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Home›Speciali›Centenario PCdI›Partito comunista d’Italia. Manifesti e altri documenti politici (21 gennaio-31 dicembre 1921)

Partito comunista d’Italia. Manifesti e altri documenti politici (21 gennaio-31 dicembre 1921)

Di Redazione
21/01/2021
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Viviamo in un’epoca dove si manifestano in maniera drammaticamente invasiva le conseguenze di quanto avvertiva Marx: “le idee dominanti sono quelle della classe dominante”. Il dominio si concretizza nella condanna senza appello verso tutto ciò che richiama antagonismo e contrapposizione al sistema capitalistico. Questa opposizione è diventata organizzazione, militanza, tattica e strategia politica con Marx, è proseguita lungo il solco di una storia gloriosa che, attraverso il corso di decenni e delle prime due internazionali operaie, ha portato milioni di lavoratori a prendere coscienza della loro condizione e ad affacciarsi sulla scena della lotta di classe non più da spettatori passivi ma da protagonisti.

La presenza delle correnti riformiste, da Bernstein in poi, asfissiava il movimento socialista, lo trasformava da fattore di trasformazione sociale in fattore di conservazione, apriva il campo al tradimento delle ragioni fondanti del movimento socialista con la decisione di schierarsi a sostegno degli imperialismi che presero parte alla Prima guerra mondiale.

Tanti tradirono, molti esitarono a schierarsi con le ragioni della classe sfruttata, con gli “operai che non hanno patria”, con l’internazionalismo proletario, contro il nazionalismo

Tanti ma non tutti. In Russia, una sparuta pattuglia di bolscevichi si trasformò in un possente movimento organizzato in un partito rivoluzionario capace di ribaltare il dominio di pochi e dare, per la prima volta nella storia, alla classe sfruttata la possibilità reale di costruire il proprio percorso di liberazione e, poi, di organizzazione sociale. Avanguardie rivoluzionarie divennero protagoniste in Europa e dovettero far fronte ad uno scontro durissimo e ad una repressione selvaggia e criminale delle autorità di quell’epoca di cui restarono vittime, tra gli altri, anche Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg.

Anche in Italia si scrissero pagine gloriose che videro protagonista un’avanguardia rivoluzionaria che fondò la sezione italiana dell’Internazionale comunista, il Partito comunista d’Italia.

Un’avanguardia animata da una tensione soggettiva e da una passione rivoluzionaria che fu trasfigurata, graficamente, nel Prometeo che spezza le catene della prima tessera del Pcd’I e che portò le migliori energie proletarie a militare per il comunismo.

prima tessera del PCdIIl volume Partito comunista d’Italia. Manifesti e altri documenti politici (21 gennaio-31 dicembre 1921) – curato da Concetto Solano e pubblicato dalla casa editrice Pgreco dà voce, direttamente al partito del 1921, a “quelli di Livorno”. Dalla lettura dei documenti, riproposti nello scrupoloso rispetto della selezione che ne fece allora il partito, emerge in tutta la sua ricchezza e profondità la rottura con il riformismo della Seconda Internazionale, che si consuma con un’intensità e una profondità di ragioni non minore in Italia che in Russia, sia pure nell’ambito di un unico processo storico.

Studiare i documenti del partito del ‘21 consente di attingere a quella storia, di carpirne, attraverso lo studio, gli aspetti positivi per rimetterli al servizio della lotta per il comunismo, o almeno per tentare di farlo.

Quel partito si caratterizzava, sin dall’inizio, per la critica a fondo, senza sconti, ad un partito inquinato dal riformismo, ma di cui si rivendicava la storia di lotte e sacrifici iniziata nel 1892 a Genova, quando i socialisti si staccarono dagli anarchici per dare vita ad un partito che si prefiggeva lo scopo di organizzare l’emancipazione delle classi lavoratrici.

Nei testi emerge un rigore rivoluzionario che eredita il dibattito vivacissimo della componente comunista negli anni che precedettero la costituzione del partito.  Quel partito, in un contesto segnato dalla rapida ascesa delle forze reazionarie e dalla necessità per il capitalismo di imporre l’ordine e la pace sociale, educò fin dall’inizio l’avanguardia proletaria a misurarsi con le grandi questioni, nelle quali la teorizzazione programmatica si proiettava direttamente nella vita e nella pratica politica dei militanti.

La selezione severa dei militanti, il rigore organizzativo portavano quel partito ad agire come un solo uomo, senza esitazioni, per far fronte al compito storico per il quale era stato costituito: operare per l’instaurazione della dittatura del proletariato in Italia.

Un altro aspetto, che risalta all’attenzione del lettore, riguarda la centralità che il Pcd’I, appena costituito, ha attribuito alla lotta contro la reazione fascista e all’accettazione della guerriglia civile, che il Psi rifiutava per rifugiarsi sul piano legale e parlamentare.

Queste due discriminanti ebbero un valore fondamentale per il proletariato. Nonostante le sconfitte degli scioperi dell’aprile-maggio 1921, esso constatò la giustezza ed il rigore della scissione ed entrò nel ventennio fascista con l’immagine dei comunisti alla testa della resistenza. Da Trieste a Firenze, da Bari a Milano la coscienza della lotta di classe porta a rispondere “occhio per occhio” – è scritto in un documento del partito – alla violenza della borghesia, che operava per mezzo dello Stato e del fascismo. La violenza proletaria, difensiva ed offensiva, ispirata alla lotta per il socialismo, fu un’acquisizione fondamentale maturata proprio nel passaggio dal vecchio al nuovo partito.

Mentre il vecchio partito socialista rifiutò sempre di combinare lavoro legale e lavoro illegale, escludendo l’organizzazione di quest’ultimo, il partito comunista costituì un’apposita struttura incaricata di predisporre la risposta militare alle violenze antiproletarie e anticomuniste.

“Comunismo”, in quelle drammatiche condizioni, significava una scelta di campo che rompeva con tutti i canoni della politica tradizionalmente intesa, con le sue regole e le sue istituzioni.

L’intransigenza e il rigore, tipici dell’organizzazione rivoluzionaria, si colgono come un tratto comune che emerge da tutti i documenti. Non furono un elemento di debolezza, ma di forza. Costituirono l’alterità comunista. A Livorno aveva avuto origine un nuovo tipo di militante proletario, portato a difendere il partito a tutti i costi, anche a prezzo della propria vita.

Il militante del 1921 voleva combattere allo stesso tempo il fascismo e il capitalismo; vedeva la borghesia come un nemico che aveva tante ramificazioni e che sapeva coniugare il vecchio stato liberale con le nascenti forme di organizzazione fascista, secondo i propri interessi di classe; non voleva accantonare la prospettiva della rivoluzione nella lotta difensiva o parziale; diffidava di tutte le vecchie direzioni riformiste, sia politiche che sindacali, che avevano condotto la classe lavoratrice alla sconfitta nel “biennio rosso”.

Si presero decisioni difficili che, ad una superficiale chiave di lettura, possono sembrare impopolari, come quando ci fu il rifiuto di unirsi agli “arditi del popolo”, in una resistenza antifascista unitaria ma ambigua, per la stessa natura dell’iniziativa. Il Pcd’I non aveva atteso gli arditi per dare impulso alla formazione di un apparato militare illegale e di squadre rosse armate ed inquadrate rigorosamente e, proprio per questo, dirette dal partito.

L’intransigenza e la fermezza rivoluzionaria si accompagnavano ad una linea unitaria a livello sindacale. La strategia sindacale comunista prevedeva un fronte unico sindacale, tendente all’unità tra le diverse organizzazioni sindacali, anticipando la tattica dell’Internazionale che la indicò alle sezioni nazionali come terreno unificante di una strategia complessiva.

I comunisti furono gli interpreti più conseguenti delle battaglie per la riduzione dell’orario di lavoro, per la difesa dei salari, per l’utilizzo dello sciopero generale per fronteggiare l’arroganza dei padroni.

Unità e solidarietà di classe, sviluppo della coscienza rivoluzionaria, rappresentavano il presupposto consolidato per tentare di allargare il consenso dei comunisti, avvicinando larghe masse al loro programma.

Il contesto storico difficilissimo in cui si trovò a dovere lottare quel partito non toglie nulla alla grandezza dello sforzo di quei combattenti per la causa della rivoluzione. Anzi consente di comprendere l’affermarsi di una mentalità rivoluzionaria che riapparve durante la Resistenza, che si oppose sordamente all’interno e ai margini del Pci, non riconoscendosi nella strategia di unità nazionale inaugurata con la “svolta di Salerno”.

“Veniamo da molto lontano e andiamo molto lontano” ebbe a dire Togliatti. Certamente vera è la prima parte della frase: noi comunisti veniamo da una tradizione di lotte, di sacrifici, di carcere, di compagni assassinati dallo Stato e dal fascismo. “Andiamo molto lontano” acquisisce un significato costruttivo e carico di prospettiva strategica se si orienta il timone in direzione opposta a quella della direzione revisionista, che ha distrutto l’organizzazione comunista nel secolo scorso ed ha creato le premesse per fare terra bruciata attorno al nome “comunista”.

Andremo “molto lontano” solo se ci riapproprieremo dell’atmosfera del Teatro San Marco, del senso profondo che portò quei militanti, un secolo fa, a fondare il partito. Il partito di Livorno ha tantissimo da insegnarci, per diventare i soldati della rivoluzione che verrà.

 

Graziella Molonia (Red Militant, che aderisce al Fronte Militante per la ricostruzione comunista)

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