LA GUERRA E IL DECLINO DEL RE DOLLARO
L’effetto boomerang delle sanzioni sul ruolo egemonico del dollaro
La guerra è sempre più “senza limiti”, contemplando un’ampia gamma di misure e mezzi non letali ma comunque devastanti per gli stati e le popolazioni che ne sono oggetto. Tra i diversi tipi di guerra non letale c’è la guerra economica e finanziaria, che si declina anche come guerra valutaria, utilizzando le valute e gli scambi tra queste come strumento per piegare il nemico.
Gli Usa da tempo utilizzano il dollaro, che è la moneta di riserva e di scambio internazionale, come strumento di guerra e di pressione sui propri avversari. Quest’uso è particolarmente evidente nel conflitto tra l’Ucraina, sostenuta dagli Usa, e la Russia. Gli Usa hanno fatto in modo di espellere la Russia dal circuito Swift, che è un servizio di messaggeria necessario agli scambi internazionali di merci. In più, hanno bloccato le riserve in dollari detenute dalla Banca centrale russa e sottoposto la Russia a uno spettro di sanzioni che si allarga sempre di più e che coinvolge banche, singoli capitalisti, imprese, spazi aerei, viaggi. Tutto questo mira a colpire il rublo, svalutandolo e alimentando l’inflazione e portando la Russia al default del debito. Recentemente l’agenzia di rating Standard & Poor ha declassato il debito estero russo a causa di un “default selettivo”, perché Mosca ha pagato in rubli un bond denominato in dollari. Soprattutto, la Russia è minacciata dal blocco delle importazioni delle sue materie prime energetiche, da parte dell’Ue, che ne è il principale acquirente mondiale. Si pensi che l’Italia, ad esempio, importa ben il 40% del suo fabbisogno di gas dalla Russia. Senza esportazioni di materie prime, specie energetiche, la bilancia commerciale della Russia diventerebbe negativa e il gettito fiscale che consente allo Stato russo di pagare le sue spese, comprese quelle belliche, sarebbe drasticamente ridotto.
La Russia ha reagito alle sanzioni occidentali minacciando di far pagare le importazioni Ue delle sue materie prime energetiche, petrolio, gas e carbone, in rubli anziché in dollari ed euro. Di conseguenza il rublo, che si era molto svalutato rispetto al dollaro a causa delle sanzioni, è rapidamente risalito. Soprattutto, la Russia sta reindirizzando in direzione di altri Paesi parte delle esportazioni di petrolio e gas verso l’Ue. Infatti, il ministro degli Esteri russo, Lavrov, si è recato in India per offrire il petrolio Ural, che Mosca non riesce più a vendere ai Paesi occidentali, per l’equivalente di 35 dollari al barile. Si tratta di prezzi stracciati, visto che il petrolio Brent è quotato intorno ai 106 dollari al barile. L’India ha acquistato dalla fine di febbraio fino all’inizio di aprile ben 13 milioni di barili di petrolio russo, a fronte di un acquisto di circa 16 milioni di barili durante tutto il 2021. Ma l’aspetto più importante è che la Russia ha proposto un sistema di pagamenti in rubli e rupie per regolare le transazioni. Mosca, inoltre, ha coinvolto l’India nel suo sistema Spts, alternativo allo Swift, per aggirare le sanzioni. L’uso del rublo potrebbe venire esteso anche alla commercializzazione di altri prodotti tipici dell’export russo, per esempio al grano destinato a Turchia, Egitto, Iran e Arabia saudita. Inoltre, la Cina, seconda economia mondiale, potrebbe mettere a disposizione della Russia il Cross-border Interbank Payment System (Cips), il proprio sistema di pagamenti internazionali, lanciato nel 2015 per ridurre la dipendenza dal dollaro, internazionalizzare la propria valuta (lo yuan renminbi) e spingerne l’uso fra i Paesi coinvolti nella Nuova via della seta.
La decisione dell’India di accogliere le richieste della Russia, specie l’aggiramento del sistema Swift, ha fortemente irritato gli Usa. Il vice consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Daleep Singh ha dichiarato: “Non vorremmo vedere sistemi progettati per sostenere il rublo o minare il sistema finanziario basato sul dollaro o per aggirare le nostre sanzioni…ci sono conseguenze per i Paesi che lo fanno” (G. Di Donfrancesco, “Lavrov in India per offrire greggio ma Washington lancia l’allarme”, Il Sole24ore, 1 aprile 2022). Il punto è che le sanzioni occidentali e statunitensi contro la Russia, che sono largamente basate sull’egemonia del dollaro, rischiano di provocare un effetto boomerang sul dollaro stesso, minando l’egemonia della valuta statunitense. Infatti, l’egemonia del dollaro è tale finché esso è la valuta di transazione internazionale per eccellenza e, di conseguenza, la valuta in cui le banche centrali mondiali detengono le proprie riserve. Se le sanzioni spingono a utilizzare altre valute che non siano il dollaro ne risulta minata la forza stessa del dollaro. È da un paio di decenni che l’egemonia del dollaro si sta erodendo, a causa soprattutto dell’aumento degli scambi su scala regionale e come risposta di Paesi che vogliono sottrarsi al dominio valutario degli Usa. Tra 1999 e 2021 le riserve in dollari detenute dalle banche centrali sono scese dal 71% al 59% (International Monetary Fund, The Stealth erosion of dollar dominance.). Inoltre, oggi, il dollaro conta per il 40% delle transazioni internazionali, l’euro per il 35%, la sterlina per il 6% e lo yuan per il 3% (G, Di Donfrancesco, “L’Fmi: le sanzioni alla Russia minano l’egemonia del dollaro”, Il Sole24ore, 1 aprile 2022).
A esprimere preoccupazioni sulla tenuta del dollaro come valuta mondiale è stato recentemente il Fondo monetario internazionale in un suo rapporto, dove si legge: “l’esclusione dal sistema di messaggistica Swift potrebbe accelerare gli sforzi per sviluppare alternative. Ciò ridurrebbe i vantaggi in termini di efficienza derivanti dall’avere un unico sistema globale, e potrebbe potenzialmente ridurre il ruolo dominante del dollaro nei mercati finanziari e nei pagamenti internazionali” (G, Di Donfrancesco, “L’Fmi: le sanzioni alla Russia minano l’egemonia del dollaro”, Il Sole24ore, 1 aprile 2022).
Le origini dell’egemonia del dollaro
Le origini dell’egemonia del dollaro risalgono al periodo precedente la Prima guerra mondiale. Nel 1913, fu creata la banca centrale statunitense, la Federal Reserve Bank, in concomitanza con il sorpasso dell’economia britannica, precedentemente egemone a livello mondiale, da parte di quella statunitense. Tuttavia, il commercio mondiale rimase ancora centrato sul Regno Unito, dal momento che la maggioranza delle transazioni avveniva in sterline. All’epoca vigeva il gold standard: la maggior parte dei paesi sviluppati del mondo agganciavano le proprie valute all’oro, ossia ogni valuta corrispondeva a un determinato quantitativo di oro, che quindi rappresentava la misura degli scambi valutari. Con la Prima guerra mondiale molti paesi abbandonarono il gold standard, stampando massicciamente denaro per finanziare le spese militari. Questo provocò la svalutazione delle loro valute. Il Regno Unito, invece, mantenne la sterlina legata all’oro, per conservarle il ruolo di moneta mondiale, ma fu costretto, a partire dal terzo anno di guerra e per la prima volta nella sua storia, a prendere a prestito denaro dall’estero. Il Regno Unito e gli altri Paesi alleati divennero debitori degli Usa, che gli fornivano armi e derrate alimentari, permettendogli così di vincere la guerra contro la Germania e l’Austria-Ungheria. Per pagare i debiti contratti con gli Usa i Paesi debitori usarono l’oro, svuotando le loro riserve. In questo modo gli Usa alla fine della guerra divennero il principale possessore di riserve auree. Gli altri Paesi, privi delle loro riserve in oro, non poterono più ritornare al gold standard alla fine della Prima guerra mondiale. Nel 1931 anche il Regno Unito abbandonò definitivamente il gold standard e il dollaro sostituì la sterlina come valuta di riserva mondiale.
Fu, però, solo dopo la Seconda guerra mondiale che il dollaro vide consacrato il suo ruolo di moneta mondiale grazie agli accordi di Bretton Woods. In questa località del New Hampshire nel 1944 si riunirono i delegati di 44 paesi alleati per definire gli assetti economici dopo la sconfitta della Germania che si prevedeva imminente. I delegati decisero di abbandonare il gold standard: le valute mondiali non sarebbero più state agganciate all’oro bensì al dollaro, che a sua volta era agganciato all’oro. In caso di richiesta i paesi creditori in dollari sarebbero stati pagati dagli Usa in oro. In questo modo, le banche centrali dei Paesi aderenti a Bretton Woods anziché oro accumularono dollari, attraverso l’acquisto di titoli di Stato statunitensi. Il sistema, però, entrò in crisi alla fine degli anni ’60, perché gli Usa, per finanziare il crescente deficit pubblico dovuto alla guerra in Vietnam e ai programmi di welfare interni, cominciarono a inondare il mercato di dollari. Preoccupati per la stabilità del dollaro, che perdeva valore, i creditori degli Usa cominciarono a chiedere di essere pagati in oro. Ciò spaventò il governo statunitense che temette di perdere le proprie riserve in oro. Per questa ragione il presidente Richard Nixon nel 1971 sganciò il dollaro dall’oro, sospendendo la convertibilità del biglietto verde nel metallo prezioso. A partire dal 1973, inoltre, i tassi di cambio tra le valute furono lasciati liberi di fluttuare. Il dollaro rimase la valuta mondiale ma con il vantaggio, per gli Usa, di garantirsi la possibilità di pagare le importazioni e il debito pubblico semplicemente stampando dollari.
Cosa comporta la centralità del dollaro
Il dollaro rimane, fino ad ora, il re delle valute. Oltre a rappresentare la maggior parte delle riserve valutarie mondiali è moneta di scambio nel commercio internazionale. La maggior parte delle materie prime, incluso il petrolio, sono comprate e vendute in dollari e diversi Paesi, come l’Arabia Saudita, tengono la loro valuta agganciata al dollaro.
Non a caso, lo status mondiale del dollaro negli anni ’60 è stato definito “l’esorbitante privilegio” degli Usa dal ministro delle finanze francese Valery Giscard d’Estaing. La domanda di dollari a livello mondiale permette agli Usa di finanziarsi a basso costo. Grazie alla sostenuta domanda mondiale di dollari gli Usa possono collocare i propri titoli di stato a basso costo, pagando cioè tassi d’interesse ridotti agli acquirenti. Grazie a questo, dal 1968, gli Usa cominciarono ad accumulare un crescente e quasi ininterrotto deficit del commercio estero che è sostenuto dalla domanda di riserve valutarie in dollari. Nel 2021 il debito commerciale (solo beni) statunitense ammontava alla colossale cifra di 1.182 miliardi di dollari (Unctad, Data center), mentre il debito pubblico ha raggiunto, sempre nel 2021, i 30,5 trilioni di dollari, vale a dire il 133,3% rispetto al Pil e 2,7 trilioni di dollari in più rispetto all’anno precedente ( International monetary fund, Database).
La centralità del dollaro nei pagamenti internazionali aumenta anche il potere degli Usa di imporre sanzioni finanziarie. Infatti, il commercio in dollari, compreso quello effettuato tra Paesi terzi, può essere soggetto alle sanzioni perché i pagamenti in dollari di banche e imprese internazionali sono gestiti attraverso le cosiddette banche statunitensi “corrispondenti” con conti presso la Federal Bank. L’uso di questi conti significa che ogni transazione che tecnicamente tocchi il suolo statunitense dà agli Usa giurisdizione legale e quindi la capacità di bloccare le transazioni indesiderate. In questo modo, gli Usa possono rendere difficile fare affari a Paesi e imprese che sono nella “lista nera”. Nel 2015 la banca francese BNP Paribas dovette pagare una multa di 9 miliardi di dollari per aver violato le sanzioni processando pagamenti in dollari da Cuba, Iran e Sudan.
Come abbiamo detto sopra, l’uso del dollaro per le transazioni internazionali spinge altri Paesi a sviluppare propri sistemi di pagamento alternativi al dollaro. Alcuni Paesi europei, tra cui Francia e Germania, provarono nel 2015 a dare luogo a un sistema di pagamento, Instex, che bypassasse il dollaro nelle transazioni con l’Iran, Paese sottoposto a sanzioni dagli Usa. Tuttavia, Instex non ha avuto grande successo ed è stato usato una sola volta. Un ruolo maggiore è ricoperto dal già citato sistema cinese Cips. Il Cips usa il sistema di messaggeria Swift, ma molti esperti si aspettano che il sistema si evolva in modo da fare a meno di Swift. Ad ogni modo, la Cina ha stipulato accordi con la Turchia e il Pakistan per commercializzare beni in yuan e ha stabilito un sistema basato sullo yuan per permettere ai Serbi di usare le loro carte di credito locali in altri Paesi. Inoltre, le transazioni tra Russia e Cina in rubli e yuan sono passate dal 7% dell’interscambio commerciale nel 2013 a più del 18% nel 2017. (Justin Scheck e Bradley Hope, The dollar underpins American power. Rivals are building workarounds, May 29, 2019).
Il mutamento dei rapporti di forza economici e militari e il dollaro
Il dollaro non è soltanto uno strumento di guerra per gli Usa, ma rappresenta l’architrave stessa della loro egemonia mondiale: col dollaro gli Usa finanziano il loro Stato e indirettamente tutta la loro economia. Senza il dollaro gli Usa non potrebbero sostenere il loro doppio debito, quello pubblico e quello commerciale.
I fattori che hanno contribuito al dominio del dollaro sono la grandezza dell’economia e l’influenza geopolitica degli Usa. Quando il dollaro divenne moneta mondiale gli Usa producevano la metà del prodotto interno mondiale. Oggi, non è più così. La Cina sta mettendo in serio pericolo il primato degli Usa, che, in termini di Pil a parità di potere d’acquisto, sono già stati superati. Ma nel corso degli ultimi decenni si è ridotta anche la distanza tra il Pil degli Usa e quello degli altri Paesi avanzati, come il Giappone e la Germania. L’economia statunitense ha un carattere fortemente parassitario. Anche più di quanto non accadesse all’epoca dell’egemonia britannica. All’epoca, l’imperialismo britannico poteva basarsi sulle risorse estorte alle colonie, in particolare all’India. Tuttavia, la sterlina era basata su qualcosa di tangibile, cioè sull’oro. Oggi, il dollaro non ha dietro di sé nulla di concreto e di reale che non siano le Forze armate statunitensi.
Infatti, dal momento che perdono forza economica, gli Usa fanno sempre più affidamento sull’influenza geopolitica, che deriva in gran parte dal fatto che gli Usa possono disporre di una forza militare senza confronti. Si innesca, a questo punto, un circolo vizioso: gli Usa mantengono l’egemonia del dollaro grazie alla forza militare e mantengono la forza militare grazie al dollaro. Quindi, se il dollaro perde forza a livello mondiale risulta più difficile per gli Usa mantenere la loro forza militare e se viene meno quest’ultima viene meno anche l’egemonia del dollaro. Insomma, se si rompe il “giocattolo” del dollaro gli Usa rischiano una crisi radicale. Per questo gli Usa sono letteralmente terrorizzati dalla possibilità che altri Paesi possano abbandonare il dollaro nelle loro transazioni commerciali, come sta accadendo con la Russia e altri Paesi sulla spinta della guerra in Ucraina. Il peggioramento dei rapporti di forza economici e la necessità di mantenere, nonostante questo declino, l’influenza geopolitica spinge gli Usa verso una tendenza alla guerra. Una guerra che alcune volte viene combattuta direttamente, come in Iraq, e a volte indirettamente, come in Ucraina. Nella guerra attualmente in corso la vera contesa è tra la Russia e gli Usa e l’oggetto del contendere va ben oltre i territori del Donbass e la città di Mariupol. Il vero oggetto del contendere, nelle pianure dell’Ucraina e dell’Europa orientale, è l’influenza geopolitica degli Usa e, attraverso di essa, la capacità del dollaro di mantenersi moneta di scambio e di riserva mondiale. È del tutto evidente, in un quadro siffatto, che gli Usa non hanno alcun interesse al compromesso e alla pace. L’obiettivo statunitense è l’eliminazione della Russia come potenza autonoma a ridosso dell’Europa, che è ancora, se non il baricentro del potere mondiale, almeno uno dei due baricentri del potere mondiale insieme all’area dell’Indo-pacifico dove si affacciano India, Giappone e soprattutto Cina.