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Rispondere alla crisi abitativa con i pugni chiusi: centralità e trasversalità rivoluzionaria nel movimento per l’abitare

Di Redazione
08/06/2025
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Di Eva García de Madariaga, da Nuevo Rumbo, organo del Partito Comunista dei Lavoratori di Spagna (PCTE)
16 maggio 2025
Link all’originale

 

Lo scorso 5 aprile, nelle città di tutto il Paese, la classe operaia e i settori popolari si sono mobilitati per il diritto alla casa. Non c’è da stupirsi: l’impossibilità di accedere a uno spazio in cui vivere indipendentemente dalla propria famiglia o dal proprio partner, soprattutto per i settori più vulnerabili della nostra classe, è un dato di fatto. I salari non bastano a pagare l’affitto, né l’accesso alla proprietà, attraverso un mutuo, è un’opzione realistica per molti. Siamo costretti a condividere appartamenti: con i nostri genitori, con il nostro partner, con estranei, in case sempre più piccole, in condizioni di abitabilità peggiori e, comunque, più costose. Perché gli affitti e i prezzi delle case non hanno smesso di crescere.

Il problema si presenta nelle nostre vite sotto forma di violenza. Non possiamo semplicemente vivere: il nostro presente è un circuito frenetico che si snoda tra lavoro temporaneo e precario, disoccupazione e incertezza abitativa. Quelli di noi che vivono di lavoro sopravvivono a malapena tra insicurezza e paura (della reazione, della guerra) e non ci viene garantita nemmeno una casa decente. La legge sulla casa[1] non ci serve a nulla: favorisce e alimenta una situazione in cui i grandi proprietari possono continuare a speculare sui prezzi delle nostre case. Quelle che oggi si vedono negare un posto dove vivere sono le generazioni cresciute durante la crisi del 2008, dopo il cui scoppio – catalizzato dalla bolla immobiliare – gli sfratti ipotecari, i licenziamenti, e la violenza della polizia  erano un fatto quotidiano nel nostro Paese. In quegli anni si sentivano slogan nelle piazze e i telegiornali aprivano con immagini di manifestazioni. Le mani aperte erano il simbolo di quel periodo.

Il simbolo di un’epoca contraddittoria, ricca di lezioni da imparare, alla cui guida politica stavano coloro che dicevano che per articolare una proposta di maggioranze contro la crisi non si poteva parlare di lotta di classe; che svuotavano la parola egemonia di tutta la sua operatività rivoluzionaria per trasformarla nella formula magica per l’irradiazione – altra parola in voga all’epoca – del consenso nel movimento di massa (senza porsi, però, la domanda fondamentale: consenso intorno agli interessi di quale classe). Il soggetto del cambiamento era il precariato: quei giovani a cui era stata promessa una vita in linea con le possibilità della crescita capitalistica, ma che vedevano le loro aspirazioni spazzate via dai venti della crisi. A dire il vero, gli interessi della classe operaia non erano in grado di assumere la guida di quel ciclo di mobilitazioni, né di articolarsi e strutturarsi in un percorso indipendente, con obiettivi propri. E poiché nulla è neutro nella lotta di classe, questa debolezza storica si è tradotta in limiti politici, ideologici e organizzativi che ci hanno fatto camminare sulla scia di quegli strati sociali per i quali un programma di riforme era sufficiente, almeno nel breve periodo. Mani aperte, Stato neutrale, seduzione imperialista, la versione aggiornata di Bernstein, il marxismo mutilato.

Gli ingegneri della mobilitazione sociale di allora sono entrati nei ministeri[2], e i loro eredi (a prescindere da chi ne abbia fatto le spese e nonostante i divorzi parziali[3]) oggi firmano penosamente i crediti di guerra, ci condannano a una precarietà rinnovata e servono i padroni e i rentier facilitando il consenso e la pace sociale. La riconfigurazione accelerata della socialdemocrazia, coerente con i nostri tempi di esacerbata immediatezza, esprime e sintetizza perfettamente il momento politico. Un’altra crisi, la guerra, la sempre maggiore ristrettezza capitalistica che mostra a muso duro il carattere intrinsecamente violento e sfruttatore di questo modo di produzione.

Oggi, quando non ci sono più “chiodi infuocati” a cui aggrapparsi[4], è fin troppo facile parlare di non ripetere gli errori di quel ciclo. Ma la critica al modo borghese, che è esteriore per natura e per principio, rischia di capovolgere solo l’apparenza e ritrovarsi esattamente da dove era partita. Negli ultimi anni la classe operaia ha perso forza, non c’è dubbio: qualcosa avrà a che fare con il ruolo delle dirigenze sindacali che, pienamente sottomesse ai disegni dei rispettivi leader politici, non hanno esitato una volta a serrare i ranghi con il governo nelle sue politiche antioperaie e antipopolari. Potremmo parlare della necessità di una maggiore organizzazione di base per recuperare questa forza di fronte alla politica elettoralistica; o tornare a quell’ossessione per la politica delle maggioranze vicina al populismo che era così di moda non molto tempo fa negli ambienti universitari. Ma ricadremmo nella superficialità della forma in cui si inserisce quasi ogni contenuto. Tuttavia, la politica non è neutrale. Quindi, finché l’egemonia non sarà un termine che, oltre a farci sembrare stupidi quando lo usiamo, si riferisce, nel linguaggio politico concreto, al potere e alla leadership di classe; finché le tabelle di marcia dei movimenti di massa non saranno mediazioni pensate dalla classe operaia, da e per la classe operaia; finché non si articoleranno ponendo al centro della loro azione la contraddizione attorno alla quale si costruiscono le società capitalistiche, la contraddizione capitale-lavoro, saremo destinati alla ripetizione e, con essa, alla sconfitta.

In questo letargo, disunione, settorializzazione, in cui nuotiamo oggi come classe, è vero che il problema della casa è una delle principali preoccupazioni sociali. È logico che ampi settori popolari si mobilitino perché i nostri amici o conoscenti, i nostri figli, noi stessi, soffriamo per l’accesso a una casa o, piuttosto, per la sua mancanza. Ed è logico che tale mobilitazione, in prima istanza, avvenga nel momento in cui il problema viene presentato, apparentemente separato dalla contraddizione principale. È quindi altrettanto logico che le proposte teoriche, politiche e organizzative subordinate a quell’aspetto abbiano oggi una maggiore proiezione. Ma, in parole povere, gli inquilini di oggi non possono diventare i precari di ieri: l’operatività rivoluzionaria di un concetto sta nella sua scientificità. Ecco perché elevare gli interessi di questo gruppo sociale eterogeneo alla guida del movimento per l’edilizia abitativa nel suo complesso è un errore: perché anche gli interessi di questo gruppo sociale non sono omogenei e c’è il rischio di cedere l’egemonia a quegli strati sociali che si accontentano di risolvere la loro situazione all’interno dei margini capitalistici. Anche se ora criticano la strategia elettoralistica alla luce dell’esperienza.

L’altra strada è quella dell’indipendenza politica della classe operaia: la strada che mette al centro gli interessi della classe operaia. Ma questo richiede un’analisi storica concreta che guardi in faccia la realtà, che collochi il problema abitativo nell’economia politica, che studi in dettaglio la struttura della proprietà in Spagna, che presenti in modo unitario ciò che apparentemente è presentato in dipartimenti o sfere separate: che affermi apertamente che il problema abitativo è un problema fondamentalmente capitalista, che fa dell’abitazione una merce e la cui base materiale è la tendenza alla diminuzione del tasso di profitto. Un problema che, quindi, può essere superato solo se si supera il modo di produzione. Naturalmente, da ciò derivano necessariamente conclusioni strategiche, tattiche e organizzative.

Il primo è che la centralità della classe nel movimento di massa è garantita solo dalla forza materiale, politica e ideologica del movimento operaio. E il problema principale è che la situazione che noi rivoluzionari abbiamo ereditato oggi è tremendamente negativa in questo senso: anni di conciliazione di classe, favorita dai leader opportunisti e dai vertici sindacali, e trasformazioni nella sfera produttiva che erodono le trincee e le posizioni conquistate, portano a un letargo senza precedenti. La facile conclusione, istintivamente borghese, è quella di sfruttare le altre leve della mobilitazione sociale per strutturare la classe al di fuori della sfera produttiva. Sotto questa riflessione, c’è chi trova nella lotta per la casa un luogo politico più permanente e più stabile del luogo di lavoro (sempre più flessibile e ultra-temporaneo) in cui organizzare politicamente la classe come necessaria mediazione del processo di accumulazione delle forze. Una conclusione piuttosto seducente per i vari estremi dell’opportunismo politico.

La tattica che governa la strategia, se partiamo dal presupposto che la rivoluzione socialista richiede il controllo di massa della produzione per costruire la società futura. La conclusione eternamente opportunista di rimandare i compiti rivoluzionari. L’immediatezza e l’urgenza si contrappongono alla pazienza rivoluzionaria – non all’autocompiacimento. Questo errore di fondo, inoltre, comporta gravi distorsioni pratiche, perché rinunciare a privilegiare l’intervento nel nervo della produzione capitalistica, dove la classe è strutturata in modo omogeneo come classe produttrice e necessaria, può portare – e di fatto ha già portato – a cercare l’omogeneità dove non si può trovare, a non dare per scontato che in certi ambiti della vita sociale il soggetto da organizzare è necessariamente eterogeneo nella sua composizione di classe; e che la grande vittoria rivoluzionaria è proprio la sua articolazione sotto la bandiera proletaria, attraverso il Partito Comunista (di Nuovo Tipo[5], nel caso ci fossero dubbi). Quindi la seconda conclusione organizzativa è che la situazione di debolezza delle nostre forze può essere affrontata solo con intelligenza strategica: attraverso lo studio concreto del capitalismo contemporaneo e il riconoscimento della struttura sociale che aspiriamo a trasformare, per dedurne le forme organizzative e di lotta necessarie.

Se nel prossimo ciclo di mobilitazione il movimento per la casa, le forme di resistenza e lotta operaia e popolare che si articolano nei nostri quartieri, riconoscono di fatto la centralità del movimento operaio, se si incamminano sulla strada della sua ricomposizione politica e organizzativa, se avanzano nella definizione di un programma proprio e indipendente (contro la guerra imperialista, contro l’alto costo della vita e la flessibilizzazione del lavoro e per l’unità di tutta la classe operaia contro il capitalismo e la reazione), se si stabiliscono sinergie che collegano di fatto e nella pratica politica la lotta per i salari e contro l’alto costo degli alloggi, se tutto questo si traduce in un rafforzamento anche in termini di strutturazione, allora avremo fatto progressi nei nostri compiti. Sta a noi fare in modo che il simbolo di questo ciclo di lotte non sia più la mano aperta ma il pugno chiuso.

 

Note

[1] Ci si riferisce alla legge 12/2023, o Ley de Vivienda, varata dal Governo Sánchez II (sostenuto, oltre che dalla socialdemocrazia del PSOE, anche dalle forze di “sinistra” di Unidas Podemos. Per un commento del PCTE su questa legge, si veda qui [NdT].

[2] Il riferimento è chiaro qui alle forze di “sinistra” come Unidas Podemos, che prima hanno promosso le mobilitazioni e poi le hanno sfruttate per guadagnarsi un posto al tavolo del governo borghese [NdT].

[3] Qui il riferimento è a Sumar, il movimento fondato da Yolanda Díaz Pérez (Ministro del Lavoro e Vicepresidente di un paio di governi Sánchez) per unire tutta la “sinistra” a sostegno dei governi del PSOE, che però ha visto il rifiuto dell’appoggio da parte di Podemos stesso, rimasto fuori dal governo [NdT].

[4] Vale a dire, le classi popolari non hanno più nemmeno le risorse simboliche o materiali minime a cui aggrapparsi, nemmeno quelle date da sacrifici dolorosi [NdT].

[5] Il riferimento è al modello bolscevico di organizzazione del Partito, come individuato da Lenin e dai grandi rivoluzionari dell’Ottobre [NdT].

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