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Capitale/lavoro
Home›Capitale/lavoro›Dopo lo sciopero, Almaviva costretta a scendere a patti

Dopo lo sciopero, Almaviva costretta a scendere a patti

Di Redazione
24/03/2021
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Il 15 marzo scorso si è concluso con una parziale ma importante vittoria uno sciopero durato una settimana di 72 dipendenti che nonostante lo smartworking hanno saputo organizzarsi e far valere le proprie ragioni. Si tratta dei lavoratori del call center di Almaviva a Roma, che lavorano in appalto per la società Gestione Servizi Energetici.

Vi chiederete: lavoratori Almaviva? A Roma? Ebbene sì, proprio Almaviva, la più grande azienda di call center del paese. E proprio nel suo sito romano, quello che chiuse nel 2016 perché le coraggiose rappresentanze sindacali rifiutarono di accettare l’ennesimo accordo al ribasso imposto dall’azienda. Ne seguì il famigerato licenziamento di 1666 persone, uno dei più grandi licenziamenti collettivi dell’Italia repubblicana. Eppure il sito è ancora aperto, perché dopo pochi mesi Almaviva riuscì ad aggiudicarsi un appalto pubblico (come la maggior parte di quelli che ha) con l’Ente pubblico GSE – Gestore dei Servizi Energetici, di proprietà al 100% del Ministero delle Finanze, che attua i decreti del MISE e che oggi è passato sotto il nuovo ministero della transizione ecologica. Così, dopo averlo ufficialmente chiuso come sito perché “poco produttivo”, con l’avvallo del Governo Renzi che all’epoca aveva giustificato in tutto e per tutto le spregiudicate manovre aziendali, Almaviva si è trovata a riaprire il sito romano per ospitare una nuova commessa.

Questo però era solo l’episodio più eclatante di una lunga storia di appalti e subappalti che per anni hanno sballottato i dipendenti del call center della GSE da un’azienda ad un’altra, passando da concordati, fallimenti e affitti di rami di azienda. I dipendenti erano però sempre gli stessi, così come la sede in cui hanno operato per la maggior parte di questi anni. Un’incredibile storia di scatole cinesi in cui le aziende private intascavano soldi pubblici, senza di fatto metterci nulla, mentre intanto i lavoratori venivano mantenuti in uno stato di precarietà perenne che impediva loro anche di vedersi riconoscere il corretto inquadramento contrattuale.

Nel 2015 i lavoratori, stanchi di questa situazione arrivata ormai all’assurdo opposero una serie di mobilitazioni per ottenere l’unica cosa sensata: l’internalizzazione del servizio presso il committente, GSE. Presidi, scioperi e una battaglia legale per interposizione fittizia di manodopera che si è conclusa in una maniera tanto controversa quanto la situazione che avrebbe dovuto risolvere: il ricorso, diviso in due tronconi, seguiti però dallo stesso avvocato e quindi assolutamente indistinguibili, ha avuto esiti opposti. Una parte dei lavoratori ha vinto il ricorso, venendo internalizzati in GSE, sentenza confermata pochi giorni fa dalla Corte di appello. L’altra parte è finita con Almaviva: 72 dipendenti spostatisi nella sede di Roma del colosso di Tripi. Questo nonostante a considerarli “infungibili” sia lo stesso GSE: gli operatori del call center seguono infatti “il core business” della società e non rispondono solo al telefono ma gestiscono le rinnovabili a 360 gradi, ricevono documenti, ne verificano la correttezza, inviano e ricevono mail e altre attività correlate.

C’è da dire che forse ormai Almaviva si è pentita. Anni di lotte infatti non sono passati invano e l’azienda si è così trovata all’interno un nucleo combattivo, sindacalizzato dalla FIOM, assolutamente non disposto a barattare le conquiste strappate in precedenza. Dal 2017 a oggi attraverso diversi bracci di ferro sono riusciti a farsi rispettare. Un’ulteriore sfida ovviamente è stata rappresentata dal Covid e si è conclusa in questi giorni proprio con la vittoria con cui abbiamo iniziato l’articolo.

Cominciamo però dall’inizio. A marzo dell’anno scorso, con l’avvento della pandemia i lavoratori si erano resi disponibili a portare avanti il servizio in smart working con dotazioni personali e senza alcun rimborso, investendo anche parte dei loro stipendi forti dell’assicurazione dell’azienda secondo cui lo smart working sarebbe andato avanti anche dopo l’emergenza Covid. In tutta risposta l’azienda ha invece portato avanti una serie di pratiche scorrette: il calcolo errato dei ratei della tredicesima, che si traduce in una minore entrata economica; un conteggio delle ferie che non le faceva maturare per intero; un disconoscimento della malattia durante l’uso dell’ammortizzatore sociale, che lo faceva conteggiare come giorno di cassa integrazione e non come malattia. Per non parlare dell’abuso della stessa cassa integrazione fino a percentuali del 45%. Insomma hanno messo le mani direttamente in tasca ai dipendenti.

Dopo mesi di lavoro agile in questa situazione di ricatto e vessazioni, i lavoratori hanno chiesto di avere dotazioni aziendali e di stipulare un accordo per regolamentare il lavoro da remoto e riequilibrare gli oneri tra azienda e lavoratori. L’azienda prima ha risposto di no, poi ha proposto dei PC fissi (altro che lavoro agile!), poi ha ceduto sui computer portatili a condizione però che i lavoratori accettassero il controllo della prestazione a distanza. Un’ingerenza oltraggiosa dopo un anno intero di lavoro da casa a spese dei lavoratori effettuato in maniera puntuale e efficiente, e soprattutto dopo 10 anni di servizio svolto sempre in modo ineccepibile per GSE.

A questo punto i lavoratori hanno opposto all’azienda un secco rifiuto. Almaviva ha così sfoderato l’arma del ricatto: se non avessero accettato i PC e il controllo a distanza avrebbe riaperto la sede e fatto un controllo uomo a uomo. È davanti a questo ennesimo affronto che i lavoratori hanno allora risposto con lo sciopero.

Le loro richieste: no alla riapertura, a tutela del diritto alla salute per sé, i cari e la collettività tutta; risarcimento delle decurtazioni salariali effettuate dall’azienda per ferie non maturate in FIS ma fatte smaltire; corretta maturazione dei ratei; immediata apertura di un tavolo di confronto serio e costruttivo per la regolamentazione dello smart working.

Lo sciopero è durato una settimana per concludersi il 15 marzo ottenendo la preservazione del lavoro da casa con le proprie dotazioni private, il rifiuto del controllo individuale della prestazione e l’impegno da parte di Almaviva a sottoscrivere un accordo collettivo e non individuale di smart working, l’eliminazione della cassa integrazione per il mese di marzo e il suo ricorso al massimo al 20% ad aprile. Proprio per fine aprile è previsto poi un appuntamento per parlare di fornitura delle dotazioni aziendali e del proseguo dell’attività lavorativa.

È un successo che trova riscontro in una lotta portata avanti con caparbietà e decisione e soprattutto tutti insieme, perché anche in una situazione di emergenza come è la pandemia che ci coinvolge tutti in questo momento, pur con la responsabilità che sembra essere prerogativa più dei lavoratori che dei padroni, si può e si deve lottare per i propri diritti.

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