I settemila passi. Morire di lavoro accanto a una passerella elettorale
Alle 9:30 del 26 gennaio 2024, nell’area Grendi del Porto Canale di Cagliari, mentre lavorava allo scarico dei container sulla nave finlandese “Estraden”, Raffaele Massa, un operaio cinquantenne di Quartu Sant’Elena, ha perso la vita, schiacciato tra due rimorchi. I compagni di lavoro ricordano solo un urlo lancinante, lanciato da quel gigante buono (così lo definisce il cugino Roberto, suo collega) dall’esperienza consumata, tanto impassibile e competente sul lavoro quanto generoso e disponibile con chiunque lo avvicinasse. Poi è stato il turno dei tecnici dello Spresal, specializzati nel ramo, degli agenti della squadra volante, della polizia scientifica e della capitaneria di porto, infine del magistrato competente a coordinare le indagini. E ancora, sullo sfondo, i genitori, i due fratelli, la compagna, ad attendere il corpo requisito per gli adempimenti autoptici. Niente di nuovo, del resto. Una storia come tante. Proprio in questi giorni, dopo ben diciassette anni, è giunta la condanna per i sette imputati della morte di Fausto Simbalu, anch’egli all’opera sul molo di Cagliari, mentre è del 30 dicembre scorso la notizia di un’altra vittima portuale a Bari.
Sulla base dei dati parziali forniti dall’INAIL, attinenti ai primi dieci mesi dello scorso anno, il calo del 4,5% degli eventi mortali registrato rispetto allo stesso periodo del 2022 (868 casi a fronte di 909) va spiegato con lo scemare delle ripercussioni pandemiche, come si evince dalla diminuzione dei decessi in itinere (196 casi invece che 250) e dalla crescita di quelli istantanei (672 casi in luogo di 659). Infatti, anche sul fronte delle denunce, se si assiste ad un calo del 17,8% del volume complessivo (489526 casi contro 595569), si registra un incremento del 20,9% delle malattie professionali (60462 casi, oltre 10000 in più rispetto al periodo precedente), con un ritorno di fiamma delle criticità afferenti agli specifici ambiti produttivi a discapito delle motivazioni più generiche. Non è un caso che la maggiore controtendenza al quadro complessivo si riscontri nei reparti manifatturieri, con un’impennata di denunce nei settori delle bevande (+25,1%), della fabbricazione di autoveicoli (+25,1%), dell’abbigliamento (+9,6%), della manutenzione di macchine e apparecchiature (+7,9%), dei servizi di alloggio e ristorazione (+5,1%) e delle costruzioni (+4,3%).
Alle 11:00 dello stesso giorno, a 5,5 km di distanza (settemila passi, appunto), presso l’Hotel “Regina Margherita”, ha avuto inizio, davanti a una platea di amministratori e imprenditori, l’intervento di Matteo Salvini, ministro delle infrastrutture e dei trasporti, nell’ambito dell’iniziativa “L’Italia dei sì 2023-2032. Progetti e grandi opere in Italia e in Sardegna”, nel corso del quale è stata rilanciata l’agenda di ammodernamento strutturale e di snellimento normativo approntata dal dicastero ad uso e consumo dei capitani d’industria. Un evento che si iscrive a pieno titolo, dopo lo sfilamento dalla prospettiva infrastrutturale della nuova Via della seta, nel tentativo di rilanciare, in chiave euroatlantica, il sistema connettivo e logistico a suon di resilienza e protezionismo. Dieci miliardi di euro ai sardi, dei quali la metà è destinata al programma viario, tra manutenzione (832,7 milioni di euro), progettazione (1,2 miliardi di euro) e completamento (2,9 miliardi di euro) delle reti locali. E poi ancora giù, ad illustrare gli interventi ferroviari (a Nuoro dovrebbe arrivare il primo treno, forse) e portuali (dodici progetti per oltre 200 milioni di euro), tra cui spicca proprio quello attinente al potenziamento dell’area di Macchiareddu, ancora imbrattata del sangue dell’ennesima ostia votiva. Tutto in un’orgia di ottimismo ed orgoglio, condita dalla più assertiva fiducia nel futuro di un popolo finalmente pronto ad accogliere senza titubanze le indicazioni del manovratore, ad assecondare la strategia di crescita padronale senza metterle i bastoni fra le ruote con perplessità, agitazioni e scioperi di sorta. Il sottinteso (neanche tanto), in effetti, di questo tour propagandistico è che bisogna farla finita con i dubbi e le esitazioni, che occorre rimboccarsi disciplinatamente le maniche e aprire la strada all’Italia del futuro, costi quel che costi, ne valga o meno la pena.
Successivamente, tra un siparietto dedicato alla politica locale e l’altro (si avvicinano le scadenze elettorali anche in Sardegna), i rappresentanti dei sindacati portuali sono stati ricevuti dall’alto funzionario, rilasciando con lui dichiarazioni di sdegno per l’accaduto e convenendo sulla necessità di porre fine a tale stillicidio di morti sul lavoro. Reduci dalla proclamazione di una sospensione del lavoro di tre giorni, hanno senza tentennamenti ravvisato nella presenza nel capoluogo sardo di Salvini un’occasione per ribadire una volta di più la prospettiva concertativa e compromissoria da cui partono, buona soltanto ad escludere una risposta efficace al fenomeno e a legittimare i tanti infruttuosi interrogativi. Quello dell’autorità portuale, ad esempio, che ha immediatamente rilevato l’alto numero di ispezioni annuali effettuate (il 40% in più rispetto a quelle programmate, con 150 interventi solo a Cagliari sui 560 totali dell’isola), ma anche quello degli amministratori delegati della società, che si definiscono sgomenti e addolorati. Tutti uniti, insomma, nella più totale costernazione rispetto all’inspiegabile, col naso in su, in attesa di un’illuminazione divina.
I punti focali della questione dei lavoratori portuali, tuttavia, da tempo sono sul piatto senza che si sia giunti ad una loro concreta soluzione. In primo luogo, il problema di una visione così performativa del loro lavoro da consentire, squadre minime operative, carichi oltre il consentito, riposi non rispettati, turni senza sosta, massacranti e prostranti, soprattutto di notte, con temperature proibitive ed escursioni formidabili (sessanta gradi nelle stive d’estate e rigori polari sulle banchine d’inverno), che mettono a durissima prova la resistenza degli addetti, come ha dichiarato Marco Manca, della Filt Cgil, a ridosso della tragedia. A questo si associano il mancato riconoscimento del carattere usurante di tale attività e l’equiparazione della stessa, anche a livello previdenziale, a categorie molto meno esposte alla fatica e alla spossatezza. Non si è riuscito neanche ad istituire il più volte sollecitato fondo speciale (la legge 84 del 28 gennaio 1994, che riordinò tutto il settore, spazzò via ogni refuso delle conquiste contrattuali e previdenziali recepite a partire dalla legge 161 del 22 marzo 1967), che consentirebbe, almeno in presenza di determinati requisiti anagrafici e sanitari, uno scivolo pensionistico in grado di lenire almeno le forme più gravi di debilitazione che si registrano in tale ambito produttivo. In sostanza, l’endemico immobilismo di questa vertenza garantisce il viepiù intollerabile peggioramento delle condizioni lavorative, che, in un clima tanto ammantato di efficientismo e rigore imprenditoriale, risentono anche del carattere strategico della logistica portuale rispetto alla ripresa del confronto interimperialistico. Non è casuale il fatto che negli ultimi mesi si siano moltiplicate le forme di attenzionamento e precettazione delle maestranze marittime, visto il volume di traffici che si accompagna agli attuali rigurgiti bellici.
Il fatto stesso che il relatore di un modello di sviluppo fondato sull’annichilimento di qualsivoglia dignità del lavoro rispetto all’onnipotenza del capitale sia individuato come referente e destinatario del dolore per le conseguenze di tale progetto denota l’arretratezza della piattaforma sindacale rispetto alle dinamiche che pretende di interpretare e governare. Chiarisce senza mezzi termini che non si vuole minimamente accettare il fatto che è il perenne attacco ai livelli operativi e salariali dei lavoratori a condannare questi ultimi a una strage senza fine. Che la vulgata cronachistica di un fato crudele e inspiegabile non vuol lasciar spazio all’evidenza di un attacco padronale senza precedenti, pronto a tutto pur di spezzare le gambe a qualsiasi forma di resistenza operaia.
Allo squallore di una scena presepiale di quart’ordine, in cui le responsabilità di una politica prona agli interessi borghesi si saldano alla disciplinata complicità delle rappresentanze che dovrebbero dar voce e corpo al conflitto, si associa il semplicismo ricostruttivo di una visione meramente naturalistica della vicenda, avulsa da qualsiasi consapevolezza della necessità del controllo operaio sulla produzione ai fini del superamento di tale fenomeno. Se la distanza che separa un cadavere dalla matrice ideologica che lo ha schiacciato deve essere percorsa, ha senso che ciò avvenga non con il cappello in mano, con il pavido rispetto di ciò che è statutariamente incriticabile e intoccabile, ma viceversa con tutti i crismi di una critica intellettualmente onesta e di un’autentica lotta per il cambiamento. Non con l’ipocrisia di un avallo incondizionato del reale ma con la forza, tutta comunista, di un progetto sociale al servizio dell’uomo.
Luigi Cerchi