La banlieue parigina, in quanto lato oscuro della civiltà europea, è lo sfondo di molta denuncia sociale del XXI secolo. È la periferia, il luogo della colpa e della redenzione, dell’antistato e poi del terrorismo, del populismo e poi del sovranismo, in attesa di un nuovo umanesimo in grado di riscattarla. Il cinema ci si è accomodato quasi per inerzia, sfruttando le potenzialità del suo linguaggio e delle sue tecniche. Questa banlieue ricorda Minneapolis, e questi miserabili una società che unisce, nella razzializzazione, le due sponde dell’oceano: una visione appropriata dunque in questi giorni di rivolta, almeno americana.
Un giorno di vita nella banlieue di Montfermeil, attraverso le azioni – ma non la soggettiva – di una squadra di poliziotti con la missione di pattugliare, sorvegliare e governare la banlieue. Dei tre poliziotti, uno è nuovo: Sthépane Ruiz, brigadiere al suo primo giorno di lavoro in città. Verrà introdotto nel ventre della periferia da un novello Virgilio che però, al contrario della guida dantesca, si presenta come riflesso dei mali sociali “confinati” nei grigi palazzoni della banlieue: razzista, violento, provocatore, corrotto. Un cliché, insomma. A cui corrisponde un altro cliché, quello di Ruiz, il poliziotto buono, corretto, pronto a limitare la violenza dei propri colleghi, quando si fa immotivata.
Dentro la costruzione di caratteri poveri e stereotipati, mai davvero convincenti neanche nei momenti di più spiccato realismo, si dipana il racconto di una società alternativa e controversa. Quella, per l’appunto, della banlieue.
Il film si apre con la vittoria della Francia ai mondiali del 2018. L’abbrivio racconta di una nazione unita dal calcio, inteso come simbolo di valori nazionali condivisi, in grado di unificare su di un piano culturale o mitopoietico una nazione fatta di molte nazioni e di troppe complessità irrisolte. Lo stesso giorno Sthépane Ruiz arriva a Montfermeil, e l’apparente unità manifestata con i festeggiamenti di piazza inizia a scomporsi, a frantumarsi sotto gli occhi fin troppo disorientati del protagonista (l’ingenuità del protagonista è un altro cliché che non regge al confronto con la realtà).
L’organizzazione della banlieue è l’antistato, con cui i poliziotti non solo devono fare i conti, ma che sostengono, governano e indirizzano, al fine di garantire il controllo e una passabile tranquillità sociale. La gestione di un’entità complessa come la periferia è stratificata e ramificata: ci sono i referenti dello Stato, quelli delle guardie e quelli del popolo; ci sono i piccoli e grandi conflitti intestini, gli interessi privati e le imprevedibilità. Proprio in seguito ad una di queste, un ragazzino della banlieue – rubando un piccolo leone da un circo di quartiere – rischia di scatenare una guerra tra bande faticosamente disinnescata dall’intervento della polizia. Non senza il colpo di scena, che costringerà polizia e abitanti a risolvere le troppe compromissioni, nell’unico linguaggio possibile: quello della violenza. Il tutto, dentro un quadro di mutualismo religioso e comunitario che struttura una nuova forma di contropotere, al tempo stesso culturale, economica e sociale. Una religione che non si presenta solo come “grido della creatura oppressa”, ma anche come strumento di tenuta popolare e di autorganizzazione, di produzione di comunità resistenti.
Il ricercato realismo sta nella traccia “hughiana” del racconto, ispirato alla celebre chiosa del romanzo e che compare anche in calce al film: «Non vi sono né cattive erbe né cattivi uomini: vi sono soltanto cattivi coltivatori». Un intero programma d’intenti, potremmo dire, che nel raccontare le vicissitudini dello Stato e dell’antistato spiega le alterne contraddizioni come risultati di azioni consapevoli: di qui la violenza della polizia; di là i micropoteri sociali, le piccole e grandi rendite di posizione che anche nella miseria si strutturano e determinano i destini di una società. Le vittime non possono che essere quelle torme di ragazzini, che continuamente attraversano e riempiono la scena, che sbandano tutto il giorno per le strade della periferia e che hanno la violenza come unico linguaggio capace di rappresentare l’onore e la dignità calpestata. Non possono fare altro, perché è l’inevitabile risultato di quei cattivi coltivatori che la riproducono dall’alto o dal basso. Una tesi in qualche modo giusta quando vuole colpire il “nemico interno”, quel popolo corrotto che, attraverso una strutturazione para-mafiosa, contribuisce alla mancata presa di coscienza della periferia stessa. Rischia però di banalizzarsi quando, più di una volta, cede al calderone informe dove non ci sono verità da sostenere, ma solo colpe da ripartire (e in forma indifferenziata).
Ovviamente, e giustamente, non possono esserci “buoni” e “cattivi”, sebbene alla fine le uniche figure positive sono quelle a-conflittuali: il brigadiere Ruiz, il “radicalizzato” Salah, addirittura il poliziotto di colore Gwada, protagonista dell’incidente (che non sveliamo). Ma se il racconto non può che essere disincantato, il film è molto lontano da quell’Odio che pure costituisce un riferimento inevitabile per chiunque voglia parlare di banlieue. In anticipo sui tempi (il film di Kassovitz è del 1995), L’odio fu in grado di restituire la rassegnazione esistenziale dei dimenticati della banlieue in lucida conversione alle regole del gioco imposte dalla società: se violenza dev’essere, che violenza sia, senza traccheggiamenti. È l’odio l’unica cosa che può crescere nella banlieue, ma questo odio è anche un punto di forza degli sfruttati. In questi miserabili la violenza è sempre incastonata dentro una pedagogia di fondo che la viviseziona per condannarla. L’odio dei subalterni è il prodotto della convergenza tra la violenza della polizia e la para-mafia del quartiere. Non è mai atteggiamento spontaneo e cosciente, sebbene – ovviamente – non nelle forme politiche che servirebbero.
Ma l’odio è necessario, e con esso la violenza. Minneapolis insegna. L’odio va coltivato e non giudicato. Il film lo giudica, attraverso gli occhi del “poliziotto buono”, e questo è il limite decisivo di una pellicola che pure prova a illuminare e spiegare le ragioni dei senza voce, dei “razzializzati”, dei confinati. Con un moralismo di troppo che non consente la catarsi.
Nessuno è innocente, certo. Ma per spezzare la violenza, alcuni di quei colpevoli sono necessari, e le colpe che ricadono oggi su di loro serviranno un domani per liberare la periferia. Questa cosa, in qualche modo, andava pur detta.