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Home›Terza pagina›Film e TV›Cinema ritrovato. I giorni contati, di Elio Petri, 1962

Cinema ritrovato. I giorni contati, di Elio Petri, 1962

Di Alessandro Barile
29/07/2020
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I giorni contati

Nella Roma dei primi anni Sessanta, Cesare – cinquantatreenne stagnaro e vagamente sconfortato dalla vita – si trova su un tram che lo porta, come di consuetudine, al suo lavoro. Sale il controllore per verificare i biglietti, e un signore vicino a lui, apparentemente coetaneo, sembra dormire. In realtà ha avuto un attacco cardiaco. La morte inaspettata di una persona qualsiasi scava nella già deprimente vita di Cesare: stesso tran tran lavorativo, stessa età e, forse, stessa fine oramai sentita come prossima. Una vita spesa al lavoro, senza potersi godere momenti per sé, scoprire il mondo, conoscere gente. Una vita senza curiosità, o dalla curiosità repressa. Cesare decide dunque di recuperare il tempo perduto: smette di lavorare e, grazie a qualche soldo messo da parte, prova a dare un senso più umano alle sue giornate. Gira per le strade, tenta di intrattenere conversazioni casuali; va al museo, ma senza capirci granché; va al mare con gli amici, a cui fa presente continuamente l’incipiente depressione e i suoi propositi; ritorna al paese natale alle porte di Roma, ma scopre che tutti sono emigrati, o sono morti. E i rimasti sono più immalinconiti di lui; vaga nel nuovo aeroporto di Fiumicino, chiedendo se può fare un piccolo giro in aereo sopra la città; viene coinvolto in un tentativo di truffa da alcuni conoscenti; infine, azzarda l’amore con una prostituta, fallendo miseramente, non prima di aver tentato di sottrarre una sua giovane amica alla prostituzione, regalandole 50mila lire che la giovane spende per comprarsi una parrucca. Lentamente, Cesare si accorge che il tempo perso non tornerà, e non resterà altro che tornare a lavoro. Perché i soldi sono finiti, certo; ma soprattutto perché nessuna realizzazione sembra possibile fuori da quel lavoro che pure lo ha privato di sé per quarant’anni. Torna a lavoro, con la stessa malinconia esistenziale. Una notte, su di un tram solitario nella periferia romana, sale un controllore, e c’è solo Cesare, che dorme. E il controllore insiste, mentre il tram continua la sua corsa senza portare da nessuna parte.

Il secondo film di Elio Petri è il suo capolavoro. Ancora lontano dal cinema impegnato degli anni Settanta, ma non per questo meno indagatore di una realtà miserevole anni luce distante dagli strombazzamenti del boom economico, l’avvio dei Sessanta non vede solo una svolta nel cinema italiano (da Mamma Roma a Accattone, da La notte al Sorpasso, siamo nel pieno del confronto-scontro con la stagione neorealista), ma una riflessione più matura sul rapporto tra cinema e realtà.

Certo questo Petri è ancora fortemente intimista, ma ha la forza di situarsi all’incrocio di più linguaggi narrativi: il neorealismo, l’esistenzialismo, la nouvelle vogue.

Il confronto è serrato con il neorealismo dei primi Cinquanta, e soprattutto con il Vittorio De Sica di Umberto D., vertice del discorso neorealista dopo i risultati raggiunti da Rossellini e Visconti; ma è già qualcos’altro: viene meno il naturalismo di superficie, ed emerge invece la tematica esistenzialista che lo ricollega all’Antonioni della trilogia dell’incomunicabilità; o al Bergman de Il posto delle fragole; e ovviamente, come rilevato da molti, l’apporto della nouvelle vogue, e soprattutto Godard. Insomma, Elio Petri prova a fare propria la lezione dei grandi ma a suo modo: già altro dal neorealismo e i suoi limiti, ma ancora dentro le vite violente e gli accattoni pasoliniani. Con meno periferia e più condizione umana. Ma qui non c’è compiacenza, al contrario della ambivalente mimesi pasoliniana. C’è invece una riflessione sull’esistenza e la sua separazione da una realtà sociale che si vorrebbe vivere appieno, ma non si sa come. I mezzi sono legati a quel lavoro che pure è causa della fatica di vivere.

Il dilemma continuamente inverato è dunque: impossibile realizzarsi fuori dal lavoro, ma è altrettanto impossibile farlo con un lavoro alienato.

Non resta che la disperazione, o l’apatia. La fuga non è prevista, chi la tenta è riportato a forza alla ragione della realtà. L’essenza sociale sta proprio in questo impossibile esodo. Tra esodo e resa c’è la rivoluzione, ma per quella bisognerà aspettare il decennio successivo e il Petri più maturo e anche più ideologico. Non sarà più tempo per l’introspezione e della finezza sperimentale, ma del bastone operaio.

Ma in questo avvio stralunato di una nuova stagione italiana, questi Sessanta che si inaugurano nel pieno della crescita economica che dispone le sue conseguenze politiche (il centro-sinistra), le lotte stanno covando inespresse. Per questo la cinepresa segue, insegue, pedina il volto di uno straordinario Salvo Randone (Cesare) che trasmette stupore e indolenza, depressione e spasmi vitali destinati inevitabilmente alla sconfitta. Non c’è politica, non c’è miracolo individuale. Vedere il mondo, si dice Cesare: ma per cosa? Cosa farsene, senza una vita degna e realizzata? Gli incontri fortuiti e cercati non fanno che amplificare quel disagio che è ben altro che la semplice curiosità di “conoscere qualche svedese, o qualche russo”, come riferisce il protagonista. Il ritorno al lavoro segna dunque la resa, ma la risposta è fornita lo stesso, sebbene inespressa, racchiusa dentro la coscienza acerba del giovane Petri: è dentro il lavoro la soluzione, è nella presa di coscienza.

La disillusione è il primo passo, il secondo è rivoltare questa scissione esistenziale laddove questa ha preso forma: tra tempo di lavoro e tempo di vita.

Il successivo è tornare a illudersi, forse, sfruttando questa illusione come carburante per la liberazione collettiva. Ma siamo già molto oltre. Qui i limiti rimangono dentro una nostalgia del tempo che fu, che non può tornare e che, in realtà, non fu mai. Gli anni passati sono stati comunque anni di duro lavoro, attraverso guerre e fascismo. Di cosa disperare dunque? Come detto, è un vicolo cieco a cui non c’è risposta. Il protagonista non può che uscirne sconfitto, e la casualità della morte il riflesso di una vita persa. E come cantava Guccini allora, «Vorresti alzarti in cielo a urlare chi sei tu, Ma il tempo passa e non ritorna più…».

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Alessandro Barile

35 anni, ricercatore in Storia contemporanea e studioso delle trasformazioni della città globale. Redattore della "Rivista di Studi Politici" e della rivista di Storia della conflittualità sociale "Zapruder", collabora con "il manifesto" e "Le Monde Diplomatique". Tra le sue ultime pubblicazioni, "Il tramonto della città" (Derive Approdi 2019) e, di prossima uscita, "Il secondo tempo del populismo. Sovranismi e lotte di classe" (Momo edizioni 2020).

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