Qualcuno prova pure vergogna di lavorare qui.

Il sindacato fino a settimane fa proponeva di avanzare richieste “audaci” alla direzione, come concrete forme di riconoscimento per chi ha prestato servizio. Ora, la situazione è cambiata. Anche i sindacati confederali sostengono che la fondazione ONLUS, che presiede la struttura, è a rischio bancarotta. I deceduti non sono ovviamente stati rimpiazzati da nuovi entrati ed il buco economico mensile lordo è di un paio di centinaia di migliaia di euro. CGIL, CISL e UIL che si stanno muovendo unitariamente, sebrano mettersi a fare gli spettatore degli eventi. Il senso di abbandono è piuttosto rilevante.

Come è cambiata la tua vita e il rapporto con la famiglia e la socialità ristretta?

Non dormo più con mia moglie. Limito molto manifestazioni di affetto fisiche e il gioco con mia figlia. Non entro in casa dei miei genitori.Per il resto dal mio punto di vista, non sono mai stato un “tipo mondano” quindi non sento una grande differenza.

Di cosa ti senti che ci sarebbe bisogno?

Prevenzione. Sisiamo fatti cullare da decenni di “sogno americano” che sono riusciti a importante anche da noi. Quindi per noi tutto andava bene e tutto doveva andare meglio. Ci siamo fatti lusingare e ci siamo fatti portare via molto: in questo caso specifico pezzi di sanità.

Un sistema sanitario nazionale all’altezza di ciò che era stato quello italiano non avrebbe escluso i morti, ma li avrebbe fortemente limitati. In Lombardia, visti i numeri, chissà quanti sarebbero sopravvissuti.

Necessitiamo di consapevolezza e cultura, per costruire un sistema sanitario pubblico potenziato e accentrato. Ne parlano medici, direttori sanitari, non certo uno che cambia pannoloni e vuota pappagalli. Ma, come primo anello della catena nell’assistenza a chi necessita di cure, anche noi abbiamo delle proposte che riguardano la nostra categoria e credo sia il momento giusto di far conoscere pubblicamente.

Tutti quelli, e sono tantissimi che ci manifestano simpatia in questo frangente, potranno capire e accettare senza che risulti irriverente quello che dico. Noi non siamo eroi nè angeli: siamo lavoratori! Persone che certo raccolgono delle soddisfazioni che sono generalmente diverse da quelle di chi fa l’operaio – so di che parlo- ma che non siamo né volontari né missionari. Svolgiamo un lavoro fondamentale e siamo un punto di riferimento per numerose famiglie. Accettiamo il ringraziamento dai familiari che non possono fare altro per noi, ma rifiutiamo fermamente quello delle istituzioni. Da loro vogliamo il riconoscimento a livello contrattuale.

Scegliere questa professione non può divenire un handicap economico per una famiglia. Ancora oggi esistono divergenze salariali tra pubblico e privato: a pari mansione lo stipendio deve essere parificato. Così come i giorni di ferie. I turni di notte non devono essere oltre 2 consecutivi, seguiti da smonto e riposo. Già dovrebbe così essere ma nei fatti non lo è: quindi vigilanza sull’applicazione delle regole.  Chiediamo riconoscimento come lavoro usurante del turno notturno, come accade per gli inferimeti;  un maggior numero di operatori in relazione agli ospiti. Chiediamo la messa al corrente di tutti gli operatori riguardo eventuali patologie infettive di un soggetto: noi, al momento, non siamo tenuti a saperlo. Per non parlare del fronte contrattuale: abolizione dei rinnovi contrattuali che mantengono il lavoratore a tempo determinato e quindi sotto ricatto per anni. Quindi va redatto un nuovo contratto, approvate nuove leggi e vigilato su tali nuove disposizioni. La cosa migliore quale sarebbe? Che le strutture vengano tutte rese pubbliche: così come asili, scuole, ospedali, anche questi sono servizi integranti il modello di società in cui viviamo.

Dalla tua prospettiva professionale, come si prospetta il futuro a breve e medio termine?

Tra qualche mese scade il mio contratto. Se, nel frattempo, rientreranno i titolari e non verranno rimpiazzati coloro che sono deceduti, e fermo restando ccomunque che l’epidemia si sia placata, credo che il mio contratto non sarà rinnovato. Oltre il danno, la beffa. Proprio per la natura del contratto sono stato adoperato in prima linea nelle settimane di emergenza come molti altri miei colleghi. Dopo tutto questo, potremmo ritenere un buon pareggio riuscire a strappare la promessa di venire richiamati appena le cose si sistemeranno?

 

 

 

 

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