Di Olga Says, da Nuevo Rumbo, organo del Partito Comunista dei Lavoratori di Spagna (PCTE)
27 settembre 2025
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Ogni 28 settembre si celebra la Giornata per la Depenalizzazione e la Legalizzazione dell’Aborto[1]. In Spagna, ogni giorno vengono effettuate circa 250 interruzioni volontarie di gravidanza. Non sono semplici cifre in una tabella statistica: dietro ogni numero c’è una donna, una storia, un bivio segnato dalla disuguaglianza. Alcune vivono questo processo in silenzio, altre sotto lo stigma e gli insulti di chi le chiama assassine. Parallelamente, i settori che si autodefiniscono progressisti alzano cartelli in difesa del diritto di decidere. Ma in questo scontro di slogan, quasi nessuno osa guardare a terra: lì, nel fango dell’ignoranza e della precarietà, si trova la vera radice del perché tante donne in Spagna devono interrompere una gravidanza.
Il dibattito borghese riduce tutto a due caselle opposte: “pro-vita” o “pro-aborto”. La prima si ammanta di morale religiosa e di una presunta difesa dell’infanzia, dimenticando che più di 2,7 milioni di bambini e bambine in Spagna – il 34% – crescono a rischio di povertà o di esclusione sociale. La seconda, avvolta in un progressismo compiaciuto, proclama l’aborto come un diritto conquistato, ma evita la domanda centrale: perché una donna arriva a quella situazione? In questo scontro di slogan, la vita reale – quella che esige casa, cibo, salario e sicurezza – rimane fuori fuoco.
Le cifre ufficiali del 2023 sono chiare. In quell’anno sono stati praticati 103.097 aborti in Spagna, il numero più alto da un decennio. Di questi, il 93,9% è stato eseguito «su richiesta della donna», cioè senza un motivo medico specifico. Solo un 6,1% è stato dovuto a gravi problemi di salute della gestante o ad anomalie fetali. E un dato particolarmente rivelatore: il 46,5% delle donne che hanno abortito non aveva utilizzato alcun metodo contraccettivo nel rapporto sessuale che ha originato la gravidanza. Questo dato suggerisce che, in Spagna, buona parte delle interruzioni volontarie di gravidanza deriva da gravidanze non pianificate, con un contesto di carenze strutturali nell’educazione sessuale e affettiva.
Non parliamo di aneddoti isolati. Siamo di fronte a una tendenza sociale: migliaia di donne interrompono la gravidanza non perché abbiano “deciso” liberamente di farlo in un contesto di parità, ma perché sono rimaste incinte senza pianificarlo, in un contesto in cui l’educazione sessuale è debole, frammentaria o inesistente. La conseguenza è che, una volta di fronte al bivio, alcune decidono di abortire perché non vogliono diventare madri, e altre perché non possono sostenere economicamente la gravidanza. Entrambe le situazioni sono figlie dello stesso problema: la combinazione di una serie di condizioni materiali che limitano una pianificazione consapevole e libera e l’assenza di un’educazione sessuale completa ed emancipatrice che permetta di prevenire le gravidanze indesiderate alla radice.
L’educazione sessuale in Spagna è un campo minato. Sebbene la legge sull’istruzione preveda l’inclusione di contenuti sulla salute sessuale e riproduttiva, nella pratica questi dipendono dalla scuola, dagli insegnanti, dall’ambiente ideologico e persino dalla comunità autonoma. I dati sull’educazione sessuale in Spagna mostrano una chiara disuguaglianza a seconda del tipo di scuola e della classe sociale. Nelle scuole pubbliche urbane, il 40–50 % degli studenti riceve un’educazione sessuale completa, mentre il 50–60 % ottiene solo contenuti biologici, e nelle zone rurali questa percentuale scende al 20–30 %. Nelle scuole paritarie religiose, appena il 10–20 % riceve un’educazione completa, e nel resto prevalgono approcci biologici o moralizzanti. Nelle scuole private d’élite urbane, tra il 60–80 % ha accesso a un’educazione completa grazie a laboratori e consulenze professionali. Questo schema riflette che la copertura dipende meno dalla legge che dalle risorse: le famiglie con mezzi economici garantiscono una formazione completa, mentre le figlie della classe lavoratrice restano con un’educazione frammentaria, aumentando il rischio di gravidanze indesiderate.
L’educazione affettivo-sessuale e la conoscenza del consenso e del desiderio sono essenziali affinché le donne possano prendere decisioni consapevoli sul proprio corpo e sulle proprie relazioni. Non basta conoscere la biologia: comprendere emozioni, rispetto e dinamiche di potere previene gravidanze indesiderate e violenza sessuale, e permette che la maternità o l’interruzione della gravidanza siano decisioni informate, non frutto di ignoranza o pressione sociale.
Nel frattempo, l’accesso all’aborto rimane anch’esso diseguale. In comunità come Castiglia-La Mancia o Estremadura non ci sono ospedali pubblici che pratichino aborti chirurgici, e l’invio a cliniche private convenzionate o in altre province lascia alle donne il peso economico dello spostamento e, in molti casi, del soggiorno. Il Ministero per l’Uguaglianza riconosce che l’obiezione di coscienza in alcuni ospedali è del 100% ed è uno dei principali ostacoli. Chi ha risorse risolve; chi non le ha, attende, viaggia o si assume rischi per la propria salute.
Sebbene per legge le comunità autonome debbano coprire le spese di spostamento e soggiorno quando non sono disponibili servizi pubblici di aborto, molte donne affrontano ostacoli reali: la mancanza di protocolli chiari, requisiti burocratici rigidi, interpretazioni restrittive della normativa e l’insufficiente assegnazione di bilancio rendono difficile l’accesso effettivo a questi aiuti. Di conseguenza, molte devono sostenere personalmente tali spese, trasformando un diritto riconosciuto in un onere economico che solo chi dispone di risorse può affrontare.
A questa disuguaglianza si aggiunge un dato che ritrae l’entità del problema: secondo il ministero della Salute, nel 2022 oltre l’85% delle interruzioni volontarie di gravidanza sono state effettuate in centri privati. Sebbene la legge riconosca l’aborto come prestazione del Sistema Sanitario Nazionale, la sua effettiva realizzazione ricade su cliniche convenzionate la cui distribuzione è diseguale. Ciò implica che per una donna in una grande città l’accesso sia rapido e sicuro, mentre per un’altra comporti un viaggio di ore, giorni di assenza dal lavoro, costi aggiuntivi e un logoramento emotivo che nessuna legge contempla. Questa geografia dei diritti a velocità differenti è, di per sé, una forma di violenza strutturale.
Il capitalismo ha bisogno di donne che possano sostenere la cura dei figli, ma al contempo precarizza le loro condizioni materiali e blocca l’accesso alle conoscenze che permetterebbero di pianificarla consapevolmente. Così, la donna lavoratrice resta intrappolata: o cresce i figli in condizioni di miseria o interrompe una gravidanza indesiderata. In entrambi i casi, il sistema scarica su di lei la responsabilità di una contraddizione che è strutturale. L’aborto, quindi, non appare come una scelta libera, ma come l’unica via d’uscita di fronte alla mancanza di alternative.
Il dibattito politico e mediatico evita questa analisi. La destra reazionaria concentra il suo discorso sulla condanna morale, senza mai mettere in discussione il fatto che quasi la metà delle donne che abortiscono non ha mai avuto accesso a un’educazione sessuale adeguata. Il progressismo istituzionale celebra l’aborto come diritto conquistato, ma non osa proporre un piano nazionale di educazione sessuale integrale, universale e scientifica che vada oltre opuscoli sporadici o laboratori esternalizzati.
L’aborto deve essere inteso per ciò che realmente è: un termometro della disuguaglianza sociale ed educativa. Il fatto che ogni anno più di 100.000 donne in Spagna si vedano costrette a interrompere una gravidanza non è una questione di morale individuale, ma un’espressione di come il capitalismo gestisce la riproduzione della vita. Finché non ci sarà un’educazione sessuale integrale, gratuita e universale, finché i contraccettivi continueranno a essere un lusso per molte, e finché la cura dei figli resterà un onere individuale invece che sociale, l’aborto continuerà a costituire per milioni di donne l’unica via d’uscita di fronte a una situazione che non hanno mai realmente scelto.
Negli uffici dove si legifera, la distanza tra le parole e la realtà è oscena. Ma nelle aule senza educazione affettivo-sessuale, nelle sale d’attesa degli ospedali e sugli autobus verso un’altra provincia, il dilemma si risolve con lacrime, sensi di colpa e cicatrici invisibili. Chi vuole difendere la vita, cominci col garantire che vivere sia possibile, a partire dal diritto fondamentale di conoscere, decidere e prevenire.
Perché il vero scandalo non è che si pratichino aborti. Il vero scandalo è che, per tante donne lavoratrici, la mancanza di educazione sessuale e la precarietà trasformino un diritto in una condanna.
[1] Le Nazioni Unite si riferiscono ufficialmente al 28 settembre come “Giornata internazionale dell’aborto sicuro”. [NdT]