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Home›Terza pagina›Musica›Dalton, sottocultura proletaria e rock & roll

Dalton, sottocultura proletaria e rock & roll

Di Redazione
06/06/2020
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Dalton

Dalton - PapillonUscito a maggio il nuovo disco Papillon per Hellnation Records

Noi, se sa, ar Monno semo ussciti fori
impastati de mmerda e dde monnezza.
Er merito, er decoro e la grannezza
sò ttutta marcanzia de li Siggnori.

A su’ Eccellenza, a ssu’ Maestà, a ssu’ Artezza
fumi, patacche, titoli e sprennori;
e a nnoantri artiggiani e sservitori
er bastone, l’imbasto e la capezza.

Cristo creò le case e li palazzi
p’er prencipe, er marchese e ’r cavajjere,
e la terra pe nnoi facce de cazzi.

E cquanno morze in crosce, ebbe er penziere
de sparge, bbontà ssua, fra ttanti strazzi,
pe cquelli er zangue e ppe nnoantri er ziere.

Ecco, basterebbero i versi di Gioacchino Belli scanditi dalla voce di Marco Giallini per riassumere e spiegare il nuovo disco dei grandi Dalton: Papillon.

Tuttavia, questo sarebbe riduttivo perché toglierebbe tutto il fascino del dandy di strada, del sottoproletario, dell’Oliver Twist che si alza in piedi a tavola per chiedere un’altra scodella di minestra. Quel fascino che i Dalton ci hanno sempre raccontato.

Di storie così ne abbiamo sentito già parlare tante volte, pure nei libri di Valerio Marchi, nello specifico in Teppa: storia del conflitto giovanile dal rinascimento ai giorni nostri. Le abbiamo vissute e viste coi nostri occhi.

Sono storie di “ragazzi come noi” che escono dai vicoli bui di una città, vestiti di tutto punto pronti per la “meglio serata”. I Dalton, in questo film fatto di fotogrammi sbiaditi, ci mettono la loro colonna sonora.

DALTON - LiveTutti a questo punto si aspetterebbero di sentir uscire dalle casse il fruscio di un vinile Oi! perché l’attitudine e i testi, la loro storia e la loro vita è quella degli Skinheads della capitale. Invece no. Questo è rock & roll come Cristo comanda, denso di blues all’ennesima potenza, serrato e coinvolgente, con un retrogusto di band rock con aggiunta di tastiere, armonica a bocca e sax. Jerry Lee Lewis e Chuck Berry sono parte del DNA del gruppo. Insomma, si scava negli anni ’50 e ’60 a piene mani. Con la partecipazione di quelli con cui tante volte hanno diviso il palco (Gli Ultimi, Shots in the dark, Lenders), hanno tirato fuori un disco strepitoso.

C’è in questo disco uno spaccato di società che nessuno vuol vedere e sentire perché scomodo. Nessuno vuol occuparsi, né a destra né a sinistra dei reietti della società, di sottoproletariato, di gente che campa alla giornata. Ma queste persone esistono, stanno dietro le quinte del teatro, pronte a uscire fuori col vestito buono e il cappello in testa per fare la riverenza e mandare il pubblico a quel paese.

Detto ciò che questo disco rappresenta dal punto di vista “politico”, pur essendo il frutto di un gruppo che la politica non l’ha mai sopportata, è bene soffermarsi sulla cura maniacale riservata ai testi, mai banali e scontati: sembrano a volte quelle storie sentite raccontare fuori da un bar in piena notte, sotto la pioggia, da un tizio incontrato per caso, o forse no, che la storia vuole raccontartela fino alla fine, pure se ti stai “bagnando il vestito”. Oppure sembrano il racconto dell’operaio che si avvita tra morte, bellezza e sogno… il solito sogno interrotto dalla sveglia per andare al lavoro.

Non c’è un pezzo che sia scollegato completamente dall’altro e neppure dai pezzi degli altri dischi dei Dalton. Esempio lampante sono le analogie tra “La classe operaia resta all’inferno” e “Sottoproletariato”: qui non si danno soluzioni, non ci sono rivoluzioni o rivalse dietro l’angolo, non si fomenta la folla istigando alla rivolta perché alla povertà e alla disperazione non c’è antidoto.

DALTON Band

Visto che soluzioni per il sottoproletario non ce ne sono o non si vedono, non ci resta che sederci sul solito gradino, fumarci una sigaretta e brindare al prossimo giorno di merda. Il disco non è la novità del secolo, che tra l’altro nemmeno volevamo. Potrei metterlo quasi tra quelli che mio padre ascoltava col mangiadischi portatile e non trovare grandi differenze di stile.

Ma sta benissimo tra i miei dischi Oi! Perché è quello che è: un disco Oi! Che parla di gente Oi! Ma suonato con tutti i caratteri e la minuziosità di cui la musica Oi! è priva. Per il resto non resta che andare di nuovo a sentirli dal vivo.

P.s. elemento esterno fondamentale è il 45 giri “Ci siamo persi ” sempre dei Dalton. Senza quello al disco Papillon manca una canzone. Grandissimi.

di Nicola Billai

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