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Potere alle deroghe: migliaia di imprese riaprono

Di Graziano Gullotta
06/04/2020
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Boccia Confindustria

Inauguriamo la rubrica “Rassegna Operaia” con un articolo su una questione di estrema attualità: le deroghe alla chiusura delle attività produttive. Il comportamento irresponsabile del padronato italiano in questa fase di emergenza sanitaria mette in evidenza la necessità e la correttezza di un’interpretazione di classe dei fenomeni politici ed economici del nostro tempo. Oltre la finta retorica dell’unità nazionale, tanto cara alle imprese per indurre i lavoratori a sostenere i soliti sacrifici senza muovere opposizione, esiste una realtà fatta di interessi insanabili, che la natura della crisi in corso sta avendo solo il merito di rendere percettibili nella loro esagerazione: ecco che in questo sistema la sopravvivenza dell’apparato industriale appare inconciliabile con la sopravvivenza stessa dei lavoratori.

Nei giorni scorsi, il Governo dopo un lungo braccio di ferro con Confindustria aveva stabilito la chiusura della produzione e di tutti i settori non necessari. Si è trattato di un vero e proprio balletto in cui Confindustria ha posticipato il più possibile la decisione del Governo, riuscendo finanche a far rimandare l’avvio del provvedimento dopo l’annuncio di Conte. La lista ATECO, nella quale erano elencati i settori esentati dalla chiusura, era stata fortemente criticata per la particolare generosità ed elasticità con la quale erano stati ritenuti essenziali settori che tali, a dire il vero, non sono. Molte denunce si sono susseguite da parte dei lavoratori, con proteste culminate in scioperi ad oltranza e con la convocazione dello sciopero generale da parte del sindacalismo di base.

Sono risultati esentati dalla chiusura settori di produzione di armamenti, call center, e decine di altre attività. Anche la frettolosa riconversione di una parte delle aziende – specialmente nel settore tessile – verso la produzione di materiali e beni di utilizzo sanitario ha consentito di ampliare ulteriormente le deroghe, incrociando tutto questo con un controllo non capillare della corrispondenza alle liste ATECO e con l’esclusività della produzione.

Oggi, lunedì 6 aprile, in deroga a quanto stabilito dal decreto per le attività non necessarie, stanno riaprendo decine di migliaia di fabbriche, concentrate proprio nelle regioni del nord e soprattutto in Lombardia, epicentro del contagio e dove le difficoltà sono lontane dall’essere già superate. Si tratta in prevalenza di aziende metalmeccaniche ma il fenomeno attraversa tutti i settori produttivi:

si parla di oltre 2mila richieste di riapertura nella provincia di Bergamo e oltre 3mila per quella di Brescia, ma sono 7mila anche in Toscana, oltre 10mila in Emilia Romagna e un numero superiore a 12mila in Veneto. Le domande che arrivano sulle scrivanie dei prefetti sono numerose in tutta Italia, si stima una cifra ampiamente superiore ai 50mila casi.

Consultando il DPCM del 25 marzo scorso, la domanda di deroga alla chiusura può essere inviata ai prefetti in due casi. Nel primo la deroga viene concessa alle attività funzionali ad assicurare la continuità della filiera che produce beni e servizi essenziali. Nel secondo riguarda le produzioni a ciclo continuo la cui interruzione costituirebbe un danno e un rischio maggiore per la sicurezza e la salute.

Se è vero che teoricamente il Prefetto potrebbe intimare la chiusura degli stabilimenti, nella realtà concreta quello a cui assisteremo è un meccanismo di “silenzio assenso” sia a causa dell’ampiezza delle aree grigie presenti nell’elenco delle attività e delle filiere essenziali stabilite dal Governo coi sindacati e con Confindustria, sia per il numero ingente di richieste che sono state inoltrate che rende impossibile, e anche non particolarmente voluto, procedere a controlli capillari di analisi, con le eventuali risposte arriveranno a danno ormai fatto. Nel frattempo, si continuerà a produrre e ad esporre a rischi i lavoratori. Questa “simultaneità” delle richieste ci fa dubitare sulla casualità della sua origine: è evidente che l’interesse padronale, espresso nella sua organizzazione di riferimento, stia attuando una strategia collettiva per mantenere la produzione attiva. Anche sul lato politico, la guerra alla migliore sponda a Confindustria è da tempo aperta con dichiarazioni di esponenti di maggioranza e opposizione che si susseguono ad alzare la voce sulla necessità di riapertura delle aziende.

Tutto ciò non dimentichiamolo mentre ogni giorno le cronache della pandemia riempiono i numeri di lavoratori contagiati, ricoverati e molto spesso morti a causa del contagio del virus. Tra i maggiori casi di mortalità in età non avanzata a causa del Covid-19 proprio i lavoratori fanno la parte da leone. I dispositivi di sicurezza nei luoghi di lavoro sono troppo spesso inadeguati, e le stesse norme varate dal Governo sono state assai generose con le imprese.

Nonostante tutto questo, gli industriali attaccano frontalmente le richieste dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali. L’interesse preminente è quello di dimostrare ai mercati che la produzione nelle loro fabbriche continua. Molte di esse anche se collegate a settori essenziali (es. farmaceutico o elettromedicale) producono apparecchiature che non sono di utilizzo immediato ma entrerebbero in funzione tra anni. Altre hanno solo piccole percentuali di produzione che possono essere riferite a settori essenziali come l’agroalimentare, ma a fronte di questi piccoli ambiti, tutta la fabbrica continua a pieno regime. Proprio questo sta risultando nei fatti il maggiore criterio di deroga, che unito alla parziale riconversione della produzione in materiali ritenuti essenziali, costituisce un appiglio legale importante per mantenere aperta l’intera filiera produttiva. I dispositivi sanitari prodotti (come ad esempio le mascherine) spesso non riescono a soddisfare che una parte minima del fabbisogno, in altri casi risultano addirittura inservibili perché non superano i test necessari, dal momento che sono ottenute per lo più con scorte di magazzino già precedentemente accumulate, che spesso non costituiscono tessuti idonei, neppure per l’utilizzo meno specifico. Pochi giorni fa un’inchiesta ha rilevato come la produzione nazionale di questi dispositivi impiegherà settimane se non mesi prima di dare qualche frutto apprezzabile; eppure in nome di questo le deroghe fioccano.

Nonostante l’arretratezza del conflitto di classe nei luoghi di lavoro, gli operai, sindacalizzati o meno, hanno sviluppato una reazione spontanea di rifiuto di questo attacco che viene imposto dalla parte padronale. Come abbiamo avuto modo di constatare nelle scorse settimane, sono numerosi i casi di mobilitazioni, astensione dal lavoro, scioperi, richieste di dispositivi di sicurezza e di misure adeguate a salvaguardare sé stessi, i propri colleghi e i propri cari a casa.

A fronte di questi timori dei lavoratori sia per le condizioni di sicurezza in fabbrica, sia per le loro famiglie, sia per l’incertezza sul proprio futuro lavorativo, i padroni si mostrano compatti nell’abuso dello strumento di “autocertificazione” previsto dal DPCM: i datori di lavoro attestano da soli l’essenzialità della propria produzione, lasciando ai prefetti l’incombenza di vagliare le domande, ma in attesa di una risposta continuano a produrre.

In moltissimi casi, quasi la totalità delle domande viene approvata dalle prefetture, vista l’ampiezza delle branche inserite nell’elenco delle attività essenziali o strategiche dal governo. Essenzialità che non si capisce come possa essere sostenuta nei numerosi casi di aziende che producono sì in ambiti ATECO necessari, ma fondamentalmente per esportazioni verso l’estero, Germania, Russia e Cina in particolare. Inoltre i controlli, in una condizione di emergenza come questa, vengono ridotti al minimo. Comportamenti irresponsabili che antepongono l’interesse di pochi alle necessità collettive di non compromettere i pesanti sacrifici in atto da tempo, sono la norma da parte padronale. Gli imprenditori trascurano completamente gli interessi sanitari pubblici per ottenere un vantaggio competitivo nei confronti delle aziende con cui sono in diretta concorrenza e che magari hanno deciso di chiudere, innescando un meccanismo di corsa alla riapertura. Sono numerosi i casi che i lavoratori hanno denunciato di richieste di non dichiarare malattie da Covid-19 contratte nelle proprie aziende, per evitare chiusure e costosi processi di sanificazione. Tutto a danno delle condizioni di salute e della sicurezza dei lavoratori stessi.

Infatti la “scoperta” del meccanismo della richiesta di deroga ai prefetti ha prodotto una situazione in cui anche quelle aziende che si erano adoperate per una sanificazione e messa in sicurezza sono finite per farne domanda. Infine sottolineiamo che per le proprietà intrinseche delle aziende metalmeccaniche e di molti altri settori della manifattura, è molto complesso procedere ad una reale sanificazione: macchinari enormi e complessi, presenza di molti lavoratori spesso ravvicinati, locali comuni come mense, spogliatoi, docce. L’unico strumento possibile per salvaguardare la salute dei lavoratori resta la chiusura temporanea, per tutti i settori che non sono realmente essenziali. Inutile dire infatti che continuare a mantenere un canale di diffusione del virus, non solo renderà difficile se non impossibile arginarne la diffusione, ma vanificherà gli sforzi, morali e soprattutto economici di tutto il resto della popolazione.

Mentre il Governo da la caccia alle passeggiate, fa finta di dimenticare il monte-ore complessivo di turni di lavoro che non sarebbero necessari e il loro reale impatto sulla diffusione della pandemia.

La crisi economica profonda che attraversa il nostro paese dal 2008 ha cambiato profondamente il sistema produttivo, soprattutto dal lato contrattuale e dei diritti sul lavoro. Oggi, con gli effetti della crisi sanitaria, questa accelerazione ingrana una marcia superiore e per certi aspetti definitiva: in questo sistema la sopravvivenza dell’apparato industriale in Italia, oggi, non in un incerto futuro, si pone in diretta opposizione di interessi alla sopravvivenza stessa dei lavoratori.

 

 

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Graziano Gullotta

Graziano Gullotta, 33 anni, ha studiato Scienze Politiche e Sociali all’Università di Torino, dove inizia la militanza contribuendo alla costruzione del primo nucleo del FGC. Nel 2015 si trasferisce in Abruzzo per lavorare come operaio metalmeccanico. Collabora con L’Ordine Nuovo sui temi del lavoro e di politica generale.

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