Settantasette anni fa l’eccidio dei fratelli Cervi
Il 28 dicembre del 1943 vengono fucilati al poligono di tiro, a Reggio Emilia, Quarto Camurri e i fratelli Cervi, Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore per mano del regime fascista della Repubblica Sociale Italiana (RSI)
Sette fratelli partigiani, la cui storia entra per la propria tragicità e importanza tra gli avvenimenti della guerra di Liberazione assurti, giustamente, a simboli della lotta resistenziale e di quella vicenda storica e utilizzati come pietre miliari della memoria di quegli anni.
Iniziando dai fatti, va detto che l’origine della famiglia Cervi è quella della maggior parte delle famiglie del reggiano, una zona che ancora oggi presenta una forte connotazione agricola sia nella parte appenninica che nella “bassa”, la terra che spiana fino alla riva destra del Po.
Sono mezzadri che dopo anni di fatiche riescono finalmente ad ottenere in affitto un appezzamento di terra, “Valle Re”, i cosiddetti “campi rossi”: sono gli anni in cui la dittatura fascista sembra aver spazzato via ogni forma di resistenza interna, normalizzato il vivere quotidiano, piegato tutti all’”avvenire fascista”.
In realtà, oltre a poche formazioni politiche organizzate (in modo particolare i militanti comunisti del PCI) che non si piegano e continuano la loro attività antifascista, pur indebolite dai duri colpi ricevuti dall’OVRA, esiste un embrione di identità che il movimento socialista aveva creato nei decenni precedenti che allora permea ancora il ricordo e la coscienza dei lavoratori, soprattutto nelle campagne. Lo sviluppo che avevano avuto in passato le cooperative, le case del popolo e le camere del lavoro hanno lasciato infatti semi di solidarietà, collaborazione, sviluppo, e identità di classe che lo squadrismo fascista non riesce ad estirpare e che sono pronti a germogliare.
È quello che succederà proprio ai fratelli Cervi, che al seguito di Aldo, il più cosciente da un punto di vista politico, daranno vita ad una vera e propria banda partigiana, che prese la via della montagna senza limitarsi a dare la pur preziosa copertura ai renitenti alla leva, ai disertori della RSI, ai prigionieri di guerra che riuscivano a fuggire (in modo particolare sovietici, tra cui si ricordi Anatolij Tarassov, catturato insieme a loro e poi, riuscito a fuggire, diventato commissario politico di una brigata partigiana).
Sotto la direzione clandestina del PCI che organizza le prime azioni e formazioni combattenti, dalle brigate partigiane ai Gruppi di Azione Patriottica (GAP) e alle Squadre di Azione Patriottica (SAP), la banda Cervi agirà con alterne fortune sull’appennino reggiano nell’autunno del 1943, da cui devono però ritirarsi alla fine dell’inverno: sono i primi difficili passi del movimento di liberazione, in cui la clandestinità si coniuga alla feroce repressione del regime, alla fame, alle rigidità dell’inverno e alla paura che attanaglia gli abitanti dei paesi.
La banda Cervi torna quindi in pianura e continua lì la sua intesa attività sovversiva fino alla notte tra il 24 e il 25 novembre 1943, quando i sette fratelli, insieme ad alcuni partigiani sovietici, Dante Castellucci e Quarto Camurri, vengono sorpresi da un rastrellamento e catturati dopo un violento scambio a fuoco. I fascisti, oltre ad incendiare la casa, traducono in carcere anche il padre, Alcide Cervi: sarà l’ultima volta che vedrà i suoi figli, i quali dopo circa un mese di prigionia saranno giustiziati il 28 dicembre di settantasette anni fa.
La storia e l’epilogo dell’esperienza partigiana dei Cervi diventerà un simbolo, non solo locale, del sacrificio e dell’onore dei partigiani, del contributo dato dalla Resistenza per la liberazione dal giogo nazifascista e per la costruzione di un Paese nuovo e libero, almeno nelle intenzioni. Nel corso dei decenni vengono infatti scritti libri, girati film, composte numerose canzoni e poesie sulla storia dei fratelli Cervi (1).
La volontà di cristallizzare la memoria della loro esperienza, così come in realtà quella di tutto il movimento di Liberazione, è stata certamente dovuta alla difesa, ideologica e non, del movimento partigiano nel dopoguerra: la “normalizzazione” messa in atto nella neonata Repubblica Italiana infatti ha visto pochissimi fascisti pagare per le proprie colpe, mentre la maggior parte di loro ha trovato protezione e legittimazione nelle nuove istituzioni tanto che la giustizia borghese, non più fascista, inquisisce, arresta, perseguita fortemente gli ex combattenti partigiani.
Sin dai primi anni del secondo dopoguerra il PCI coltivò la memoria dell’esperienza resistenziale sottolineandone l’importanza. La progressiva degenerazione politica del Partito Comunista Italiano, che abbandonò sempre più l’orizzonte rivoluzionario fino ad arrivare via via al grottesco e tragico epilogo di fine secolo, investì anche il peso e il significato politico che a quell’esperienza e a quelle ricorrenze veniva accostato. Come terminale di quel lungo processo si può guardare al presente e al modo in cui la storia della Resistenza è usata politicamente dai partiti riconducibili all’area del centro-sinistra in termini sempre più lontani da quelli originari, l’esperienza e le vicende dei protagonisti di quelle azioni trasformate in scialbi e superficiali inni alla non violenza, ad una generica pace o libertà, per la democrazia, cioè quella del dominio della borghesia, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo (non certo ciò per cui si batterono le migliaia di uomini e donne delle forze partigiane).
Allo snaturamento che viene da sinistra si accompagnano gli attacchi sempre più aperti della destra del nostro Paese, con opere di “storici” dal già dubbio ruolo di presentatori TV e saggisti, che mettono l’accento in modo strumentale (e spesso palesemente falso) sulle “atrocità” partigiane, attacchi che in definitiva la narrazione apertamente revisionista della cosiddetta “sinistra” di fatto accoglie, mettendo sullo stesso piano i fascisti e i partigiani entrambi vittime di violenza che, in quest’ottica, sarebbe da condannare allo stesso modo.
Comprendere il sacrificio costato a migliaia di partigiani e partigiane, ai lavoratori italiani e alle classi popolari ridotte in miseria, ai partigiani stranieri che ai nostri si sono uniti, contestualizzando la loro lotta alla durezza di quegli anni, alla repressione, alla tortura, all’assassinio è necessario per poter rispondere a questi tentativi.
Rispondere magari con le parole di Giglio “Alì” Mazzi, l’ultimo partigiano ancora vivo del distaccamento Katiuscia, una delle formazioni GAP che operarono nell’Emilia Romagna occupata dai nazifascisti tra il settembre ‘43 e il 25 aprile 1945: “Abbiamo fatto quello che c’era da fare. Punto e basta.”
Vengono in mente allora le parole di Alcide Cervi, quando riferendosi alla sua famiglia e ai suoi sette figli assassinati diceva:
“Mi hanno detto sempre così, nelle commemorazioni: tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta. Va bene, la figura è bella e qualche volta piango, nelle commemorazioni. Ma guardate il seme. Perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo.”
Oggi che quelle generazioni di uomini e donne non esistono quasi più un compito di fondamentale importanza è restituire alle vicende della Resistenza, alla morte e alla vita dei fratelli Cervi il loro significato politico di lotta e desiderio di giustizia sociale.
NOTE
Ricordiamo per esempio i libri:
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A. Cervi, I miei sette figli, Einaudi 2014
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Tarasov A., Sui monti d’ltalia. Memoria di un garibaldino russo, ANPI, Reggio Emilia 1975