La delocalizzazione della Betafence: pericolo per i lavoratori dell’azienda e dell’indotto di Tortoreto
La Betafence è una multinazionale che in Italia ha sede a Tortoreto (TE) e si occupa di produrre principalmente recinzioni e sistemi di sicurezza. È un attore importante del settore e con il suo fatturato, al quale lo stabilimento di Tortoreto contribuisce ampiamente, si colloca fra le prime aziende.
Il 29 luglio è stata data una notizia a dir poco preoccupante per lavoratori e famiglie nel corso di un incontro, durato cinque minuti, fra dirigenza aziendale e rappresentanti sindacali. Infatti è stata comunicata la decisione secondo cui l’attività nel 2021 “non sarebbe stata più in essere” con chiusura della sede abruzzese, licenziamento dei 155 operai che vi lavorano e delocalizzazione della fabbrica in Polonia. Una scelta necessaria, secondo i padroni, a seguito delle perdite legate alla pandemia globale.
Un’azione coerente con il particolare momento che l’Italia sta attraversando. In molti i casi i padroni stanno approfittando delle conseguenze del lockdown, spesso narrate a uso e consumo delle proprietà più che effettivamente riscontrabili nelle condizioni delle aziende (qui), per procedere con delocalizzazioni e riorganizzazioni aziendali a spese dei lavoratori, con la mira esclusiva ad aumentare i profitti (abbiamo trattato un caso simile qui)
Dall’annuncio del 29 luglio gli operai della Betafence hanno iniziato a organizzarsi con un picchetto fuori dalla sede della fabbrica con l’obiettivo di sorvegliare ed evitare l’inizio delle procedure di trasloco mentre la produzione è sospesa per il mese di agosto e i lavoratori non sono tutti presenti.
Abbiamo parlato con due di loro, i quali però hanno chiesto di rimanere anonimi per paura di eventuali ritorsioni da parte della dirigenza. È evidente dai loro sguardi e dal modo con cui caricano le loro parole che un po’ sperano che questa situazione rientri, in qualche modo, in qualsiasi modo. Ci incontriamo sotto una tettoia di metallo, che gli stessi operai tengono a raccontare sia stata costruita da loro più di vent’anni fa, usando i materiali messi a disposizione dalla fabbrica, per avere un posto dove lasciare le auto all’ombra. Mentre inorgogliti parlano del frutto visibile del loro lavoro, emerge come la fabbrica non sia solo lo stipendio da portare in casa ma soprattutto un luogo di vita. Molti di loro infatti hanno vissuto più della metà delle loro vite lavorando in quello stabilimento. La sede di Tortoreto in cui ora opera la Betafence è una realtà storica, attiva già dalla fine degli anni ’70 come Metallurgia Adriatica. Tutti gli operai vengono dalla provincia di Teramo, da Giulianova, Tortoreto, da Mosciano e dagli altri paesi del teramano.
L’età media dei lavoratori è di cinquant’anni; perlopiù sono operai specializzati che avrebbero serie difficoltà a trovare un altro impiego, pur con le loro qualifiche, in altre realtà del territorio. Ad esempio, c’è chi lavora nel reparto griglia, in cui si procede alla creazione di reti non elettrosaldate, e svolge un’attività che in Italia non viene più seguita in quanto il prodotto finito al giorno d’oggi si è soliti importarlo dalle produzioni cinesi. Altri operai lavorano nella zincatura dei fili, attività molto specifica che in tutto il territorio nazionale viene effettuata da 3-4 fabbriche, secondo quanto riportato degli operai con cui abbiamo parlato. Ma la chiusura dello stabilimento di Tortoreto ha conseguenze non solo sul mantenimento dei posti degli attuali 155 operai perché colpisce anche tutti i lavoratori impiegati nella filiera produttiva e in attività che gravitano attorno alla produzione metallurgica.
Nel corso del nostro colloquio emerge con chiarezza la situazione dell’azienda: la produzione è lievemente oscillata verso il basso nello scorso anno, ma gli utili, che si attestano sui 3 milioni, sono tali da rendere impossibile a chiunque giustificare una delocalizzazione per deficienze economiche. Così diventa evidente quanto la delocalizzazione sia una manovra meramente speculativa.
La dirigenza Betafence ha già attuato negli anni la ricetta di riduzione dell’occupazione attraverso il ricorso agli ammortizzatori sociali o cassa integrazione per alcuni lavoratori per reintegrarli nei periodi di maggiore richiesta, come è avvenuto, ad esempio, nell’ultimo periodo in cui si dovevano fabbricare dei particolari prodotti utilizzati in numerosi stadi. Proprio su questa stagionalità intercettiamo la testimonianza del lavoratore più giovane, un ragazzo sui venti anni che ci racconta di essere diventato effettivo alla Betafence da solo tre anni. Prima comunque lavorava lì, ma tramite agenzie di somministrazione di personale. “Il contratto più lungo che ho avuto è stato di un mese, sennò sempre una settimana, o qualcosa di più”, un periodo, questo, attraverso l’inferno delle agenzie interinali, durato tre anni prima di essere assunto come effettivo. “Anche durante i giorni del lockdown” – ci spiega – “la fabbrica era in piena funzionalità anche se con l’80% del personale. Il lavoro era organizzato in turni per le attività strettamente necessarie”.
Col senno di poi gli operai rintracciano alcune avvisaglie della volontà di delocalizzare: ci raccontano che alcune attività “meno interessanti” si percepivano come economicamente poco sostenute con il sentore diffuso di reparti progressivamente abbandonati per mancanza di investimenti, ma tutto ciò lasciava immaginare al massimo una ristrutturazione della produzione non una chiusura completa. La possibilità di fare previsioni sul futuro del polo produttivo era resa ancora più complessa dall’inesistenza di confronti con la proprietà (la Betafence è stata acquisita da Cvc alla fine del 2014).
I lavoratori sorridono amaramente mentre ci dicono che i padroni non sono mai andati in azienda, “non sanno nemmeno cosa produciamo: se gli mettiamo davanti un pezzo fatto da noi, non sono nemmeno in grado di capire da dove viene, gli interessano solo i soldi”.
Il livello organizzativo della protesta è ancora alle prime fasi. La comunicazione del licenziamento è avvenuta solo pochi giorni fa e la protesta è stata dichiarata da allora fino alle 6:00 del 11 agosto, data in cui si è svolto un primo presidio dei lavoratori con il fine di coinvolgere maggiormente la popolazione.
Agosto è un mese in cui la produzione si mette in pausa, l’inizio delle attività produttive è fissato per il 24 agosto e il dibattito interno tra gli operai è incentrato sullo spirito con il quale tornare a lavorare vista la spada di Damocle del licenziamento entro la fine dell’anno.
La vicenda di cui parliamo è una delle conseguenze del modello capitalistico basato sulla ricerca del profitto. La crisi economica e sociale per le classi dominanti rappresenta una ghiotta occasione per conseguire ulteriormente i propri interessi a scapito dei lavoratori e delle classi popolari. Il decreto Rilancio acuisce questa tendenza, scaricando ancor di più il prezzo della crisi su chi produce realmente ricchezza, lasciando enormi margini di manovra alle imprese che intendono comprimere i diritti dei lavoratori e approfittare della situazione scaturita dalla pandemia globale per procedere a riorganizzazioni aziendali sulla pelle del personale. Laddove non vi riescano o lo ritengano più conveniente, la priorità, come nel caso della Betafence, è la delocalizzazione.
In questo contesto agire per far avanzare le coscienze dei lavoratori e per superare la frammentazione delle lotte, che permette ai padroni di colpire vertenza per vertenza, conseguendo i loro interessi vittoria su vittoria, rappresenta una necessità inderogabile e non più rimandabile. L’unità dei lavoratori e delle loro lotte dovrà essere perseguita per rispondere all’attacco padronale che già in questi primi mesi dopo il lockdown si scaglia su lavoratori e famiglie.
Giacomo Pio