Il sostegno alla causa palestinese sotto attacco anche in Danimarca
Il 25 giugno scorso, con l’eccitazione politica suscitata dalle elezioni europee ormai svanita e gran parte del paese avviato verso le ferie estive, il governo e il parlamento danese (Folketing) hanno raggiunto un accordo per “intensificare gli sforzi contro l’antisemitismo”.
L’accordo prevede una serie di 12 misure che saranno implementate tra l’autunno del 2024 e l’inizio del 2025 ed è stato sottoscritto da tutti i partiti rappresentati in parlamento, dalla destra conservatrice e razzista del Dansk Folkeparti (membro a livello europeo del gruppo Patrioti per l’Europa assieme ad esempio a Lega e Rassemblement National francese) ai socialisti e ai socialdemocratici della prima ministra Mette Frederiksen. Tra i firmatari dell’accordo non manca neanche l’Enhedslisten, il partito di sinistra radicale membro a Strasburgo del gruppo La Sinistra Europea[1] e che aveva incentrato gran parte della campagna elettorale europea[2] sui temi dell’autodeterminazione del popolo palestinese e del rifiuto del massacro israeliano a Gaza.
I punti proposti sono tra loro molto diversificati e accanto a interventi come ad esempio il finanziamento ai viaggi di istruzione scolastici negli ex-campi di concentramento nazisti si trovano misure del tutto discutibili come l’incremento del monitoraggio dei social network e delle piattaforme online e l’aumento delle pene per i “crimini d’odio”. In particolare, secondo l’accordo appena approvato, la polizia avrà il potere di aumentare le pene connesse ai crimini d’odio (contro gli ebrei), tanto in specifiche aree geografiche[3] (si può ad esempio immaginare nei pressi di sinagoghe o centri culturali ebraici) quanto sull’intero territorio nazionale, per una durata “fino a 6 mesi e con possibilità di estensione”.
Il problema sta, come al solito, nel fatto che le categorie di antisemitismo e di “odio contro gli ebrei” sono definite in maniera molto vaga, e si prestano dunque a interpretazioni più o meno larghe a seconda della convenienza. Nel caso della Danimarca, la definizione ufficialmente accettata di antisemitismo è quella prodotta dalla International Holocaust Remembrance Alliance. Quest’ultima è un’organizzazione inter-governativa (autodefinita come internazionale ma molto significativamente composta esclusivamente da paesi europei, Stati Uniti, Canada e ovviamente Israele) che, assieme alla suddetta definizione fumosa ed estremamente generica di antisemitismo, fornisce anche degli esempi di cosa oggigiorno si debba definire come antisemitismo. Esempi che sono invece estremamente concreti e rivelatori. Tre di questi sono, ad esempio: “sostenere che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo”, “applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro stato democratico” o “fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti”.
Secondo queste linee guida, insomma, lo stato di Israele è assiomaticamente democratico (una definizione, questa, dubbia secondo gli stessi parametri della democrazia borghese, a causa del carattere illiberale e teocratico di molte sue leggi[4]) e l’interrogarsi sulle origini storiche di questo stato, le sue modalità di espansione fino ai confini attuali o il paragonare la guerra di sterminio che da mesi l’IDF sta portando avanti a Gaza con i crimini nazifascisti nella seconda guerra mondiale (lo sterminio degli ebrei nei lager ma anche la decimazione sistematica delle popolazioni slave durante l’invasione dell’URSS) sarebbero un atto di antisemitismo. E in quanto tale da punire con ampia discrezionalità attribuita alla polizia ed aumentata severità (non appena, il prossimo anno, l’accordo sarà implementato a livello legislativo). Si può insomma capire molto bene come, per l’ennesima volta, il fenomeno storico dell’odio verso gli ebrei venga pretestuosamente strumentalizzato e l’infamante accusa di antisemitismo usata come una clava per mettere a tacere qualsiasi critica alle politiche e alla natura dello stato di Israele, visto in maniera antistorica e forzata come una cosa sola con l’ebraismo e gli ebrei di tutto il mondo. Un processo che ha come prime vittime i tantissimi ebrei, dentro e fuori Israele, che non ne condividono le politiche genocide e suprematiste, finendo quindi per essere ridicolmente bollati come antisemiti e che rischia, sul lungo periodo, di svuotare di significato e banalizzare il concetto stesso di antisemitismo nel discorso pubblico (in maniera analoga a quanto sta accadendo ad esempio in Italia con le categorie di fascismo e antifascismo, da decenni abusate e distorte in maniera opportunistica dal centrosinistra per questioni di mero consenso elettorale).
Va poi aggiunto come queste misure, che hanno il chiaro intento di criminalizzare la critica alle politiche di Israele, arrivano in un paese sottoposto, in linea con il resto d’Europa, a una martellante propaganda filo-israeliana e che già si caratterizza per episodi di repressione esilaranti nella loro ottusità. Come ad esempio il primo ministro Mette Frederiksen che qualche mese fa si interrogava sulla possibilità di classificare le manifestazioni in sostegno alla causa palestinese come “apologia di terrorismo”, aggiungendo per di più, con chiari accenti razzisti, che chi scende in piazza, perlopiù immigrati mediorientali di prima o seconda generazione, non ha “interiorizzato i valori della società danese”.
Nonostante questo, manifestazioni molto partecipate si susseguono regolarmente nelle principali città danesi dall’inizio dell’attacco israeliano a Gaza, così come picchetti (che si concludono sistematicamente con multe e arresti) davanti alle sedi della Terma (un’azienda di armamenti che produce componenti per i caccia multiruolo F16 utilizzati dall’aeronautica israeliana a Gaza e da quella degli Emirati Arabi nello Yemen) o del colosso delle spedizioni navali Maersk, accusato dagli attivisti di aver trasportato, soltanto dall’ottobre 2023 a oggi, armi americane in Israele per un valore di 2 miliardi di corone danesi (circa 300 milioni di euro).
Il governo e l’intero arco parlamentare (con la partecipazione, è bene ricordarlo nuovamente, della sinistra radicale, a parole filo-palestinese) devono dunque aver giudicato che un’ulteriore stretta fosse necessaria: la vicenda danese è un esempio concreto dell’utilizzo politico della questione dell’antisemitismo, trasposta poi in leggi dello Stato, utilizzata per colpire la mobilitazione in solidarietà della giusta lotta del popolo palestinese.
Di Francesco Cappelluti
[1] Anche noto come GUE/NGL e a cui aderiscono partiti socialdemocratici come Sinistra Italiana, SYRIZA in Grecia e Podemos in Spagna, solo per citare i più noti.
[2] Qui: https://enhedslisten.dk/temaside/enhedslisten-vil-anerkende-palaestina-som-en-selvstaendig-stat/ e qui: https://enhedslisten.eu/nyheder/et-europaeisk-valgloefte-til-palaestina/ alcuni esempi delle dichiarazioni e promesse fatte soltanto pochi giorni prima delle elezioni e subito disattese.
[3] La Danimarca non è peraltro nuova a misure che innalzano le pene per i reati commessi in particolari zone geografiche: un esempio è quello della contestatissima ghettolov del 2018 che, dietro il pretesto di combattere la formazione di quartieri-ghetto alla periferia delle grandi città, abitati in grande maggioranza da immigrati poveri, introduce tra le altre cose la possibilità di punire con maggior durezza i reati commessi in questi quartieri rispetto agli stessi atti commessi in altre aree del paese.
[4] l’assenza di una Costituzione: esistono delle “leggi fondamentali” sui diritti dei cittadini e sui loro rapporti con lo Stato, che sono però promulgate con procedura da leggi ordinarie; l’ambiguità sulla questione del laicismo (il matrimonio religioso è l’unico riconosciuto ufficialmente, ad esempio) oltre ovviamente all’apartheid inflitto ai palestinesi, fatto accertato anche ufficialmente dagli organismi internazionali.