L’8 e il 9 giugno si terranno, in concomitanza con le elezioni amministrative, i referendum abrogativi, promossi dalla CGIL, di alcune norme in tema di lavoro, tre delle quali originariamente introdotte dal Jobs Act nel 2016. Insieme a questi, un altro quesito avrà come oggetto le modifiche alla legge sull’acquisizione della cittadinanza italiana per residenti stranieri. Durante la campagna per la raccolta firme, che ha superato le quattro milioni di sottoscrizioni, lo slogan della CGIL ha molto puntato sulle parole d’ordine “per un lavoro stabile, dignitoso, tutelato e sicuro”[1]. Si tratta, certamente, di un’iniziativa politica meritoria e non indifferente e che, se avrà successo nel portare la maggior parte dei lavoratori italiani alle urne, avrà il merito di frenare alcuni degli effetti peggiori nell’ambito del percorso di precarizzazione del lavoro.

Volantini diffusi dalla CGIL con l’invito a votare “Sì” ai 5 quesiti referendari
Questo non significa, tuttavia, né che la volontà politica della dirigenza della CGIL abbia dimostrato di andare a fondo alla questione della precarietà contrattuale né che lo strumento utilizzato dal sindacato sia quello ideale al fine di recuperare pienamente i maggiori risultati delle lotte operaie del secolo scorso in tema di stabilità sul lavoro. Andare a fondo della questione della precarietà contrattuale avrebbe comportato, primariamente, lottare per l’obbligo totale e onnicomprensivo di reintegro in caso di licenziamento illegittimo, per la limitazione dei contratti a termine e “atipici” a pochi casi eccezionali stabiliti dalla legge e per il divieto di qualsiasi tipo di intermediazione privata nella scelta e nell’utilizzo di forza lavoro. Come vedremo, in effetti, non è stato scelto di indirizzare le rivendicazioni verso una critica radicale della deriva storica che, a partire soprattutto dagli anni Novanta, ha smantellato di fatto i punti più avanzati dello Statuto dei lavoratori. Non si è voluto neppure minimamente calibrare la propaganda referendaria approfittando per recuperare un qualche appello all’unità della classe operaia in contrasto con gli interessi del capitale. Questo non è in contraddizione con l’approccio “istituzionalistico” delle lotte dei sindacati confederali che, quando non del tutto appiattiti sulla retorica interclassista dei governi di volta in volta in carica[2], hanno promosso sempre delle forme di lotta non realmente aspre e conflittuali, non concretamente di classe ma, piuttosto, simboliche, di settore, con modalità “civiche” e di “testimonianza”. Emblematico, in questo senso, è stato lo slogan della CGIL “il voto è la nostra rivolta”: un tipo di comunicazione che dimentica come, ad esempio, lo Statuto dei Lavoratori abbia dovuto attendere quasi due decenni e l’esplosione delle lotte operaie e dell’autunno caldo per essere discusso in Parlamento e che, quindi, il voto non possa mai essere “conflittuale” nella cornice dello Stato borghese.
Discuteremo quindi, in questo testo, degli avanzamenti che una eventuale vittoria del sì ai quesiti sul lavoro produrrà e, contemporaneamente, i limiti di queste rivendicazioni sul piano tecnico e storico.
Il contenuto dei quesiti sul lavoro e i loro limiti
Vediamo, innanzitutto, il contenuto dei quesiti ai quali bisognerà rispondere, come spiegati dallo stesso sindacato promotore[3].
Il quesito numero 1, proponendo l’abrogazione di parte del cosiddetto Jobs Act, prospetta il ripristino, per tutti i lavoratori operanti in unità produttive con più di 15 dipendenti, della normativa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nel testo riformato dalla legge n. 92/2012, ossia la regola della reintegrazione nel posto di lavoro nei casi più gravi di licenziamento illegittimo (perché del tutto privi di giusta causa o di giustificato motivo, soggettivo o oggettivo). Come si nota, non si propone anche l’abrogazione della legge 92 del 2012 del governo Monti che aveva già̀ colpito seriamente l’articolo 18, riducendone di molto la portata: la legge Fornero, infatti, aveva introdotto quattro diversi regimi di tutela, graduati in base al tipo di vizio che affligge il licenziamento. Fino al 2012, l’illegittimità del licenziamento per motivo oggettivo era sempre sanzionata – per i rapporti di lavoro rientranti nel campo di applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori – con la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, oltre al risarcimento integrale del danno retributivo e al versamento dei contributi previdenziali per il periodo intercorrente tra il momento del licenziamento e quello della reintegrazione. La riforma del mercato del lavoro del 2012 aveva apportato una prima, sostanziale modifica a questo regime sanzionatorio, introducendo una disciplina che, invece di tutelare in ogni caso la stabilità del rapporto lavorativo, modulava le sanzioni comminabili al datore di lavoro a seconda della gravità del vizio che inficia il licenziamento, limitando la reintegrazione a un novero ristretto di ipotesi. In particolare, il nuovo art. 18 della legge 300/1970, così come modificato dalla c.d. legge Fornero, prevedeva che, in caso di invalidità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice potesse ordinare la reintegrazione del lavoratore in 3 soli casi: allorché accertasse “la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”, in caso di licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, in caso di licenziamento intimato nel periodo di comporto[4].
Con il secondo quesito si è ritenuto di intervenire a tutela dei dipendenti di datori di lavoro con meno di 15 addetti eliminando il tetto massimo (sei mensilità) di indennizzo in caso di licenziamento illegittimo. La stessa Corte costituzionale, del resto, seppur con riferimento ad un’altra norma, aveva recentemente riconosciuto, con la sentenza n. 183 del 2022, che «il numero dei dipendenti (…) non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro…» criticando l’esistenza di un limite uniforme e invalicabile di sei mensilità, applicabile a datori di lavoro – imprenditori e non – che possono rappresentare realtà molto diverse tra loro. L’abrogazione del tetto massimo all’indennizzo consentirebbe al giudice, qualora considerasse il licenziamento illegittimo, di riconoscere una tutela adeguata al lavoratore, in considerazione di diversi parametri (età, carichi familiari, capacità economica dell’azienda), senza limitazioni del quantum. Si noti che il referendum abrogativo non può intervenire per istituire la possibilità di reintegro nei casi di licenziamento illegittimo nelle imprese sotto i 15 dipendenti perché essa non c’è mai stata (l’articolo 18 della legge 300/1970 non si applica a queste aziende) se non per quanto riguarda circostanze particolari – ad esempio, secondo la giurisprudenza recente, nel caso di un licenziamento disciplinare pur senza aver mai ricevuto alcuna contestazione e senza che fosse seguita la procedura prevista dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori[5].

Punto di raccolta firme della CGIL per l’indizione dei referendum
Il terzo quesito, al fine di ridurre la diffusione di lavoro precario che la disciplina attualmente vigente è in grado di alimentare, mira essenzialmente a limitare il ricorso al lavoro a termine reintroducendo la necessaria presenza di una causale giustificativa temporanea disciplinata e prevista dai contratti collettivi per stipulare qualunque contratto a tempo determinato e confermando la durata massima di 24 mesi (fatte sempre salve le diverse estensioni da contratto collettivo in sede assistita). Viene poi confermata la necessità della causale anche nel caso di sostituzione di lavoratori assenti e di proroghe o rinnovi. In questo caso si è evitato il ricorso alla legge dello Stato come normativa per regolamentare i casi leciti di contratto a termine, lasciandola alla mercé della forza negoziale e della volontà politica dei sindacati – che nei casi peggiori di compromissione con la classe padronale producono condizioni estremamente lasche.
Il quarto quesito referendario punta ad estendere in ogni caso la responsabilità civilistico – risarcitoria dell’imprenditore committente, appaltante lavori o servizi, per i danni derivanti dagli infortuni sul lavoro subìti dai dipendenti dell’appaltatore e di ciascun subappaltatore oltre la quota indennizzata dall’INAIL (cosiddetti danni differenziali), attraverso l’abrogazione dell’ultimo periodo dell’art. 26, comma 4, che esclude detta responsabilità per i danni derivanti dai rischi specifici dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici. È una riforma utile ma parziale, perché non mette in discussione l’intero sistema degli appalti e dei subappalti, oltre che il sistema dell’intermediazione in senso generale, come vedremo.
La parabola storica della precarizzazione del lavoro
I limiti di un approccio fondato su un referendum abrogativo alla questione del precariato si evince anche dal fatto che gli elementi che oggi diamo per “scontati” nelle condizioni lavorative dei proletari sono il frutto di una lunga lista di riforme reazionarie realizzate negli ultimi trent’anni, in parallelo con l’istituzione del mercato unico europeo delle merci e dei capitali, l’indebolirsi della conflittualità sindacale e l’aumento dell’ingannevole pratica della concertazione, divenuta via via collaborazione di classe. Abrogare le tre o quattro norme più rappresentative di questo percorso senza mettere minimamente in discussione le condizioni materiali e le istituzioni che le hanno rese non solo possibili, ma necessarie dal punto di vista della competizione capitalistica, resta una soluzione temporanea e velleitaria. Riteniamo opportuno, a questo punto, enunciare le maggiori riforme che, negli ultimi 35 anni, sono state peggiorative nei confronti della qualità della vita dei lavoratori italiani, riforme spesso legate alla volontà e alla necessità di competere, da parte della borghesia italiana, all’interno del mercato unico europeo e della concorrenza inter-imperialista in generale.
Nel 1992 (governo Amato I), innanzitutto, ci fu la completa eliminazione della scala mobile, attraverso un protocollo d’intesa tra l’esecutivo e gli stessi sindacati confederali[6]; l’indicizzazione automatica dei salari ai prezzi venne sostituita dalla concertazione tra – di fatto – sindacati collaborazionisti e padroni. L’obiettivo del capitale italiano era, esplicitamente, quello di dare il colpo di grazia all’inflazione italiana (che, come noto, influenzava la svalutazione della lira) in un contesto nel quale la lira, già parte allora del Sistema Monetario Europeo (SME) (allineamento del valore delle valute antesignano dell’euro) faticava a mantenere credibile il suo valore rispetto alle monete degli altri Paesi – cosa che divenne evidente dopo la speculazione subita dalla valuta italiana a settembre e la sua uscita forzata dallo SME[7]. In questo caso, scaricare la competitività delle merci italiane sui salari divenne la soluzione della borghesia del nostro Paese per mantenere un sistema efficiente per la circolazione dei capitali finanziari come lo SME stesso, un meccanismo adottato poi in maniera definitiva con l’euro, che rese la valuta italiana non più deprezzabile rispetto a quella dei maggiori competitor europei, come la Germania.

Il governo Prodi I (centro-sinistra) approvò nel 1997 il “pacchetto Treu”, che introduceva il lavoro interinale e abrogò la norma secondo cui il lavoro si intende a tempo indeterminato
Nel 1997 (governo Prodi I) fu approvato il pacchetto Treu[8]; esso dispose l’introduzione nel nostro ordinamento del lavoro interinale (oggi somministrazione), con il quale si derogava al divieto di interposizione di manodopera vigente sin dal 1960; si introdussero i contratti Cococo e Cocopro[9]; si abrogò la norma secondo cui il lavoro si intende a tempo indeterminato salvo diverse disposizioni. Tutto questo, e le riforme che seguiranno, furono un tentativo di massimizzare quella debolezza negoziale dei lavoratori necessaria per realizzare la repressione salariale, oltre che un tentativo di ottemperare alla spinta che già allora la Commissione Europea dava al modello di lavoro “flessibile”[10].
Nel 2001 (governo Berlusconi I) venne approvato il DL 368/2001[11]; con esso fu consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. In altre parole, il precariato poté essere giustificato anche dall’attività “ordinaria” dell’azienda.
Nel 2003 (governo Berlusconi I) fu la volta della nota legge Biagi[12]; essa sistematizzò alcune forme di precariato già istituite con la legge Treu e introdusse il contratto di lavoro intermittente (job on call), con il quale l’impiegato/operaio metteva a disposizione del datore di lavoro la propria forza lavoro per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, e quello di lavoro ripartito (job sharing), con il quale un’unica e identica obbligazione veniva ripartita fra due lavoratori legati da un “vincolo di solidarietà”.
Nel 2006 (governo Prodi II) venne alla luce il decreto legge Bersani-Visco sulle liberalizzazioni (DL 223/2006)[13], che danneggiò soprattutto i piccoli professionisti introducendo la giungla del libero mercato e dei ricatti del lavoro salariato a discapito della dignità della professione, con l’abolizione delle tariffe minime, il via libera alla pubblicità e alle società multidisciplinari di professionisti (avvocati e ingegneri più piccoli e sconosciuti che divennero schiavi di chi ha grandi studi o di grandi società). Il pretesto per questa norma fu quello di giungere a un prezzo equo per l’utente, ma in questo caso il mezzo avrebbe dovuto essere, più razionalmente, la gestione pubblica e regolamentata di determinati servizi.
Nel 2011 (governo Berlusconi II) fu emanato il decreto Sacconi[14]; esso previde che accordi collettivi aziendali o territoriali – purché sottoscritti dalla maggioranza delle Organizzazioni Sindacali maggiormente rappresentative, o dalle loro rappresentanze in azienda – potessero derogare a norme contrattuali o anche legislative, con le uniche esclusioni di quelle Costituzionali o Comunitarie. In pratica si diede licenza ai sindacati collaborazionisti di fare accordi peggiorativi per i lavoratori nelle singole unità produttive.
Nel 2012 (governo Monti) fu emanata la riforma Fornero; essa, come abbiamo visto, inaugurò la stagione delle modifiche allo Statuto dei lavoratori per rendere più facili licenziamenti individuali per motivi economici.

Il Jobs Act e il Decreto Poletti sono stati approvati nel marzo 2014 dal governo Renzi a guida PD
Nel 2014 (governo Renzi) il Jobs Act[15], come abbiamo accennato, abrogò del tutto (a parte in casi estremi come il licenziamento discriminatorio) l’ipotesi di reintegro per il lavoratore ingiustamente licenziato. In base alla nuova disciplina attualmente vigente, la reintegrazione resta solo per: i licenziamenti discriminatori, i licenziamenti nulli per espressa previsione di legge, i licenziamenti orali, i licenziamenti in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, i licenziamenti disciplinari in relazione ai quali sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.
Ancora del 2014 (governo Renzi) è il Decreto Poletti. Prima parte del Jobs Act, sancì la cosiddetta “acausalità”: le aziende non ebbero più l’obbligo di specificare il motivo per cui veniva posto un limite temporale al contratto di lavoro. Inoltre, per le aziende con più di 50 dipendenti si ridusse la percentuale degli apprendisti già in forza nell’organico aziendale che era obbligatorio confermare a tempo indeterminato prima che si potesse procedere ad assumerne di nuovi: se la Legge Fornero fissava il tetto ad almeno il 50%, ora il minimo si abbassava al 20%. Nessun obbligo di conferma, invece, per le aziende con meno di 50 dipendenti.
Il decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48 (governo Meloni), è stato convertito nella Legge 3 luglio 2023, n. 85[16]. Per giustificare il contratto precario dopo i primi 12 mesi non sono più necessarie le “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività” e quelle “connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”. Il contratto a termine potrà durare oltre 12 mesi, fino a 24, innanzitutto nei casi previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale e dai contratti aziendali firmati dalle loro RSA o dalla RSU, molto più ricattabili del sindacato nazionale. Il rinnovo senza causali nei primi 12 mesi, parte della legge, consente poi alle imprese di moltiplicare i contrattini di pochi mesi senza giustificarne il motivo. Si tratta della tredicesima riforma sui contratti a tempo determinato dal 2000 a oggi.
La legge n. 203 del 17 dicembre 2024 recante “Disposizioni in materia di lavoro” (cd. Collegato lavoro 2025), sempre del governo Meloni, infine, introduce altre misure che favoriscono l’utilizzo del rapporto di lavoro a termine, come, ad esempio, l’esclusione dal computo dei limiti quantitativi relativi alla somministrazione a tempo determinato di lavoratori dei casi in cui la somministrazione a termine riguardi lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato o lavoratori con determinate caratteristiche, o assunti per determinate esigenze quali svolgimento di attività stagionali o di specifici spettacoli, start-up, sostituzione di lavoratori assenti o di lavoratori con più di 50 anni[17].
Questo elenco, assolutamente non completo, delle disposizioni più recenti a favore del capitale nazionale e del potere negoziale dei padroni rende evidente quanto sia necessaria una lotta drastica che riporti in auge la forza del movimento operaio come soggetto politico distinto e autonomo dalla classe borghese.
La disciplina degli appalti
Come abbiamo accennato, il quarto quesito del referendum interviene nella disciplina degli appalti, estendendo in ogni caso la responsabilità civilistico-risarcitoria dell’imprenditore committente per i danni da infortunio sul lavoro. Si intende così abrogare l’ultima parte dell’art.26, il comma 4, del d.lgs. 81 del 2008, che oggi mette al riparo le imprese committenti dai danni causati dall’attività delle imprese appaltatrici. La questione che diversi sindacati conflittuali si chiedono è perché chiamare i lavoratori a votare su una norma particolare del sistema degli appalti e «non porsi il problema di rimettere in discussione l’intero sistema che abusa di appalti e subappalti, producendo una riduzione dei diritti e delle retribuzioni per milioni di lavoratori?» Se si volesse assestare un colpo incisivo a questo sistema si dovrebbe abrogare innanzitutto «l’art.29 del d.lgs. 276 del 2003 con il quale il governo Berlusconi di allora e il ministro Sacconi trasformarono e liberalizzarono gli appalti, allargandone a dismisura le maglie al solo esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati»[18]. Anche per questa ragione una vittoria dei sì avrebbe effetti molto limitati e non inciderebbe sulla diffusione spropositata del sistema degli appalti.
Anche in questo caso, comunque, senza approfondire troppo questo campo del diritto del lavoro, sarebbe opportuno comprendere come le dinamiche del sistema degli appalti siano solo uno dei segni di una generale tendenza all’intermediazione privata del lavoro che nel tempo ha inasprito significativamente il potere di ricatto degli imprenditori in Italia, a partire dal già citato pacchetto Treu che, per la prima volta dagli anni Sessanta, con lo sdoganamento delle agenzie interinali legalizzava sostanzialmente il caporalato.

Negli anni, l’Unione Europea è stata promotrice della liberalizzazione degli appalti
Occorre ricordare, inoltre, come la liberalizzazione dei subappalti coincida con una delle misure contenute dal memorandum europeo in funzione del Recovery Fund e che la Corte di giustizia europea aveva già imposto un aumento dal 30% al 40% del limite dei lavori subappaltabili[19] considerando ogni limitazione “arbitraria” prima che ne prendesse atto il governo Draghi recependo questa indicazione: tale nuovo limite è stato introdotto dall’art. 1 co. 18 della Legge di conversione del Decreto “Sbloccacantieri” n. 55/2019, mentre nel Decreto cd. “Milleproroghe” (D.L. 31 dicembre 2020, n. 183) esso è stato prolungato ulteriormente. Il fatto che, anche in questo campo, sia stata l’Unione Europea a spingere verso un’ulteriore liberalizzazione della giungla del subappalto e dell’intermediazione privata è completamente coerente con il carattere di classe di questa istituzione, che ha la funzione di spingere verso una sempre maggiore anarchia nel gioco della domanda e dell’offerta della forza lavoro. La “frammentazione” degli appaltatori non serve, infatti, che a deresponsabilizzare la stazione appaltante e la principale ditta appaltatrice, la quale delega ad “intermediari” (che alcune volte spariscono poco dopo) la ricerca di personale, con l’implicito meccanismo di caporalato e precarietà che si viene a formare[19].
Il fatto che anche quando si parla del tema degli appalti i sindacati promotori del referendum non riconoscano alcuna responsabilità all’Unione Europea è un’ulteriore manchevolezza che rende palese il carattere assolutamente non strutturale delle rivendicazioni espresse.
Il quinto quesito e il mondo del lavoro
Vogliamo fare un accenno al quesito che si propone di riportare da 10 a 5 gli anni di residenza necessari in Italia da parte degli stranieri extracomunitari per richiedere la cittadinanza. Innanzitutto c’è da affermare che facilitare l’accesso alla cittadinanza a chi da anni vive e lavora in Italia contribuendo alla società è un obiettivo di civiltà. Essere privi dei diritti politici e di molti diritti civili, come quello di voto e di candidarsi, o di prendere parte ai concorsi pubblici, influisce non poco sulla capacità di “integrazione” di una persona in una comunità.
Ma anche se non è questa l’intenzione politica di chi ha proposto la raccolta firme (il nostro giornale ha riservato critiche serrate agli obiettivi politici di + Europa), la proposta si interseca in maniera strutturale con il tema dello sfruttamento del lavoro, sia del lavoro degli stranieri che dei lavoratori italiani. Infatti, proprio l’assenza di cittadinanza favorisce il ricatto occupazionale degli stranieri extracomunitari, che per mantenere il permesso di soggiorno regolare devono continuare ad accettare qualsiasi trattamento sul posto di lavoro, pena non essere richiamati dal datore di lavoro e l’esclusione dalle quote di immigrazione l’anno successivo – il meccanismo delle quote è strettamente legato alla richiesta dei padroni di poter assumere una certa quantità di manodopera. E questo ricatto, ovviamente, permette ai padroni di abbassare le buste paga per tutti, anche per gli italiani. A questo si aggiunge la limitazione della maggior parte dei sussidi al reddito per gli stranieri, che provoca lo stesso effetto.

L’eventuale vittoria del “Sì” al quinto quesito garantirebbe maggiori diritti a una percentuale rilevante dei lavoratori in Italia
D’altra parte, è falso che gli stranieri aspirino a diventare cittadini italiani per “ottenere assistenza”: essi lavorano mediamente di più rispetto ai cittadini autoctoni (55,9% contro il 43% tra gli italiani). Infatti, pur essendo più basso il tasso di disoccupazione, tra gli italiani incide maggiormente l’inattività. Se infatti tra gli stranieri il tasso di inattività si attesta al 35,7%, tra gli italiani questa cifra aumenta di 17,2 punti percentuali (52,9%). Detto in altri termini, sono gli stranieri che “pagano le tasse per gli italiani”, e non viceversa. Nonostante questo, secondo ISTAT, tra lavoratori di nazionalità italiana e non vi è un differenziale retributivo pari al 13,8%.
Votare Sì al quinto quesito referendario, quindi, non solo è una questione di civiltà e di contrasto a pregiudizi e xenofobia, perché una persona che da anni lavora e contribuisce alla società deve poter usufruire degli stessi diritti degli altri senza alcuna discriminazione, ma è anche un passo verso una maggiore tutela sul lavoro per tutti.
Conclusioni: stabilità del lavoro e lotta di classe
I lavoratori saranno chiamati, l’8 e il 9 giugno, a utilizzare lo strumento referendario abrogativo per smantellare alcune delle peggiori riforme del diritto del lavoro istituite di recente. È chiaro che nel contesto in cui viviamo, in un Paese che ospita oggi quasi tre milioni di lavoratori precari[20] (non contando i lavoratori che fanno un lavoro precario in nero e che, quindi, non sono visibili nelle statistiche) e diverse centinaia di lavoratori part-time involontari, ogni miglioramento anche molto parziale dei termini contrattuali dei salariati può contribuire non poco all’incremento degli standard di vita dei proletari: avere una massa così grande di lavoratori precari, infatti, significa anche un maggiore potere ricattatorio da parte dei padroni nei confronti anche dei lavoratori stabili. Il problema è che, senza andare alla radice delle condizioni strutturali di questa situazione tali risultati non saranno soltanto parziali, ma anche, con tutta probabilità, molto temporanei. Queste condizioni strutturali coincidono, come abbiamo illustrato, in primo luogo, con il carattere estremamente predatorio che il capitale italiano ed europeo hanno assunto all’interno del contesto imperialista del mercato unico, grazie alla sua impalcatura economica e, anche, a istituzioni come la Commissione Europea, che agiscono politicamente per tutelare gli interessi delle borghesie nazionali e armonizzarne gli interessi a livello continentale. Legato a questa situazione, vi è lo storico indebolimento del movimento operaio che, soprattutto negli ultimi quattro decenni, ha limitato sempre di più la conflittualità delle proprie lotte. La ricostruzione di un punto di riferimento politico rivoluzionario per i lavoratori, che li metta in guardia da ogni illusione riformista e che li coordini e li indirizzi verso una contestazione e un boicottaggio a tutto tondo del sistema capitalista nella fase imperialista odierna, coincide perciò con la condizione fondamentale affinché i padroni possano, innanzitutto, sentirsi minacciati al punto da cedere su molti dei diritti che per i proletari sono cruciali.
Note
[3]: https://lazio.cgil.it/referendum-cgil/#1714163633925-3b082019-3bd8
[6]: https://it.wikipedia.org/wiki/Scala_mobile_(economia)
[8]: https://it.wikipedia.org/wiki/Pacchetto_Treu
[9]: Cococo è un acronimo che sta per “collaborazione coordinata e continuativa”. Si tratta di un tipo di contratto di lavoro parasubordinato, a metà strada tra il lavoro autonomo e il lavoro dipendente. Questo contratto prevede che il lavoratore svolga una prestazione continuativa e coordinata con il committente, senza essere soggetto a vincoli di subordinazione. Il Cocopro è un tipo di contratto di lavoro autonomo che, in passato, prevedeva che il collaboratore svolgesse un’attività di natura prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, per la realizzazione di uno o più progetti specifici stabiliti dal committente. Questo tipo di contratto è stato poi abrogato dal Jobs Act.
[10]: https://moodle.adaptland.it/pluginfile.php/5638/mod_resource/content/0/696DOSSIER_07_9.pdf
[11]: https://www.parlamento.it/parlam/leggi/deleghe/01368dl.htm
[12]: https://it.wikipedia.org/wiki/Legge_Biagi
[13]: https://it.wikipedia.org/wiki/Decreto_Bersani-Visco
[14]: https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legge:2011;138~art8-com3bis
[15]: https://it.wikipedia.org/wiki/Jobs_Act
[16]: https://temi.camera.it/leg19/provvedimento/d-l-48-2023-decreto-lavoro.html
[20]: https://www.ticonsiglio.com/quanti-sono-precari-italia-2024/#google_vignette