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Home›VPI - Articoli›Disoccupazione: come il capitale rimane a galla durante le sue crisi sistemiche

Disoccupazione: come il capitale rimane a galla durante le sue crisi sistemiche

Di Redazione
11/05/2025
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Da RiktpunKt, organo del Partito Comunista di Svezia (SKP)
5 maggio 2025
Link all’originale

 

La disoccupazione in Svezia è alle stelle: a febbraio era del 9%, rispetto all’11% durante la crisi degli anni ’90 e al 25% degli anni ’20. Si può parlare di disoccupazione di massa? O forse è solo disoccupazione ordinaria? Il ministro del Lavoro, Mats Persson, evita la questione dicendo che non esiste una definizione accettata del termine, quindi non sa come chiamarla, e non vede nemmeno un dramma incombente nel mercato del lavoro.

Ma ognuno dei 600.000 disoccupati sa che questo è un disastro. E lo sa anche ognuno dei circa 130.000 giovani tra i 16 e i 29 anni che non lavorano né studiano. La maggior parte dei politici, tuttavia, non è felice come il signor Persson, perché sa di dover rassicurare la gente.

Di conseguenza, quando i leader dei partiti discutono, spesso si tratta di “rimettere in moto l’economia”. I partiti di sistema all’opposizione, solitamente definiti “la sinistra”, oggi parlano di investimenti nella formazione professionale e nel sostegno agli investimenti quando vogliono guadagnare voti dai partiti del Tidö[1]. Tutto ciò può suonare bene, preferibilmente quando viene presentato in relazione all’aumento degli assegni familiari e a importanti iniziative sociali – ma si tratta davvero di quelle cose che ognuno vede come necessarie nella società e che finalmente stanno per essere realizzate? Si devono costruire alloggi di qualità e a portata di tutti, si devono aumentare gli insegnanti per ridurre le classi scolastiche e migliorare la vita nelle case di riposo? La silvicoltura dolce, con un maggior numero di lavoratori, dovrebbe eliminare gradualmente le grandi macchine per il disboscamento?

No, si tratta in realtà, in modo del tutto brutale, di aumentare la produzione per accrescere i profitti. I disoccupati devono essere adattati alle esigenze del capitale, e i capitalisti devono ricevere denaro da investire in nuove imprese – denaro che viene prelevato dal popolo lavoratore attraverso il sistema fiscale. E al popolo viene lasciato qualche spicciolo in più per consolarsi con un po’ di consumo. Il denaro verrà pompato là dove serve di più agli interessi del capitale.

Questo viene già fatto, ad esempio nell’industria bellica, senza che i media ne discutano come fossero misure per il mercato del lavoro. Questo è quanto scrive il giornale socialdemocratico Arbetet: la Saab è in piena espansione in borsa, la Bofors sta assumendo nuovo personale e le richieste di produzione di armamenti stanno aumentando in “un afflusso senza precedenti”. È primavera per l’industria della difesa svedese. Qui non manca di certo il sostegno statale: l’economia gira, e bisogna davvero cercare a lungo per trovare un’industria più disumana di questa.

Inoltre, la disoccupazione viene occultata tramite varie misure che non vengono classificate come politiche del lavoro. I rifugiati non avranno più diritto a permessi di soggiorno permanenti, il che li rende meno appetibili sul mercato del lavoro e forse li spingerà a lasciare il Paese, mentre i loro figli, una volta raggiunta la maggiore età, verranno rispediti nel “paese d’origine” che non hanno mai visto – così da non pesare sulle statistiche. Tutto ciò contribuisce ad abbassare i numeri ufficiali della disoccupazione, ma non è questo l’unico obiettivo. Queste misure vengono anche propagandate come necessarie per una “integrazione” vagamente definita, così da indurre i lavoratori svedesi a incolpare i propri compagni immigrati per la situazione attuale.

Così il capitale resta a galla

È così che il capitale riesce a restare a galla durante le sue crisi sistemiche. Si tutela il profitto licenziando lavoratori e, ad esempio, automatizzando o delocalizzando la produzione laddove la manodopera è più economica e più docile. Lo Stato al servizio del capitale investe nell’industria bellica con massicci finanziamenti, perché sa che, prima o poi, dovrà garantirsi nuovi mercati per i propri prodotti – e anche la guerra in quest’ottica è redditizia: c’è un bisogno costante di nuove armi. Si chiedono sussidi per avviare nuove produzioni di vario tipo e, con quei soldi, si creano impieghi temporanei con scarsa sicurezza sul posto di lavoro (basti guardare a Northvolt). E se non funziona, si chiude tutto e si prova altrove, con nuovi fondi.

Allo stesso tempo, si portano avanti discussioni separate su questioni che in realtà sono strettamente legate alla disoccupazione. Si pensi alla politica migratoria e d’asilo, già menzionata, ma possiamo prendere anche la violenza delle gang come altro esempio. Com’è possibile discutere di queste cose facendo finta di non vedere quanto siano collegate? Avere un’istruzione adeguata, trovare un lavoro e sentirsi parte di una comunità rappresentano una buona protezione contro l’essere risucchiati in una cultura della violenza. Ma un numero spaventoso di giovani sa che non avrà mai nulla di tutto questo. E sa che ciò che la società considera come segno di successo – denaro e potere – per loro non sarà mai raggiungibile per vie legali. L’unica cosa che alla fine resta loro possibile è la violenza, seguita da misure repressive: sorveglianza, carcere, espulsione, se non sono svedesi etnici.

Invece di una politica contro la disoccupazione, si discute di misure più repressive, e vengono introdotte pene più severe per la criminalità legata alle gang – un insieme di provvedimenti che, scientificamente parlando, si è dimostrato inefficace. Una cortina fumogena, insomma, per distogliere lo sguardo della classe operaia da coloro che sono stati sacrificati sull’altare del capitalismo.

Non intendiamo dare il nostro contributo al formicaio capitalista

Ma allora, cosa bisognerebbe fare? I comunisti sono forse eterni brontoloni, che se ne stanno ai margini della società a lamentarsi e basta? Non dovremmo forse cercare di migliorare le politiche qui e ora, dare il nostro contributo per invertire i dati sulla disoccupazione, l’inflazione e tutto ciò che non va?

A questo rispondiamo con forza e con fierezza: NO, non daremo il nostro contributo al formicaio capitalista[2].

La disoccupazione in un mondo in cui c’è così tanto da fare, il carovita in un sistema in cui ricchezze inimmaginabili vengono accumulate dalle classi agiate o investite per la distruzione dell’umanità nella guerra, la criminalità in un’Europa dove le persone hanno perso ogni speranza, i confini chiusi in un Paese che ormai non sa nemmeno più cosa significhi solidarietà – nulla di tutto questo può essere risolto all’interno del capitalismo.

Possiamo avanzare rivendicazioni per risolvere questi problemi, ma sappiamo bene che nessuno li risolverà per noi – nemmeno se davvero lo volesse – finché sarà il profitto a governare la produzione, l’organizzazione e il consumo della società. Per affrontare questi problemi, serve un’altra società.

Dunque non ci stiamo lamentando. Ci stiamo organizzando perché sia il popolo a prendere la guida e il potere. Non brontoliamo – ridefiniamo che cosa significa avere status, e che cosa significa avere potere.

Status è essere parte della lotta, stare dalla parte di un mondo migliore in cui lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo venga finalmente eliminato.

E potere è il potere collettivo delle nostre organizzazioni: nei sindacati, nel nostro partito, nella nostra organizzazione giovanile.

 

Note

[1]: La coalizione di centro-destra attualmente al governo – nota del traduttore.

[2]: Gioco di parole sul modo di dire svedese “portare la paglia al formicaio”, che si usa per dire “dare il proprio contributo” – nota del traduttore.

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