Capovilla racconta il suo nuovo progetto e il ruolo dell’artista
Pierpaolo Capovilla, che ringraziamo ulteriormente per la disponibilità, è uno dei più ispirati cantautori italiani, noto ai più per essere stato il frontman de “Il Teatro degli Orrori”, una delle più affermate e coraggiose rock band italiane degli ultimi vent’anni. Durante la sua carriera artistica si è spesso esibito anche in letture sceniche di vari poeti, primo tra tutti Majakovskij. Capovilla, infatti, oltre ad essere un brillante cantautore e un artista eclettico, ha sempre avuto una spiccata sensibilità politica, come emerge dai suoi testi e, soprattutto, dal suo impegno. Un artista sempre in prima linea a favore delle cause delle classi popolari e degli oppressi. Abbiamo voluto fare una chiacchierata con lui a riguardo dei suoi prossimi progetti artistici ma anche, e soprattutto, dell’attuale situazione politica.
Ciao Pierpaolo, partiamo subito dalla musica. Abbiamo visto che di recente hai iniziato a parlare del tuo prossimo progetto musicale, il gruppo “I Cattivi Maestri”. La curiosità è tanta: puoi dirci qualcosa di più? Cosa dobbiamo aspettarci dalla tua prossima creazione musicale?
Il gruppo si chiamerà Pierpaolo Capovilla & I Cattivi Maestri. È un nome che è un po’ una citazione e fa il verso a Nick Cave & The Bad Seeds. Speriamo ci porti fortuna. Ma è anche una metafora, una doppia allegoria. Come sappiamo con l’espressione “cattivo maestro” generalmente ci riferiamo alla figura dell’intellettuale scomodo, quello che combatte il potere e le sue istituzioni. L’ultima volta che ho sentito questa espressione riferita a qualcuno, si trattava di Erri De Luca, per le sue posizioni contro la TAV e a favore dei sabotaggi. Ma il “maestro”, in musica, è colui che conosce l’armonia. In questo caso, l’aggettivo “cattivi”, suggerisce che nel gruppo non ci siano musicisti seriamente preparati. Se ben ricordo, era Claudio Magris che ci suggeriva che l’ironia è un atto d’amore e libertà, è un aiuto a riconoscere i nostri limiti. In questo frangente il mio manager sta discorrendo con le etichette discografiche, anche con le major. Vedremo come andrà a finire; anche se il momento storico non è il più propizio per il rock, sono fiducioso. Perché sarà un disco Rock: massimalista, senza concessioni alla commercialità, fitto di chitarre anche inusuali o disarmoniche (Egle Sommacal è un ‘poeta’ della chitarra elettrica, eclettico e innovativo come nessun altro, io credo, in Italia), bassi roboanti, e una batteria furiosa. Dal punto di vista narrativo sto cercando di portare alle estreme conseguenze la mia vena letteraria. Il tema dominante sarà la guerra, quella dei missili guidati e delle pallottole vaganti, del petrolio neo-coloniale, dei civili inermi di fronte al tuono delle armi, ma anche quella interiore, fatta di gelosie patriarcali, incomunicabilità, rammarichi, e interminabili solitudini.
Insomma, l’album sarà un gran bel punto e accapo. La copertina poi… Se tutto andrà come desidero conterrà una rappresentazione ‘sacra’ della falce e del martello, dipinta da Vasco Hadzovic, un giovane pittore di etnia Romanì. Dopo tutto – parlo per me e non per il gruppo nel suo insieme – io sono orgogliosamente cristiano ed altrettanto orgogliosamente comunista, con buona pace di coloro che asseriscono si tratti di una contraddizione insanabile.
Negli ultimi mesi il mondo è stato travolto da una pandemia senza precedenti, capace di stravolgere la nostra routine e far cadere dei dogmi che si consideravano intoccabili. Durante la quarantena Rolling Stone ha pubblicato una tua interpretazione davvero suggestiva di un potente pezzo di Piero Cipriano. All’interpretazione è allegata una tua riflessione molto interessante sulla nostra società, i suoi dogmi e il suo modello produttivo. Come hai vissuto questo drammatico periodo? Quali criticità pensi siano emerse a causa della pandemia?
Il così detto lock-down è stato terrificante. Credo il momento più brutto e sofferente di tutta la mia vita. Notti insonni, stati d’ansia potenti e permanenti, momenti di panico, abuso d’alcool quotidiano, una sensazione di vuoto intellettuale mai provata prima, e un sentimento interiore di fragilità che non conoscevo.
Grazie al cielo ho una compagna che è molto più forte di me, e che mi ha aiutato a non sprofondare nella paranoia. Venezia, la città in cui vivo, non l’avevo mai vista così. Turismo azzerato da un giorno all’altro, e questa circostanza devo ammettere non mi dispiaceva, anzi. Ma come si è azzerata la grottesca massa informe degli androidi globali, anche i miei spettacoli sono stati tutti annullati, e proprio in un momento di difficoltà economiche piuttosto serie. Durante il lock-down ho avuto modo di discutere appassionatamente di crisi del modello socio-economico con i compagni di partito, in particolare con Giorgio Langella, segretario regionale del PCI, a cui sono molto legato. Affiorava nelle discussioni anche un certo entusiasmo. Ci dicevamo, chissà se questo periodo non possa servire a comprendere in quale assurdo stato di cose insistano le nostre esistenze. Perché se è sufficiente un virus influenzale per spingere ad una crisi sistemica il capitalismo contemporaneo, allora, forse, possiamo incominciare a riflettere più approfonditamente dei suoi limiti e delle sue profonde inadeguatezze, nella speranza di poterli superare. Sarebbe ora.
Purtroppo temo e temiamo che il capitale si dimostrerà più scaltro che mai e, approfittandosi delle nuove circostanze, riuscirà a dominarci anche più di prima.
Uno dei mondi maggiormente colpiti dall’impatto economico e sociale della pandemia è stato proprio quello dell’arte, della musica e dello spettacolo. Migliaia di persone si sono mobilitate fin da subito in tutta Italia per far emergere la loro voce. Non solo artisti, ma anche tecnici del suono, operatori, lavoratori del settore. Insomma, tutti coloro per cui l’interruzione degli spettacoli ha rappresentato una vera e propria tragedia, non avendo garanzie economiche alle spalle. Da musicista e artista a 360 gradi avrai avuto sicuramente modo di toccare il problema con mano. Qual è il tuo pensiero a riguardo?
Come ti dicevo, sono stato personalmente colpito in pieno dal problema. Come me e più di me tecnici e operatori dello spettacolo. Rappresentiamo una categoria di lavoratrici e lavoratori non ancora pienamente riconosciuta come tale. Lo stesso presidente del consiglio è scivolato in quella battuta “ci fanno divertire”. Una battuta infelice ma rivelatoria. Ricordo anche un certo Tremonti, che affermava serafico che “con la cultura non si mangia”. Buffa affermazione, in un paese in cui arte e cultura sono il cuore della storia e della tradizione, ed hanno, senza la più piccola ombra di dubbio, un valore economico enorme.
Il fatto è che chi si occupa di musica, teatro e spettacolo in genere sembrerebbe non essere considerato pienamente un lavoratore. È passata l’idea, tipica della falsa coscienza capitalistica, che lo spettacolo sia un hobby, e che il ‘lavoro’, quello vero, sia soltanto il lavoro regolarmente retribuito, quello dello sfruttato, quello della fabbrica e dell’ufficio.
Comunque sia, a differenza che in altri paesi europei, come per esempio la Francia, in Italia non c’è tutela adeguata per gli artisti e per i lavoratori e lavoratrici dello spettacolo. Ci dobbiamo arrangiare come possiamo, spesso facendo altri lavori e lavoretti sottopagati e precari, qualsiasi essi siano.
Prima del successo, del tutto inatteso, de Il Teatro degli Orrori, io lavoravo in ristorante. Facevo il cameriere, il barista, il cuoco. Suonavo anche una sessantina di concerti all’anno che comunque non mi consentivano di arrivare alla fine del mese. Davvero defatigante. Ma ero più giovane, ed ero entusiasta. Le forze le trovavo, volente o nolente. Ma che faticaccia, santiddio.
Qualche mese fa ti abbiamo visto partecipare attivamente, insieme a tantissimi altri artisti, alla campagna #Cubarespira lanciata dal Fronte della Gioventù Comunista, per denunciare la condotta del governo statunitense, volta a impedire l’acquisto da parte del governo cubani dei ventilatori polmonari necessari per i malati di COVID. Una campagna che è stata supportata anche dal nostro giornale, che aveva denunciato la situazione. Tu sei un artista che non ha mai paura di esporsi e di combattere in prima linea per le cause che ritiene giuste. Abbiamo notato come la partecipazione e la denuncia da parte tua e di tanti altri artisti abbia effettivamente portato all’attenzione di centinaia di migliaia di persone un problema sconosciuto che riguardava chi ci stava aiutando nel momento di massima criticità. Un dato in controtendenza, in un contesto in cui, nonostante una sempre maggiore crisi economica e sociale, gli artisti tendono a disimpegnarsi e a non schierarsi, per non dare “fastidio” a nessuno. Alla luce di ciò, vorremmo chiederti quale dovrebbe essere, secondo te, il ruolo di un artista rispetto alle cause dei più deboli e degli oppressi, all’interno della nostra società?
Lungi da me la figura dell’intellettuale organico di gramsciana memoria, purtroppo ormai fuori tempo massimo, credo che un artista al passo coi tempi debba porsi il più semplice degli interrogativi. Che senso ha quel che sto facendo? A questa domanda, così ovvia da sembrare infantile, devo dare una risposta.
Nella mia esperienza ho compreso che il successo (qualsiasi successo, grande o piccolo che sia) può spingerti verso una via dominata dall’autoreferenzialità del piacere di vivere fine a se stesso. Nulla di nuovo in tutto questo. Dopo tutto il rock è la “musica del diavolo”. È il dionisiaco che si impadronisce di ogni impulso apollineo. Il disordine come stile di vita, radicalmente avverso a qualsivoglia forma di ordine. C’è di che impazzire, quando il palcoscenico ti spinge verso il precipizio del disordine. Interiormente ti senti nel giusto, perché ti senti finalmente fuggito dalla prigione della borghesia. Ho amato quei momenti, quelli nei quali ti senti repentinamente padrone di te stesso e ti sembra di padroneggiare il mondo.
Ho spesso affermato: il palcoscenico è un momento di vita vera, perché finalmente vissuta fino in fondo; è quando torni a casa e ti impoltronisci davanti alla tv, quando vai in ufficio a far di conto, o in fabbrica a menar bulloni, che muori, lentamente e inesorabilmente.
Ci credo ancora a quella provocazione. Ma non basta.
Perché è giusto godersi la vita, ma il godimento, lo sperpero, la vita nel qui ed ora, e chi s’è visto s’è visto, è anch’esso un esercizio dell’ideologia del potere, proprio quel potere che credi di combattere con il dileggio e lo sberleffo. Nel migliore dei casi diventi, parafrasando Shakespeare, un povero attore che si dimena sul palcoscenico e poi scompare, da qualche parte, nel labirinto della sua vita, e non se ne sente più parlare; nel peggiore, diventi un pagliaccio senza senso, un utile idiota, un servo del sistema dello spettacolo.
Majakovskij mi venne in soccorso.
Riscoprii la sua poesia all’improvviso, forse per caso.
Lo lessi da ragazzo, senza capirci un’acca.
Da adulto ne compresi la forza palingenetica.
Stavo scivolando nel cinismo menefreghista che caratterizza la nostra contemporaneità, e Majakovskij mi aprì gli occhi, come un Cristo salvatore, restituendomi quel sentimento politico che avevo da ragazzo, e che avevo scordato nel tempo crudele della sussunzione capitalistica della mia stessa esistenza.
È proprio questo il punto: il capitalismo ‘sussume’ tutto, i nostri pensieri, i nostri desideri, le nostre ambizioni, le nostre idee, i sogni, gli incubi, tutto. Sussume l’amore e l’odio, la stima e il disprezzo, l’amicizia e l’inimicizia. Ci prende per il collo, non per il culo, e ci ordina di obbedire, trasformandoci in servi, schiavi della contemporaneità.
Majakovskij, e con lui Esenin, mi ha cambiato la vita. Posso dire oggi, con una punta di orgoglio, di considerarmi un comunista majakovskista, mi si permetta il neologismo. Me ne infischio dei dibattiti fra leninisti e trozkisti e maoisti e chegevariani. La poesia, che abbiamo dentro di noi, è una preghiera esaudita.
Mi guardo intorno e non vedo che servi.
Tramontata l’era del cantautorato e della sperimentazione, e poi anche quella dell’impegno antagonista, del rock in Italia non è rimasto niente. È uno strazio, goffo e inutile, quel che osservo intorno a me.
Allora, torno all’interrogativo: che senso ha quel che faccio? E alla risposta, che ad un certo punto della vita diventa necessaria.
Faccio quel che faccio per il popolo, non per me stesso. Per cambiare le circostanze storiche nelle quali insistono le nostre vite, e quelle dei nostri figli.
Ma questa non è che una parte, pur necessaria, della risposta.
Perché oggigiorno è necessario schierarsi, se non vogliamo che il paese scivoli, di nuovo, nell’incubo fascista. Lo dobbiamo fare ogni giorno e caso per caso.
Quando un ministro della Repubblica ci suggerisce che dovremmo schedare gli zingari, dimentica che non si chiamano così, si chiamano Romanì, sono una minoranza etnica e vanno tutelati, non perseguitati. L’unico modo per risolvere il problema del crimine legato a questa minoranza, è cercare di integrarla al consorzio umano nel segno della dignità e del rispetto, non dell’assimilazione. Allo stesso modo, i migranti non vanno stigmatizzati e privati della possibilità concreta di vivere con noi, devono essere aiutati in un percorso di integrazione democratica. I porti vanno aperti, non chiusi. I naufraghi salvati, non sterminati nel disinteresse delle movide e degli aperitivi. È tempo di reagire.
Potremmo continuare il discorso all’infinito, tante sono le clamorose ingiustizie e prevaricazioni che vengono quotidianamente inferte nei confronti della povera gente. È necessario, oggi più che mai, cambiare registro.
Il ruolo di un artista rispetto alle cause dei più deboli e degli oppressi, all’interno della nostra società, deve avere la funzione di risvegliare le coscienze assopite, e di indurle verso un percorso, nuovo ma non inedito, di mutamento radicale delle condizioni storiche.
Majakovskij scriveva “di noi, ogni altro abitatore della terra è parente (…) Tutti, fra i macchinari, per gli uffici, nelle miniere, siamo fratelli”
Amo, e lo amo perdutamente, questo verso. Per come la vedo io la solidarietà è un concetto ormai insufficiente e inadeguato. Ci vuole di più: dobbiamo riaffermare il concetto della fratellanza. La solidarietà ci dice che dobbiamo aiutare il più debole e l’oppresso, la fratellanza ci dice che dobbiamo anche proteggerlo.
Intervista a cura di Enrico Bilardo