All’origine della questione comunista nel secondo dopoguerra
Si assottiglia sempre più il lasso di tempo che ci separa dal centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia, sezione italiana della Terza Internazionale, partito mondiale guidato da Lenin e dai bolscevichi, che si poneva il compito di sovvertire il potere della classe dominante, per dare ai lavoratori la direzione politica ed economica della società.
Quel partito, al quale noi oggi guardiamo come una bussola imprescindibile per orientare correttamente il nostro impegno di comunisti, è stato determinante per sconfiggere il fascismo, ha avuto una storia gloriosa di lotte, di sofferenze, di vittorie, conclusasi nel peggiore dei modi possibili, con il suo scioglimento nel 1991.
Non abbiamo qui la pretesa di risolvere tutti i nodi che quella storia impone di approfondire. In questa sede cerchiamo di riprendere il filo rosso di una lotta che, pur nella sua sconfitta, ha tanto da insegnarci e da trasmetterci. Un patrimonio di militanza, di teoria, di impegno rivoluzionario di compagni a torto dimenticati, quasi non fossero mai esistiti.
Militanti e dirigenti formati alla scuola della III Internazionale, nelle scuole di partito di Mosca, che avevano conosciuto le carceri fasciste, il confino, che erano stati in prima fila nelle Brigate internazionali in Spagna e nella lotta antifascista, durante la Resistenza.
Nel biennio 1943-45, accanto alle formazioni partigiane, scese in campo, da protagonista, il movimento operaio, che arrivò ad assumere il controllo delle principali fabbriche del Nord, mentre i contadini, nella pianura padana come nel Sud, si rendevano artefici di una straordinaria lotta per la liberazione dalla servitù dei latifondisti. L’intera classe padronale venne messa in discussione. L’emancipazione sociale non era più un sogno da relegare in un futuro lontano ma sembrava a portata di mano.
La linea seguita da Togliatti, in quel frangente storico decisivo, fu quella di rinviare la questione dell’assetto sociale del paese dopo la Liberazione per mantenere ad oltranza l’accordo con la Democrazia cristiana e assicurare la ricostruzione in un quadro di pace sociale.
L’amnistia ai fascisti e la garanzia dei privilegi della Chiesa si inserirono in questo solco.
Giuseppe Alberganti, uno dei più importanti dirigenti comunisti del secolo scorso, ricostruisce così quel periodo: “Vi fu, nel periodo immediatamente successivo alla Liberazione, una forte resistenza alla linea che Togliatti proponeva. Queste divergenze riguardavano il nocciolo della politica di Togliatti. Togliatti era convinto, e voleva convincere tutti noi, che fosse possibile un lungo periodo di collaborazione con la Democrazia cristiana, che questo fosse l’obiettivo da perseguire e che addirittura questa fosse l’unica strada per conquistare una democrazia progressiva. Secchia e la maggior parte di noi che avevamo condotto la Resistenza e la guerra di liberazione soprattutto al nord non eravamo convinti di queste posizioni e delle illusioni che ne seguivano”.[1]
Il malcontento che serpeggiava nelle file dei partigiani e dei quadri dirigenti e dei militanti più combattivi ebbe un autorevole riscontro a livello internazionale, nella prima assise del movimento comunista dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale.
La riunione costitutiva dell’Ufficio di Kominform si tenne a Szklarska Poreba, in Polonia, dal 22 al 27 settembre 1947, pochi mesi dopo la cacciata del Pci dal governo.
In quella sede, Zdanov e i massimi dirigenti dei partiti comunisti dell’Est europeo sottoposero a dura critica le scelte strategiche del Pci ed in particolare il parlamentarismo, la subordinazione alla Dc, il venir meno del carattere rivoluzionario del partito, il mancato sostegno dato all’eroica lotta condotta dall’Elas, guidato da Markos, in Grecia.
E’ in questo contesto che, nel dicembre dello stesso anno, Pietro Secchia – responsabile del settore “Organizzazione” del partito – inviò a Stalin un memorandum estremamente critico nei confronti della linea tenuta da Togliatti, i cui contenuti vennero resi noti, alcuni decenni dopo, da Ambrogio Donini: “Secchia faceva presente a Stalin e al gruppo dirigente del Pcus le sue gravi preoccupazioni per la conduzione del PCI. Secondo Secchia, Togliatti si faceva troppe illusioni sulla possibilità di una collaborazione di lunga durata con la Democrazia cristiana. Rimproverava Togliatti di essere stato colto di sorpresa dal ‘colpo di stato’ di De Gasperi che estromise i comunisti e i socialisti dal governo. Avverte i sovietici che Togliatti si mostrava troppo incline ai compromessi pur di difendere la sua posizione di leader del partito”.[2]
Il documento di Secchia esplicita e sintetizza, in piena armonia con le critiche formulate dal Kominform, le riserve diffuse nella base del partito che, per la prima volta, vengono sancite da un dirigente di primissimo piano. Tale iniziativa, però, si limitò ad “affrontare la battaglia fondandosi sull’aiuto ‘esterno’ e non, invece, aprendo apertamente nel proprio partito e contando sulle proprie forze, la battaglia contro l’opportunismo e il revisionismo”.[3]
L’unità del partito è un bene prezioso che va sempre tutelato, ma non a costo di rinunciare ad una battaglia che riguardava le fondamenta stesse del partito rivoluzionario, come ci insegna la rottura con la tradizione socialista del 1921.
Togliatti approfittò della situazione e lanciò un’offensiva contro Secchia attraverso la progressiva emarginazione dei quadri a lui vicini. Leggiamo l’efficace ricostruzione fatta dal comandante partigiano Angelo Cassinera: “La ‘svolta di Salerno’ comincerà ad imporsi dal 1947 in poi, attraverso l’emarginazione degli uomini più prestigiosi della Resistenza, a cominciare da Secchia e Moscatelli; da Alberganti a Vergani (Fabio), via via fino ai più semplici Partigiani. Ma per i vertici del PCI sarà comunque dura: solo con la morte di Stalin, nel ‘53, si dispiegherà la bandiera del ‘rinnovamento’ con a capo Amendola. […] Il cosiddetto ‘rinnovamento’ a Milano arriverà solo nel ‘58, cioè dopo aver emarginato tutto il gruppo dirigente resistenziale (Longo escluso), da Secchia a Dozza, da Colombi a Vaia, da Pellegrino a Clocchiatti, da Moscatelli a Bera, da Vergani ad Alberganti”.[4]
Cassinera individua nella sua lettera un quinquennio cruciale, perché negli anni che vanno da 1953 al 1958 si materializza lo scontro politico ideologico collegato all’ascesa del revisionismo moderno ad opera di Khrusciov e del XX congresso del PCUS.
“Il problema in gioco – ebbe a scrivere Alberganti – era quello della funzione del partito e del ruolo politico che doveva svolgere la classe operaia. In sostanza questi ceti medi, questi altri soggetti sociali, potevano o dovevano essere diretti dalla classe operaia o dovevano dirigerla? Su questa questione venni battuto e destituito da segretario provinciale nel periodo successivo al ‘56 perché mi ero opposto al cambiamento di politica del partito che intanto era avvenuto”.[5]
Alberganti era una figura leggendaria che aveva guidato battaglie memorabili prima, durante e dopo la Resistenza, dirigente, profondamente stimato da grandi masse di operai e lavoratori, di una federazione che annoverava tra le sue file ben 150.000 iscritti.
Al successivo congresso del partito, Alberganti fu estromesso dal Comitato Centrale, nel 1968 venne escluso dalle liste per il parlamento, con lo scopo di emarginarlo definitivamente dalla vita politica del Pci a Milano, fino ad arrivare, nel 1970, al rifiuto di rinnovargli la tessera.
“Il culmine esasperato della caccia al Partigiano – scrive Angelo Cassinera – si raggiunge con l’estromissione di Giovanni Pesce, comandante dei GAP, Medaglia d’Oro al valore militare, il quale, nell’anno 1964, scrive a Pietro Secchia testuali parole: ‘Ti devo dire che ho passato un brutto e triste momento, brutto e triste. Come saprai la federazione di Milano mi ha tolto dalla lista dei candidati al Comune di Milano. Niente di male in ciò, perché credo che si possa servire il Partito e la nostra causa anche al di fuori dell’aula del consiglio comunale. Ma quello che mi ha rammaricato è il modo nel quale i compagni della federazione hanno agito … cioè senza dirmi niente’ (in Maurizio Caprara, Lavoro riservato e i cassetti segreti del Pci, Feltrinelli, Febbraio 1977).
Se questo è stato il trattamento riservato alla Medaglia d’Oro Pesce, lascio immaginare quale buon servizio fu reso ai Partigiani semplici nelle rimanenti federazioni e sezioni di Partito di allora”.[6]
Si affermava “sul campo” il partito “nuovo” che era tutt’altra cosa del partito di tipo nuovo di cui parlava Lenin: un partito che non aveva più il riferimento centrale della classe operaia, che non si contrapponeva più alla borghesia sul piano politico ed ideologico, che rompeva progressivamente con l’internazionalismo proletario.
Le sollecitazioni che, a livello mondiale, spingevano verso una lotta contro le posizioni revisioniste, alimentate sopratutto dalle posizioni espresse dai comunisti cinesi ed albanesi, ebbero ripercussioni importanti anche in Italia.
Nel marzo 1964 venne pubblicato il primo numero di “Nuova Unità” che, in un primo momento, agì come strumento di coordinamento di vari gruppi locali che si opponevano all’involuzione del Pci, muovendo critiche che nel tempo si rivelarono fondate.
“Molti principi fondamentali del marxismo leninismo – si legge nel primo numero – sono pressoché scomparsi dal vocabolario dei revisionisti, o sono stati addirittura ripudiati. Il principio della lotta di classe è stato sostituito con quello di una generica lotta di tutto il popolo per la democrazia parlamentare; il principio di una lotta contro l’imperialismo aggressore con quello di ‘coesistenza pacifica’ ad ogni costo con l’imperialismo stesso; il principio della crisi generale del capitalismo con quello della crisi di certe sue strutture, sanabile con le riforme e con la programmazione capitalista; il principio della conquista rivoluzionaria del potere, con quello della conquista elettorale della maggioranza parlamentare; il principio della distruzione della macchina statale, con quello del suo mantenimento di fatto nel quadro delle istituzioni e della costituzione borghese; infine il principio della dittatura del proletariato è stato sostituito con quello della democrazia di tutto il popolo”.[7]
Ne seguì la costituzione del Partito Comunista d’Italia (m-l) nell’ottobre 1966, che raccolse parte della tensione rivoluzionaria diffusa tra partigiani, quadri intermedi, lavoratori, giovani.
“Nel corso della sua attività – scriverà Geymonat – Nuova Unità ha avuto alterna fortuna, aspramente criticata da chi aveva scelto la ‘via berlingueriana’ ma amata da vecchi partigiani e giovani operai, contadini poveri e intellettuali impegnati. Per anni abbiamo ricevuto il sostegno fraterno di altri partiti marxisti-leninisti, primi fra tutti i compagni cinesi e quelli albanesi”.[8]
Tra i dirigenti che restarono nel Pci cresceva il malcontento per una linea politica sempre meno condivisa. “Oggi il partito – annotò Paolo Robotti – cerca una nuova strada con nuovi slogan … Riuscirà a trovarla? Lo auguriamo! Ma sappiamo che la vecchia strada, quella della lotta di classe è sempre valida e sperimentata”.[9]
All’interno del Pci, pur emarginato e osteggiato, sottoposto ai velenosi ostracismi di un gruppo dirigente sempre più incline al riformismo, Pietro Secchia ebbe un ruolo di assoluto rilievo nel collegare l’impegno di trasformazione sociale delle formazioni partigiane comuniste con le giovani generazioni che scendevano in campo sul finire degli anni Sessanta, divenendo protagonisti di una indimenticabile stagione di lotte.
Il Pci non capì il movimento studentesco, si chiuse, ritenne che fossero da rigettare in blocco le critiche che da quel movimento venivano mosse, anche se caoticamente, alla sua politica e in questo sbagliò enormemente.
Secchia lo capì più di ogni altro: “I giovani – scrisse – oggi vogliono sapere ma non vogliono essere ingannati”[10]. Il grande rivoluzionario biellese si collegò con le istanze che quei giovani esprimevano, mettendo a disposizione la sua intramontabile passione di rivoluzionario. Secchia metteva al centro della sua riflessione il ruolo della Resistenza, non limitata al solo antifascismo, ma piena dei suoi contenuti più alti, quelli legati alla trasformazione degli assetti sociali ereditati dalla monarchia e dal fascismo. Secchia riprese dal dimenticatoio le migliori ragioni per cui tantissimi partigiani avevano preso le armi e avevano sacrificato la propria vita, contro ogni retorica falsamente unitaria. Senza esitazioni né concessioni di sorta a chi cercava di “presentare una Resistenza evirata, deformata, senza principi, senza obiettivi e senza programmi sociali, come un grande movimento patriottico al quale tutti avrebbero partecipato”.[11]
Gli anni Settanta videro il rapido intensificarsi della deriva del Pci.
Come amava dire Alberganti “quando si inizia a scivolare su un piano inclinato ci si ferma solo in fondo”.
Un mese dopo il colpo di stato di Pinochet, in Cile, Berlinguer ratificherà sulle colonne di “Rinascita” la fine di ogni prospettiva rivoluzionaria. Il Pci si inseriva a pieno titolo nell’ambito del gioco politico borghese. Al compromesso storico seguirono la solidarietà nazionale, l’accettazione dell’ombrello protettivo” della Nato, il sostegno agli apparati repressivi dello Stato e, per finire, alla famigerata legge Reale e ai decreti Cossiga, che provocarono centinaia di morti nelle piazze italiane.
All’inizio degli anni Ottanta nacque l’ultimo baluardo di resistenza al berlinguerismo: la rivista “Interstampa”. Attorno a questa pubblicazione si radunarono figure di assoluto prestigio della storia del comunismo nel nostro paese: da Geymonat a Cinanni, da Cerreti a Albarello, da Vaia a Donini, a Biocca.
Nonostante i provvedimenti disciplinari e le minacce di espulsione, che colpirono figure prestigiose come Adelio Albarello e numerosi quadri di partito, la rivista per anni proseguì nel suo lavoro prezioso, con il merito di coagulare preziose energie, dentro e fuori il Pci, per contrastare la deriva revisionista.
Ricordiamo le battaglie per l’uscita dell’Italia dalla Nato, la lungimirante denuncia dei provocatori di Solidarnosc, delle bande criminali dei mujaheddin afghani, l’infaticabile lavoro di chiarificazione teorica su questioni relative al materialismo storico o alla critica del capitalismo avanzate da Spesso, Santarelli, Geymonat, l’incrollabile difesa della storia del movimento comunista internazionale portate avanti da Alessandro Vaia.
Seguì la lunga notte della dissoluzione. Là dove non riuscì l’Ovra, durante il Ventennio fascista, riuscirono i liquidatori che si trovarono la strada spianata dal tarlo revisionista, che aveva corroso mortalmente il partito nell’arco di alcuni decenni.
Amerigo Clocchiatti, già dirigente del PCI e comandante partigiano, commenterà amaramente nel suo libro di memorie: “Il capitalismo, non più terrorizzato dal proletariato, proclamato da Carlo Marx becchino che doveva portarlo alla tomba, riconoscente scolpirà sulla pietra tombale del PCI un solenne ‘Grazie a voi, liberi pensatori, che non propugnate più l’ideale del socialismo’. Ma vi è un domani, sempre un altro domani e verrà il domani del Socialismo”.[12]
Le sconfitte nella battaglia contro il revisionismo non fanno venir meno le ragioni dei compagni che le portarono avanti. Come affermò propro Secchia:
“Quando si viene battuti, noi comunisti non abbiamo altro da fare che riprendere la lotta e andare avanti”.[13]
Riprendere in mano il nostro passato, conoscerlo e farne uno strumento per le battaglie che ci attendono è indispensabile per rialzarsi, per riprendere quella bandiera rossa che altri hanno gettato nel fango e che tocca alle generazioni future riprendere in mano in maniera vincente.
La nostra storia non è un foglio bianco, è fatta di sacrifici, di sofferenze, di militanti che non hanno abbassato la testa e che idealmente ci passano il testimone. Sta a noi essere degni di quella storia per riprendere il filo rosso della continuità storica con il Partito del 1921, il partito nelle cui ragioni si trova la bussola che ci deve guidare nelle lotte del futuro.
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[1] G. Alberganti, Pietro Secchia e la politica del Pci nel dopoguerra, in “Fronte popolare”, n. 150, 26 febbraio 1978, p. 24.
[2] A. Donini, Sull’Archivio Secchia, intervista a cura di G. Corbi, “L’espresso”, 19 febbraio 1978, p. 25. Un estratto del memorandum è pubblicato in P. Secchia, I quadri e le masse, Laboratorio politico, Napoli, 1996, pp. 76-77.
[3] G. Alberganti, Pietro Secchia e la politica del Pci nel dopoguerra, cit.
[4] A. Cassinera, comandante partigiano dell’Oltrepò pavese, lettera autografa, dicembre 1999, p. 2.
[5] Cfr. La sinistra, n. 37, 26 ottobre 1980, p. 9.
[6] A. Cassinera, lettera citata, p. 4.
[7] Proposte per una piattaforma dei marxisti-leninisti d’Italia, in “nuova unità”, anno I, n. 1, p. 3
[8] M. Geymonat, Prefazione al Reprint di nuova unità 1945-1965, p. 2.
[9] P. Robotti, Scelto dalla vita, Napoleone, Roma, 1980, p. 360.
[10] P. Secchia, Lotta antifascista e giovani generazioni, La Pietra, Milano, 1973, p. 10.
[11] Ibidem, p. 9.
[12] A. Clocchiatti, Dall’antifascismo al de profundis del Pci, Edizioni del Paniere, Verona, 1991, p. 264.
[13] P. Secchia, La Resistenza accusa, p. 100. Mazzotta editore, Milano, 1973,