Determinare quali cause e quali fattori abbiano determinato cento anni fa la scissione del PSI e la nascita del Partito Comunista d’Italia, sezione della Terza Internazionale, non è affare semplice.
Il processo storico che sfociò in ultima istanza nella proclamazione al Teatro San Marco di Livorno è, come tutti gli avvenimenti storici, estremamente complesso e sfaccettato. A ben vedere «le ragioni profonde della fondazione del PCI vanno indubbiamente cercate non solo negli anni che precedettero il Congresso di Livorno, ma assai più indietro nel tempo»[1]: la crisi della società liberale, i profondi cambiamenti economici e politici che maturano nei decenni a cavallo del 1900 si sommarono a mutamenti come le trasformazioni dovute alla Grande Guerra e all’ondata rivoluzionaria prodotta dall’Ottobre bolscevico.
Molti di questi fattori sono comuni a diversi paesi, mentre altri sono specifici della società italiana o comunque hanno prodotto conseguenze ben precise al di qua delle Alpi. I moti popolari del 1919 e del 1920 costituiscono un esempio interessante di quest’ultima tipologia: una panoramica seppur non esaustiva sugli eventi del “biennio rosso” può aiutare a comprendere da un lato le manchevolezze e l’arretratezza di un partito come il Partito Socialista Italiano (PSI) di allora, chiuso tra massimalismo parolaio e attendismo immobilista, dall’altro può illuminare sulla necessità storica della costruzione del partito rivoluzionario, forgiato nelle lotte reali e di massa, oltre che nella corretta impostazione teorica e ideologica.
Con la locuzione “biennio rosso” si intende in Italia il periodo che va tra la fine della Prima guerra mondiale e la sconfitta del movimento dell’occupazione delle fabbriche, nell’autunno 1920. Un periodo di forti sommovimenti sociali, dove le difficoltà degli anni di guerra si sommavano ad una povertà dilagante e l’arretratezza economica del paese produceva forte disillusione tra le masse.
Agli stenti del periodo bellico si aggiungeva il problema dei reduci, la spinta della rivoluzione socialista sovietica e la consistenza numerica del Partito Socialista e della Confederazione Generale del Lavoro. Non a caso il termine venne coniato dapprima con valore negativo, rappresentando esso il timore concreto dei proprietari industriali e della vecchia classe dirigente liberale nei confronti di una situazione che si temeva potesse diventare ingestibile ed avere sbocchi rivoluzionari.
Nell’estate del 1919 si sviluppano impetuosi movimenti di massa: scioperi economici e politici, moti contro il carovita, rivolte nelle campagne.
A Barletta, nella notte tra il 7 e l’8 luglio, gruppi di operai e contadini intervengono organizzati alle barriere daziarie sequestrando frutta e verdura in quantità e organizzandone la distribuzione autonoma a prezzi calmierati. Per due giorni i bottegai chiudono: “questo negozio è sotto il controllo dei Consigli del lavoro”[2]. Nella città si organizzano squadre di operai e contadini per garantire l’ordine ed evitare qualsiasi tipo di occultamento delle merci recuperate. Lo stesso 9 luglio lo sciopero cessa: «Nella mattinata del 10 circolano per tutta la città pattuglioni di soldati e bersaglieri e camion con mitragliatrici»[3]. L’Avanti! scrive: «L’ordine borghese torna a regnare dopo due memorabili giorni di governo socialista nella terra di Carlo Cafiero»[4].
Situazioni simili nascono in Emilia, in Romagna, a Milano e a Torino, oltre che in Puglia. Questo tipo di «soviet annonari» rappresenta in realtà una mobilitazione spontanea principalmente delle masse popolari stremate dalla povertà dilagante del dopoguerra. L’intervento politico del PSI in questo movimento è debole e inefficace: ai limiti delle iniziative spontanee si sommano le incapacità politiche delle organizzazioni operaie nel dirigerle verso soluzioni politiche più avanzate, se non rivoluzionarie.
Anziché entrare in contatto stretto con le rivendicazioni generali dei contadini, la dirigenza socialista e le sue ramificazioni locali si interrogano sull’atteggiamento da assumere nei confronti del contadino medio, da un lato lavoratore, dall’altro proprietario. Cogliendo in maniera debole e colpevolmente in ritardo il significato politico dello sviluppo del controllo sulle merci alimentari: gli stessi movimenti spontanei volevano liquidare non solo la proprietà ma anche la “politica” dei signorotti borghesi.
Nelle città operaie del nord appare più evidente la profonda frattura che esiste tra le affermazioni rivoluzionarie e la prassi politica che dovrebbe sostanziarle: si prende atto del moto spontaneo di massa, ma non viene indicata alcuna linea politica. La conclusione è un totale rifiuto ad impegnarsi nella lotta contro il carovita: «Bisogna che il proletariato organizzato operi nella sfera della sua azione, per frenare ogni movimento intempestivo, ogni astensione dal lavoro, ogni spreco di energia, per continuare il lavoro di preparazione degli spiriti e delle volontà per il raggiungimento di quei mutamenti radicali dell’economia nazionale e internazionale sulla base dei quali è solo possibile la ricostruzione dell’ordine sociale, la riproduzione della ricchezza distrutta dalla guerra e dalla speculazione capitalistica»[5].
A Torino la Camera del Lavoro organizza settantamila operai e rappresenta gli interessi di circa 350mila torinesi: è già un potere reale di fatto che deve essere solo riconosciuto e valorizzato, ma il movimento reale va più avanti dei suoi dirigenti, compresi quelli che operano nella sezione torinese:
«Pur comprendendo l’esasperazione di tutti i proletari in questi giorni di esoso rincaro della vita non possiamo non deplorare l’atto di quegli operai che scavalcando ogni principio di disciplina sindacale hanno intempestivamente abbandonato il loro posto nelle officine»[6].
È in questo contesto storico generale e nella specificità dell’area industriale torinese che nasce L’Ordine Nuovo, “rassegna settimanale di cultura socialista”. Nato nella stessa sede dell’Avanti! piemontese, in via Arcivescovado, il foglio fondato da Gramsci, Togliatti, Tasca e Terracini divenne ben presto il giornale dei consigli di fabbrica, costituendo un punto di riferimento teorico e pratico per la classe operaia torinese dell’epoca.
L’analisi che viene condotta dall’Ordine Nuovo coglie nei fatti di quei giorni un elemento positivo: «Durante i tumulti solo le Camere del Lavoro e le Sezioni Socialiste hanno dimostrato di sapere esercitare un prestigio sulle folle, di essere capaci di ricondurre un ordine. Queste esperienze reali devono essere valorizzate»[7].
La grande mobilitazione di solidarietà internazionalista verso le repubbliche sovietiche, organizzata nella stessa estate dai socialisti, rimane distaccata dal movimento dei moti e anzi ne denuncia il limite della mancata unificazione a livello nazionale in un movimento rivoluzionario: la realtà è che la responsabilità di questo sta nel PSI, il quale non riesce a trasformare in un movimento rivoluzionario le spinte disorganiche che provengono dal basso, non riesce a coordinare in un solo programma l’internazionalismo e le rivendicazioni della classe operaia italiana, non riesce a collegare le lotte che si svolgono sul piano europeo con quelle che si svolgono in Italia. La paura dei moti spontanei è segno dell’incapacità di guidarli, per l’assenza di un’impostazione strategica realmente rivoluzionaria.
Durante l’anno successivo, il 1920, si sviluppano ulteriori momenti cruciali per il futuro politico del paese, che segnano ancora una volta in maniera impietosa l’atteggiamento colpevole del PSI e della CGL.
Ad Ancona reparti in partenza per l’Albania si ribellano e la loro rivolta, intrecciandosi con l’iniziativa anarchica, sfocia in un’insurrezione popolare che dà la città nelle mani del proletariato: verranno chiamate le «giornate rosse». Il Partito Socialista attraverso l’Avanti! invita a moderare gli animi e a porre fine allo sciopero: «Questa disciplina è la nostra più grande forza. Essa ci garantisce che, chiamati, voi ubbidirete come uno solo; e che il sangue proletario non sarà versato né per conquiste socialdemocratiche che ci allontanerebbero vieppiù dal Comunismo, né per impulsività sia pure generosa di precoci impazienze, senza la chiara consapevolezza delle condizioni di mezzo e di fini. […] Voi sapete che a questa azione noi vi chiameremo non appena la maggior probabilità nelle condizioni della riuscita si concilierà con il minore sacrificio vostro e di tutto il proletariato italiano.»[8]
Ad Ancona le masse interpretano l’invito alla vigilanza della direzione socialista non nel senso attesista inteso dai capi, ma in quello di una risposta immediata. Contro ogni previsione il Consiglio delle Leghe vota per la prosecuzione dello sciopero generale, come risposta agli arresti e alle rappresaglie.
I livelli del carovita continuano a salire, rigenerando quel clima di esasperazione e malcontento che aveva portato ai moti dell’anno precedente. A fronte di ciò, gli industriali respingono ogni richiesta di aumenti salariali e la FIOM decide di applicare l’ostruzionismo. Gli industriali sono consapevoli del significato politico di questa lotta e preparano una dura risposta contro i lavoratori. Il 24 agosto gli industriali torinesi stabiliscono «che quegli stabilimenti dove si siano verificati i sabotaggi, intimidazioni e violenze rimangano chiusi sino a nuovo avviso»[9].
Il braccio di ferro tra padroni e operai continua: i lavoratori intensificano l’ostruzionismo. L’ulteriore risposta padronale non si fa attendere: il 30 agosto a Milano la Romeo chiude i cancelli della fabbrica e la sezione milanese del PSI ordina l’occupazione delle officine. Il 31 agosto gli industriali proclamano la serrata su scala nazionale e subito dopo gli operai occupano le fabbriche, con un movimento che tra il 1° e il 4 settembre assume caratteri imponenti in tutti i centri industriali nazionali.
A Torino l’occupazione avviene il 1° settembre. I dirigenti socialisti più conosciuti, da Gramsci a Pastore, da Tasca a Boero, da Montagnana a Togliatti, partecipano ad assemblee di fabbrica durante la prima domenica dopo l’occupazione, la «domenica rossa», come scrive Gramsci sull’Avanti! in un editoriale.
«Le gerarchie sociali sono spezzate, i valori storici sono invertiti; le classi “esecutive”, le classi “strumentali” sono divenute classi “dirigenti”, si sono poste a capo di sé stesse, hanno trovato in sé stesse gli uomini rappresentativi, gli uomini da investire del potere di governo, gli uomini che si assumono le funzioni che in un aggregato elementare e meccanico fanno una compagine organica, fanno una creatura vivente.»[10]
La giornata di domenica dovrà contare «quanto dieci anni di attività normale, di propaganda normale, di normale assorbimento di nozioni e concetti rivoluzionari»[11].
La spinta generosa e spontanea, anche se organizzata in alcune singole realtà, da parte della classe non può però reggere lo scontro politico con la classe borghese a livello nazionale se non si mette in campo una strategia rivoluzionaria generale: di questo ne sono ben consapevoli gli ordinovisti.
Il 9 settembre Togliatti interviene al Consiglio direttivo della CGL: «Non dovrete contare su una azione svolta da Torino sola. Noi non attaccheremo da soli: per farlo occorrerebbe un’azione simultanea delle campagne e soprattutto un’azione nazionale»[12]. Il 10 settembre la Confederazione Generale del Lavoro rivendica per sé la direzione del movimento di occupazione delle fabbriche, rivendicando l’obiettivo puramente riformistico della conquista del controllo delle aziende. Tuttavia la CGL sembra fare un passo indietro quando pone la direzione del Partito Socialista davanti a una decisione: “la Confederazione è pronta a farsi da parte, se il PSI sarà per la rivoluzione”[13]. Di fronte a questo atteggiamento la direzione del PSI porta la questione al Consiglio nazionale della CGL. La votazione dà la maggioranza ad un ordine del giorno D’Aragona: così «la rivoluzione è respinta a maggioranza»[14].
Le riflessioni di Gramsci sulla sconfitta dell’occupazione delle fabbriche, così come tutti i documenti e le opere che rimandano a quel periodo di estrema crisi sociale, costituiscono un patrimonio teorico e di riscontri pratici anche alla luce della situazione attuale, ben diversa da allora. In quegli avvenimenti l’autogoverno dei lavoratori non sembrava sicuramente distante come lo può sembrare negli anni in cui viviamo. Non si arrivò al tentativo decisivo di presa del potere, per errori di analisi, forse, e per un atteggiamento attendista sedimentato in un partito come il PSI di allora, o più “materialisticamente” perché non erano sufficientemente sviluppate una serie di condizioni indispensabili allo sbocco rivoluzionario.
A questa domanda Gramsci, che ha vissuto in prima persona l’esperienza dei consigli a Torino, prova a dare una risposta secca: è mancata l’avanguardia proletaria. L’importanza delle cellule comuniste e di una impostazione coerentemente rivoluzionaria, sulla scia dell’Ottobre sovietico, porteranno Gramsci e il gruppo dell’Ordine Nuovo a condividere la necessità della fondazione del Partito Comunista d’Italia.
Per mutare la situazione reale, che esiste nelle organizzazioni sindacali, «non giovano i lamenti, gli improperi, le maledizioni, ma occorre lavoro tenace e paziente di organizzazione e di preparazione». La sconfitta non deve portare allo «smarrimento» e alla «disgregazione», ma ad una «attività più serrata, più disciplinata, meglio organizzata: l’emancipazione del proletariato non è opera di poco conto e di uomini da poco; solo chi, nel maggiore disinganno generale, sa mantenere il cuore saldo e la volontà affilata come una spada, può essere ritenuto un lottatore della classe operaia, può essere chiamato un rivoluzionario»[15].
Se l’assenza di un partito coerentemente rivoluzionario, strutturato in cellule, unito in strategia e tattica, può essere considerato uno dei motivi del mancato sbocco rivoluzionario degli avvenimenti del “biennio rosso”, è altrettanto vero che probabilmente senza quelle lotte spontanee e meno spontanee, senza quel bagno di realtà e a volte di sangue, senza l’esperienza diretta e inedita nel nostro paese dei consigli, così come si andavano sviluppando, non solo mancherebbe un enorme bagaglio teorico e pratico al movimento operaio italiano, ma probabilmente il PCd’I non sarebbe nato così come è nato e non avrebbe avuto quei quadri dirigenti che in quelle lotte hanno maturato e affilato il loro pensiero.
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[1] Lepre-Levrero, La formazione del Partito Comunista d’Italia, Editori Riuniti, 1971
[2]«Nella Puglia Rossa», Avanti!, ed. milanese, 13 luglio 1919
[3] ibidem
[4] ibidem
[5] «Disciplina», Avanti!, ed. piemontese, 9 luglio 1919
[6] ibidem
[7] «I tumulti per la fame», L’Ordine Nuovo, 12 luglio 1919
[8] «Direzione del Partito Socialista», Avanti!, 2 luglio 1920
[9] Paolo Spriano, L’occupazione delle fabbriche, Einaudi, 1964
[10] «Domenica rossa», Avanti!, ed. piemontese, 15 settembre 1920
[11] ibidem
[12] Paolo Spriano, op. cit., pag. 105
[13] ibidem
[14] ibidem
[15] «Capacità politica», L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi 1949, pag. 172