FGC: “Rispondere all’attacco complessivo delle politiche padronali”, i giovani proletari in piazza il 5 novembre
Continuano le interviste de L’Ordine Nuovo ai rappresentanti delle principali organizzazioni politiche e sindacali che sostengono la manifestazione “Mo bast…Insorgiamo!” di domani 5 novembre a Napoli. In questa occasione abbiamo avuto modo di intervistare Markol Malocaj responsabile lavoro del Fronte della Gioventù Comunista, organizzazione giovanile che anima da anni le lotte di studenti, universitari e giovani proletari in tutta Italia impegnata, soprattutto negli ultimi anni, a far convergere le lotte studentesche con le lotte di lavoratori e disoccupati, nell’ottica di un’unità di classe più che mai necessaria. “Il 5 novembre sarà la prima manifestazione con il nuovo governo insediato e operante, quindi effettivamente anche un banco di prova per le forze di classe per verificare la capacità di porre una serie di avanzamenti anche sul terreno della quantità e del coinvolgimento oltre che della qualità”, afferma Markol sottolineando il sostegno dell’organizzazione alla piazza di domani. Concludendo con un elemento di prospettiva, che impegna non solo il FGC ma anche moltissime delle realtà che domani saranno in piazza, afferma che è “importante non fermarsi lì perché fra un mese ci sarà lo sciopero generale del 2 dicembre, la manifestazione nazionale a Roma il giorno dopo, chiamata unitariamente anche dal sindacalismo di base.”
Il FGC negli anni ha marcato la sua presenza nelle principali lotte proletarie, dalle rivendicazioni degli studenti ai settori avanzati della classe operaia in lotta, alla questione ambientale. Negli ultimi anni si è intensificato il dialogo con le strutture più combattive in ambito sindacale e di lotta operaia. La vostra adesione alla manifestazione del 5 novembre rientra in questo percorso?
Il FGC, sin da quando è nato, si è posto il problema delle lotte della classe operaia. Infatti, nonostante venga molto spesso scambiata come organizzazione unicamente degli studenti, a partire dagli elementi statutari si definisce organizzazione degli studenti, dei giovani lavoratori e dei disoccupati. Quindi chiaramente c’è un elemento fondante che ci lega alle lotte della classe operaia anche a partire semplicemente dalla composizione dei militanti della nostra organizzazione.
Nello specifico, noi negli ultimi anni abbiamo rilanciato un percorso di costruzione, di discussione, di lotta con le principali avanguardie operaie in Italia. In particolare questa convergenza è avvenuta con quei segmenti avanzati che negli anni hanno condotto lotte molto dure, ad esempio in settori come quello della logistica dove si sono ottenute conquiste molto importanti in controtendenza rispetto a quello che è l’arretramento complessivo e di frammentazione delle forze di classe. Ci siamo posti il problema di come rispondere a questa frammentazione e abbiamo provato a farlo sia dando un nostro maggiore contributo laddove già avevamo più radicamento – come nell’ambito studentesco, attraverso mobilitazioni in occasione degli scioperi generali – sia partecipando attivamente dai cancelli e nelle piazze delle vertenze operaie.
In questi anni abbiamo dato una presenza significativa a tutti i picchetti e ai momenti di lotta operaia principali che ci sono stati nel paese: da quella che è stata la battaglia in Fedex-TNT, passando per la vertenza Alitalia, per non parlare di GKN, UNES, e naturalmente in piazza quotidianamente coi disoccupati di Napoli, e così via. L’adesione alla manifestazione del 5 novembre è la continuazione di questo percorso e va nella direzione di dare una risposta sia al nuovo governo – che sta già prendendo misure atte a impedire sostanzialmente quello che è il diritto alla libertà di protesta e manifestazione – sia di rispondere a quello che è l’attacco complessivo delle politiche padronali che attraverso guerra, carovita e repressione si sta abbattendo sulla classe operaia, non solo in Italia ma anche a livello internazionale.
Sono oramai anni che si discute sul fatto che la pandemia avrebbe fatto detonare la crisi sociale; sicuramente la crisi sociale c’è stata, continua ad esserci, sebbene sia stata fortemente tamponata da una svolta sulle politiche finanziarie da parte della UE che ha messo, per così dire, fra parentesi la politica di austerità in favore di politiche di tamponamento temporaneo dei problemi più acuti anche attraverso l’aumento dei debiti statali. Questa crisi sociale non si è trasformata, però, in crisi politica, anzi. Abbiamo, se possibile, oggi un governo potenzialmente più antipopolare da questo punto di vista. Come ti spieghi questi sviluppi? Vale a dire il fatto che questi tre anni, che sono stati duri per la classe operaia in generale, non abbiano prodotto i risultati che ci si attendeva, anche da un punto di vista di mobilitazione.
Ci sono da fare una serie di premesse e da valutare una serie di elementi. Il primo, come correttamente dicevi, è che la pandemia non è stata l’innesco che ha fatto nascere una serie di contraddizioni. Semplicemente essa ha acuito, anche sul piano economico, delle contraddizioni che erano già presenti nella società e che sono state innescate da un evento mondiale che ha portato stati e governi a fare delle scelte chiare in materia economico-finanziaria, tutte in senso antiproletario e a favore dei capitalisti. La crisi sanitaria ha fatto emergere determinate contraddizioni e ha messo sotto gli occhi di tutti le verità che i capitalisti e i loro governi continuavano a mistificare da anni. La prima era che la classe operaia fosse finita, non ci fosse più. In realtà la pandemia ha dimostrato che senza la classe operaia si ferma tutto e infatti la principale preoccupazione della borghesia durante le varie fasi della pandemia è stata quella di provare a tenere tutto aperto senza interrompere la produzione, riconvertendola quando necessario per aggirare i protocolli sanitari, talvolta anche in modo grottesco. La seconda cosa che la crisi ha dimostrato è che, a quanto pare, le politiche di austerità si possono momentaneamente “fermare” e il tetto del deficit, così come tutti i meccanismi di stabilità promulgati negli anni, in realtà, quando fa comodo ai padroni possono essere tranquillamente interrotti. Così è stato, con un’iniezione di capitali – il PNRR – senza precedenti, che fa impallidire il piano Marshall per la portata degli investimenti contenuti e l’ampiezza della ristrutturazione capitalistica che comporta.
Per quanto riguarda il piano politico, tutti si aspettavano grandissimi sovvertimenti sociali e destabilizzazioni. Nei fatti quello che non si è prodotto a livello di scontro sociale, almeno in Italia, è dovuto al fatto che si arriva nel periodo della pandemia in un contesto di forti contraddizioni, sia sul piano sociale che economico (in questo caso anche sanitario), senza un elemento soggettivo o delle forze di classe che siano capaci di rispondere al livello dello scontro in atto. La frammentazione e l’insufficienza delle forze di classe ci ha fatto comprendere la necessità di lanciare l’indicazione della costruzione del “Fronte Unico di Classe” come possibile risposta a quello che è l’attacco complessivo dei capitalisti e dei loro governi nei confronti di lavoratori e strati popolari, oltre che come risposta agli attacchi del governo, in particolare contro il governo Draghi quale espressione massima di quella che era la necessità di unità nazionale della borghesia nel dividersi l’enorme immissione di liquidità del PNRR e proseguire senza tentennamenti nel portare avanti le politiche antipopolari.
Adesso c’è un nuovo governo che nei fatti è pienamente in continuità con quello che era il governo Draghi da un punto di vista economico e finanziario, che ha abbracciato in toto l’agenda di sostegno totale ai monopoli, in chiave fortemente euroatlantica e nazionalista. Governo che non farà mancare l’attacco repressivo nei confronti dei segmenti sociali in lotta, dietro la retorica securitaria a cui ci sta già abituando in questi giorni.
In questi anni ci sono stati momenti continui di discussione fra lavoratori, militanti e organizzazioni politiche e sindacali della nostra area che hanno toccato dei livelli talvolta proficui talvolta meno. La sensazione, dopo due anni e mezzo, è che qualcosa comunque sembra essersi sedimentato, forse più a livello politico che sul piano dell’unità sindacale. Cosa pensi a questo riguardo?
Quando abbiamo identificato la necessità di questo percorso lo abbiamo fatto con la consapevolezza che si partiva da un contesto difficile e oggettivamente non c’erano le condizioni ideali per la nascita del sindacato di classe oltre di quello che per noi è il partito politico della classe operaia. Pertanto ci siamo trovati a maturare e a lavorare in un contesto complesso di frammentazione, anche per il fatto che la maggior parte delle strutture sindacali, in questo momento, risponde agli indirizzi di alcune aree politiche spesso in contraddizione tra di loro. Quindi, innanzitutto, abbiamo avuto la necessità di spingere alla discussione i lavoratori e produrre momenti di mobilitazione unitaria che rispondessero alle esigenze e ai bisogni dei lavoratori, attraverso una piattaforma di classe il più unitaria possibile. Se durante la pandemia non si fossero messi in collegamento fra di loro i delegati sindacali per trovare un terreno di unità per i percorsi di lotta e mobilitazione, ci si sarebbe chiusi a riccio rispetto alle singole vertenze, venendo annientati dalla controparte.
E’ questa l’unica strada percorribile, anche oggi, perché altrimenti rischiamo di tornare indietro di decenni, e questo lo desumiamo da quanto si è visto: dagli attacchi ai lavoratori di fronte ai cancelli alla repressione brutale delle manifestazioni studentesche contro l’alternanza scuola-lavoro. Se, dunque, non c’è effettivamente un tentativo di ricercare costantemente l’unità fra lavoratori, studenti e disoccupati – al netto dei limiti e delle problematiche che esistono e non possiamo nascondere – rischiamo di non essere capaci di rispondere alla fase che è in atto e allo scontro che si sta innalzando sempre di più.
Bisogna ripartire dalla lotta di classe. Più che “rappresentare” il conflitto bisogna renderlo reale, vivo, a partire da quello che c’è già, e per noi la cosa importante è stata valorizzare quelle che sono state le esperienze e le lotte operaie provare a metterle in connessione con una prospettiva che andasse oltre la singola scadenza o sciopero, nella direzione di far emergere un polo di classe riconoscibile.
Il 16 ottobre a Roma si è svolto un convegno sul tema della guerra imperialista ed è stata la prima iniziativa di questo tipo costruita insieme da molte organizzazioni di area marxista che hanno preso parte, in un modo o nell’altro, a questi percorsi di discussione durati tre anni a livello politico, sindacale etc. Qual è il tuo punto di vista su questo convegno e iniziative simili?
Il convegno è stato un ottimo primo passo da questo punto vista, perché ha permesso di sedimentare innanzitutto alcune posizioni che nel panorama pubblico non erano scontate su quella che è la guerra imperialista in corso in Ucraina e quali sono i ruoli e le responsabilità degli attori in gioco, cioè la Russia e la Nato. L’elemento di proiezione esterna, quantomeno delle posizioni e la dichiarazione congiunta che siamo riusciti a pubblicare, pone un punto fermo rispetto a quello che è l’avanzamento della discussione politica nella nostra area e cerca anche un po’ di smarcarsi da quelle che sono le due posizioni che nel panorama politico pubblico emergono e che sono totalmente polarizzanti. Vale a dire fra chi sostiene, anche a sinistra (e non solo il PD), in modo acritico la posizione del governo ucraino e l’invio di armi, droni etc. chiamando in causa una non ben compresa resistenza ucraina e dall’altra parte invece il campismo più becero che va da chi sostiene apertamente Putin e chi lo fa in maniera più subdola nascondendosi dietro un presunto anti-imperialismo.
Il nostro obiettivo è stato quello di provare a far emergere una visione alternativa a questo dibattito tossico, contro l’allineamento dei proletari in uno dei due campi borghesi in lotta, contro la guerra che impoverisce e uccide i popoli, per una posizione autonoma della classe operaia che tuteli i suoi interessi, contro l’imperialismo a partire dal nostro, per la chiusura delle basi di morte NATO-USA e il disimpegno dell’Italia dal conflitto. E io credo che nei contenuti siamo riusciti a farlo.
E’ chiaro che poi non basta una conferenza e bisognerà andare già oltre e produrre ulteriore documentazione, dibattito e soprattutto far vivere queste posizioni all’interno della nostra classe, nelle lotte quotidiane, a partire già da quello che saranno il 5 novembre e lo sciopero generale del 2 dicembre. Il punto per noi è quello di far emergere queste verità, attraverso il campo di classe che rappresentiamo, nel dibattito politico, sottolineando che al di là dei posizionamenti borghesi c’è una alternativa autonoma, di classe, che esiste un blocco di forze che questa visione la porta avanti con coerenza, nella lotta, per riuscire a rovesciare questo sistema ormai in decomposizione.
La manifestazione del 5 novembre può essere, in conclusione, un passo in avanti per continuare a dare forza a un processo di mobilitazione che, rafforzato da un rinnovato coinvolgimento delle regioni del centro-sud, possa coprire tutto il territorio nazionale anche in vista dello sciopero del 2 dicembre e delle future iniziative di mobilitazione?
Innanzitutto la cosa centrale su cui noi abbiamo battuto nella promozione della giornata è che il 5 novembre sarà la prima manifestazione con il nuovo governo insediato e operante, quindi effettivamente anche un banco di prova per le forze di classe per verificare la capacità di porre una serie di avanzamenti anche sul terreno della quantità del coinvolgimento, oltre che della qualità.
E’ chiaro d’altronde che esiste una parte di paese, il Sud, tutt’altro che secondaria. Ha un peso specifico nell’economia nazionale, una presenza operaia al di là di quello che si dica importante e che non può assolutamente essere abbandonata alla visione dell’Italia a due velocità. E soprattutto è un terreno sul quale in particolare i Disoccupati “7 Novembre” stanno provando a fare una scommessa rispetto a quello che è un coinvolgimento che storicamente è stato spesso difficile nelle dinamiche di mobilitazione nazionali.
Tuttavia, al di là di quelli che saranno i numeri, possiamo dire che la manifestazione del 5 novembre è un segnale fortemente positivo perché da una parte si è dimostrata la capacità dei disoccupati di organizzarsi e di legarsi soprattutto alle lotte della classe operaia, aspetto questo che può effettivamente essere un punto di riaggregazione fondamentale, innanzitutto nei territori. Dall’altra ovviamente, la piazza di Napoli non sarà solo la piazza dei disoccupati. Sarà una piazza che vuole avere un indirizzo politico chiaro, che si pone in rottura con la narrazione la quale ci ripete che bisogna fare sacrifici e che non c’è alternativa se non quella di fare lavori malpagati e precari. Una piazza che vuole dimostrare che esiste effettivamente la possibilità di organizzarsi per chiedere aumenti salariali, contratti e una vita dignitosa, che esiste un blocco di forze che si oppone alla guerra e che dice che quello che è in atto adesso è un conflitto che è negli interessi dei capitalisti e non dei lavoratori e dei disoccupati. Un conflitto che anzi non fa che esacerbare le contraddizioni esistenti.
Da questo punto di vista sarà una piazza ricca non solo di contenuti ma anche di partecipazioni, perchè ci sono varie realtà: dagli studenti, ai collettivi, ai comitati per la salute, ma soprattutto gli operai della GKN che sono stati un fondamentale elemento di traino rispetto alle mobilitazioni di quest’ultimo anno. Quindi il fatto che si riescano a saldare lavoratori, disoccupati, studenti e vertenze specifiche è sicuramente un elemento positivo perché permette di aggregare attorno a un polo di forze di classe quella che deve essere la risposta a questo governo e alle misure che metterà in campo nei prossimi mesi.
Concludo dicendo che la prospettiva del 5 Novembre, paradossalmente, è già oltre la data stessa. Non ci possiamo fermare lì perché fra meno di un mese ci sarà lo sciopero generale del 2 dicembre, la manifestazione nazionale a Roma il giorno dopo, chiamata unitariamente anche dal sindacalismo di base. Quindi sarà necessario dare tutte le nostre forze e tutta la nostra partecipazione per la riuscita della manifestazione di sabato, per lo sciopero del 2 dicembre prendendo parte agli scioperi, ai picchetti e alle manifestazioni e poi il giorno dopo costruire una grossa mobilitazione nazionale contro la guerra, lo sfruttamento, la repressione, che si sta facendo sempre più forte. Una mobilitazione che dica che effettivamente i lavoratori, i precari, i disoccupati e gli studenti ci sono e sono capaci di dare una risposta concreta, che dicano con forza che è possibile abbattere questo sistema e costruirne uno che permetta una vita dignitosa e piena.