Il 22 maggio il parlamento danese (Folketing) ha approvato, con 81 voti a favore e 21 contrari, l’innalzamento dell’età pensionabile a 70 anni per tutti i nati a partire dal 1 gennaio 1970. A favore della misura ha votato compatta la coalizione di governo, che comprende il partito socialdemocratico del primo ministro Mette Frederiksen. Tra i contrari si distingue invece l’ultraconservatore e razzista Danske Folkeparti (Partito Popolare Danese, nello stesso gruppo di Lega, Vox e Fidesz al Parlamento Europeo) che, in analogia con quanto fatto ad esempio dalla Meloni durante il governo Draghi, cerca ipocritamente di capitalizzare l’opposizione alle misure più indigeste del governo in carica in vista della prossima tornata elettorale, presentandosi come il difensore del cittadino comune.
Questo aggiustamento, che innalza l’età pensionabile di ben 3 anni rispetto a quella attuale e piazza la Danimarca ai vertici mondiali di questa poco invidiabile classifica, è stato presentato come un mero automatismo derivante dall’aumento dell’aspettativa di vita, così come stabilito nel Velfærdsaftalen (accordo sul welfare) del 2006. Il paese ha un’aspettativa di vita (al 2023) di 81,8 anni[1], in linea con molti altri paesi europei. Tuttavia, l’aspettativa di vita sana, ovvero in assenza di malattie medio/gravi, è di soli 55,8 anni[2]. Questo dato, ovviamente non preso in considerazione nella determinazione dell’età pensionabile, rappresenta il secondo peggiore dell’intera UE (soltanto la Lettonia riesce a fare peggio mentre in Italia, per dare un riferimento, l’aspettativa di vita sana è di ben 12 anni più elevata) e significa che i nati dal 1970 in poi saranno costretti a lavorare per più di 10 anni in condizioni di salute non buona, prima di poter finalmente andare in pensione (sempre che ci arrivino).

Manifestanti protestano a Copenaghen contro l’innalzamento dell’età pensionabile (foto da Arbejderen)
La misura non è ovviamente un unicum del paese scandinavo ma si inserisce nella generale compressione dei diritti sociali e delle tutele per i lavoratori in corso ormai da anni nell’intera Unione Europea, giustificata inizialmente con la necessità di tenere i conti pubblici sotto controllo e, dal 2022 in poi, con lo scopo apertamente dichiarato di finanziare il riarmo in funzione anti-russa e la creazione di un forte polo imperialista europeo. Rimanendo alla Danimarca, il paese ha ad esempio visto negli scorsi anni crescenti strette ai termini dell’erogazione dell’assegno di disoccupazione a carico dello stato (kontanthjælp), con critiche (“incentivo alla disoccupazione”, “reddito di nullafacenza”, etc.) del tutto simili a quelle portate in Italia contro il reddito di cittadinanza. È interessante notare come, a differenza dell’innalzamento dell’età pensionabile, il Danske Folkeparti sia stato in questo caso uno dei più accaniti promotori delle ripetute strette[3], probabilmente avendo identificato la platea dei precettori di kontanthjælp come troppo limitata e non interessante in termini di consenso elettorale e mostrando quindi il suo vero volto di partito ferocemente filo-padronale.
Soltanto un mese fa, poi, è arrivata una riforma degli uffici pubblici dell’impiego che va a limitarne le già insufficienti attività a supporto dei disoccupati. Nel nome dello “snellimento”, della “sburocratizzazione” e basandosi sulla cattiva fama di questi centri (giudicati da molti come inefficienti e dove spesso, così come accade in Italia, il disoccupato finisce per essere messo sotto accusa e incolpato per la sua condizione), viene fortemente limitato il numero di colloqui tra disoccupati e assistenti per l’impiego. In più, l’organizzazione delle attività viene decentralizzata e demandata ai singoli comuni, andando così a perpetuare e approfondire le disparità territoriali già esistenti tra, ad esempio, i ricchi comuni dell’area di Copenaghen e quelli più poveri della Danimarca occidentale, già affetti da più alti tassi di disoccupazione.
Andando leggermente più indietro nel tempo, infine, nel 2023 era stata cancellata una festività locale molto sentita, lo Store Bededag (Grande giorno di preghiera), con lo scopo dichiarato di utilizzare le risorse derivanti dalla maggiore produttività per l’ammodernamento dell’esercito[4].

Nadine, che si è recentemente vista revocare la cittadinanza danese, ottenuta quasi 20 anni fa, a causa di un commento pro-palestinese su Facebook (foto da TV2)
La compressione dei diritti sociali va di pari passo con la limitazione delle possibilità di dissenso (di cui avevamo già parlato in un articolo dello scorso anno riguardo le proteste contro il genocidio israeliano a Gaza[5]) e la crescente irreggimentazione della vita pubblica. Ne è un esempio il recentissimo caso di una donna, Nadine (il cognome non è stato reso noto), che si è vista ritirare la cittadinanza danese, ottenuta quasi 20 anni fa, per aver espresso il suo sostegno alla resistenza palestinese in un post su Facebook[6].
Ha fatto poi notizia anche in Italia la lettera aperta recentemente co-firmata dalla premier Mette Frederiksen e da Giorgia Meloni (assieme ai leader di altri 5 paesi europei) e destinata alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[7], la quale viene accusata di limitare, con le sue sentenze, la possibilità per gli stati nazionali di espellere stranieri dai loro territori. Mentre per l’Italia la motivazione dietro la lettera è la ben nota controversia attorno ai centri per migranti esternalizzati in Albania, nel caso della Danimarca le ragioni vanno ricercate nel caso di Zana Sharafane, un cittadino iracheno (benché nato e residente in Danimarca per ben 23 anni), che si era visto espulso alla volta dell’Iraq (un paese con il quale, come scritto, non ha quasi alcun legame, e nel quale tortura e pena di morte sono ampiamente utilizzate) in seguito a una condanna a 2 anni e mezzo di carcere per traffico di droga[8]. L’espulsione è poi stata fermata dalla suddetta Corte in quanto “sproporzionata” e irrispettosa dei forti legami dell’uomo con la Danimarca.

Mette Frederiksen e Giorgia Meloni insieme a Roma (foto dal profilo Instagram del primo ministro danese)
Allo stesso tempo, la Danimarca è, come molti altri paesi europei, alle prese con un imponente piano di riarmo (25,5 miliardi di euro da spendere nei prossimi dieci anni[9], per un paese con una popolazione comparabile alla regione Lazio) e punta a superare il 3% del PIL destinato alle spese militari già nell’anno corrente[10] (piazzandosi, anche in questo caso, ai vertici di questa non invidiabile classifica a livello NATO). Il paese è anche estremamente attivo nel supporto all’Ucraina, con quasi 10 miliardi di euro di aiuti (per la maggior parte espressamente classificati come di tipo militare, tra cui ben 19 caccia F-16) inviati dal 2022 a oggi[11] e posizionandosi quindi come il secondo maggior donatore in termini relativi. Per dare un’idea, la Danimarca ha destinato più del 2,3% del proprio PIL in supporto all’Ucraina mentre USA e Regno Unito si fermano a poco più dello 0,5%.
Più che concentrarsi sull’ennesimo caso di tagli alle spese sociali per finanziare il riarmo, di cui si possono trovare innumerevoli casi in giro per il mondo, è però interessante osservare e discutere di come tutte le misure sopra elencate abbiano incontrato un’opposizione quasi nulla, con la pace sociale che continua a regnare indisturbata nel paese. Le piccole manifestazioni di sparuti gruppi (principalmente militanti comunisti e frange sindacali più combattive) tenutesi davanti al parlamento nei giorni dell’approvazione[12] non fanno che mettere ancora più in risalto, semmai fosse possibile, il silenzio assordante dei grandi sindacati. Pochissime e deboli sono state anche soltanto le prese di posizione a mezzo stampa contro la riforma dell’età pensionabile, per non parlare poi di una qualsivoglia mobilitazione dei lavoratori o proclamazione di scioperi, neanche lontanamente contemplate. Il confronto con le manifestazioni oceaniche e i duri scioperi che hanno paralizzato la Francia un paio di anni fa in occasione di un’analoga riforma (che, per dare un’idea, innalzava l’età pensionabile a “soli” 65 anni), così come con l’ondata di scioperi di poco successiva nel Regno Unito, innescata invece dal carovita, è impietoso.
Apparentemente, questa descrizione può sembrare stridere con il “mito” dei paesi scandinavi, ampiamente diffuso in Italia, come paesi caratterizzati da un’alta sindacalizzazione (in Danimarca questa è infatti del 67%, inferiore a livello mondiale soltanto all’Islanda e a Cuba e doppia rispetto all’Italia[13]) e di conseguenza una forte coscienza di classe e combattività dei lavoratori. In realtà, i sindacati danesi hanno, così come quelli degli altri paesi scandinavi, radici riformiste e concertative che li caratterizzano molto più in profondità rispetto agli omologhi italiani. La cordiale collaborazione tra burocrazie sindacali e padronato, coalizzati nel nome di un mercato del lavoro pacificato e con condizioni “corrette” (questo è il termine che viene immancabilmente utilizzato in quest’ambito), risale infatti fino al 1899, ovvero agli accordi (Septemberforliget[14]) che posero fine alla serrata, durata ben 100 giorni, decisa dalle associazioni padronali per mettere un freno alla combattività della classe lavoratrice. Quel confronto (la cui durezza è testimoniata dal nome di Guerra della fame, Hungerkrigen[15], che gli è stato attribuito) pose le basi del cosiddetto modello danese, ovvero un modello di relazioni del lavoro in cui la stragrande maggioranza delle condizioni (orario di lavoro, salario, etc.) è determinata dalla contrattazione tra parti datoriali e sindacati, con una minima intromissione dello Stato. Per fare un esempio, i paesi scandinavi sono, assieme all’Italia e all’Austria, gli unici all’interno dell’UE a non prevedere (e rifiutare caparbiamente) un salario minimo fissato per legge.
Questo modello di relazioni sindacali, in cui la dialettica tra lavoratori e padroni è ben evidente, tanto nel privato quanto nel pubblico, potrebbe a una prima impressione sembrare più spontaneo e “sano” rispetto a quello concertativo impostosi in Italia, in cui le grandi organizzazioni confederali o perlomeno le loro dirigenze sono per molti versi cooptate all’interno del sistema di potere statale, con gli effetti deleteri in termini di potere contrattuale e coscienza di classe dei lavoratori che sono sotto gli occhi di tutti.
In realtà, rimosse le apparenze, anche in Danimarca la stragrande maggioranza dei sindacati ha assunto da lungo tempo funzioni e ruoli non propri, come ad esempio l’erogazione degli assegni di disoccupazione, l’organizzazione di corsi di formazione ed eventi di networking. Il che, tra l’altro, spiega anche l’alto tasso di sindacalizzazione, prodotto da ragioni di necessità e interesse spicciolo più che di reale convinzione.
Più in generale, poi, la storica assenza di un forte partito comunista capace di indicare un’alternativa di sistema (come testimoniato dal fatto che il Partito Comunista di Danimarca, DKP, non è mai riuscito a salire sopra il 5% dei voti[16][17]) ha fatto sì che i sindacati finissero ben presto nelle braccia del partito socialdemocratico, facendone propria l’attitudine riformista e apertamente anticomunista (basti dire che il partito governò sotto l’occupazione l’occupazione da parte del fascismo tedesco fino al 1943).
Addirittura, molti sindacati sono arrivati a macchiarsi, tra il 1944 e il 1973, della partecipazione dei loro quadri a un “servizio segreto” informale (AIC, creato proprio dai socialdemocratici), avente lo scopo dichiarato di prevenire l’infiltrazione comunista all’interno delle organizzazioni dei lavoratori[18].
Una volta interiorizzato il ristretto orizzonte riformista e rifiutata ogni idea di cambiamento radicale della società, anche i frequenti scioperi (la Danimarca è il paese europeo che sciopera di più dopo la Francia[19]) cessano di essere delle “palestre di guerra rivoluzionaria” (come avrebbe detto Lenin[20]) che danno alla classe lavoratrice coscienza di sé e delle proprie potenzialità, e non diventano altro che vuoti rituali, ripetuti ciclicamente in occasione delle periodiche tornate di rinnovi contrattuali e sopportati pazientemente dai padroni, che pregustano l’assoluta tranquillità (gli scioperi sono legali solo e soltanto in occasione delle contrattazioni collettive) degli anni a venire. Da arma per puntare a un cambiamento totale della società a celebrazioni che cementano i rapporti di produzione correnti e la subordinazione dei lavoratori, anestetizzati e incapaci di concepire un modello sociale alternativo.
In ultimo ma non meno importante, l’apparente assenza dello Stato nel conflitto tra capitale e lavoro (a eccezione dei momenti in cui questo si fa più estremo, come nell’ondata di scioperi del 1998[21], infine precettata dal governo) non fa che celarne agli occhi dei più la reale natura di classe, disarmando ancor di più i lavoratori e rendendo la classe permeabile all’infiltrazione delle idee borghesi, di cui lo Stato è il principale megafono. Questo si può ad esempio constatare riguardo la guerra tra Russia e Ucraina, dove i cittadini danesi, vittime di una propaganda martellante, spiccano tra gli europei[22] per il loro cieco supporto a Kiev.
Se finora il paese mantiene degli standard di vita significativamente superiori al resto d’Europa (grazie a un’elevata produttività del lavoro, che offre ai padroni ampi margini di guadagno e possibilità di elargire maggiori concessioni) ed ha evitato i tagli draconiani alla spesa sociale che hanno afflitto i paesi del Sud, è fuori discussione il fatto che l’acuirsi della crisi mondiale e delle tensioni inter-imperialistiche preparano anche in Danimarca nuovi, duri attacchi ai diritti dei lavoratori, che oggi appaiono quanto mai atomizzati e disorganizzati. È quindi anche qui indispensabile agire per il ricompattamento della classe operaia (partendo ad esempio dalle frange più combattive del sindacato 3F, che hanno nei giorni scorsi protestato davanti al parlamento[12]) e la ricostruzione di un forte Partito Comunista. In quest’ultimo caso lascia ben sperare il recente ricongiungimento tra il Partito Comunista di Danimarca (DKP, il partito comunista storico, originatosi, similmente al Partito Comunista d’Italia, da una scissione dai socialdemocratici all’indomani della Grande Guerra) e il Partito Comunista in Danimarca (KPiD, separatosi proprio dal DKP all’indomani della caduta del Muro)[23]. Entrambi i partiti contano tuttavia poche decine di membri e sono attorniati da una miriade di altre micro-formazioni, disperdendo gli sforzi militanti in mille rivoli. Molta strada è dunque ancora da fare prima che i comunisti acquistino il ruolo che gli spetta come autorevole riferimento e guida della classe operaia, ma, come in Italia, quella della ricostruzione comunista appare come l’unica speranza di riscossa per gli strati popolari di fronte a un sistema di sfruttamento e guerra.
Note
[1] https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Mortality_and_life_expectancy_statistics
[2] https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Healthy_life_years_statistics
[3] https://danskfolkeparti.dk/holdninger/arbejdsmarkedet/
[4] https://www.dr.dk/nyheder/indland/explainer-hvorfor-vil-regeringen-afskaffe-store-bededag
[5] https://www.lordinenuovo.it/2024/07/11/il-sostegno-alla-causa-palestinese-sotto-attacco-anche-in-danimarca/
[6] https://www.tv2fyn.dk/nordfyn/skrev-hurtig-kommentar-pa-facebook-nu-risikerer-fynske-nadine-at-blive-udvist-af-landet-med-to-sma-born
[7] https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/05/23/migranti-meloni-allattacco-della-convenzione-sui-diritti-delluomo-iniziativa-con-danimarca-e-altri-sette/7999859/
[8] https://universalrights.dk/denmarks-deportation-of-zana-sharafane-disproportionate/
[9] https://www.euronews.com/2025/02/19/denmark-to-boost-defence-spending-by-67bn-over-next-two-years
[10] https://www.fmn.dk/en/news/2025/agreement-putting-denmark-at-more-than-3-pct.-of-gdp-allocated-for-defence-in-2025-and-2026/
[11] https://um.dk/en/foreign-policy/danish-support-for-ukraine
[12] https://arbejderen.dk/fagligt/politikerne-moedes-af-velkendt-krav-stop-stigningen-i-pensionsalderen/
[13] https://www.statista.com/statistics/1356735/labor-unions-most-unionized-countries-worldwide/
[14] https://da.wikipedia.org/wiki/Septemberforliget
[15] https://da.wikipedia.org/wiki/Storlockouten_i_1899
[16] https://da.wikipedia.org/wiki/Danmarks_Kommunistiske_Parti
[17] L’unica eccezione è rappresentata dalle elezioni del 1945, svoltesi nel clima eccezionale del post-liberazione, in cui il partito raggiunse il 12,5%
[18] https://da.wikipedia.org/wiki/Arbejderbev%C3%A6gelsens_Informations_Central
[19] https://www.statista.com/chart/20167/the-countries-which-go-on-strike-the-most/
[20] “Lo sciopero insegna agli operai a comprendere dove sta la forza dei padroni e dove quella degli operai, insegna loro a pensare non soltanto al loro padrone e non soltanto ai loro compagni più vicini, ma a tutti i padroni, a tutta la classe dei capitalisti e a tutta la classe degli operai […] Ma lo sciopero fa capire agli operai chi sono non soltanto i capitalisti, ma anche il governo e le leggi.”, “Sugli scioperi”, Lenin, Opere Complete vol. 4, ER 1957 pagg. 315-325
[21] https://stories.workingclasshistory.com/article/9879/denmark-general-strike
[22] https://www.theguardian.com/world/2024/dec/26/support-for-ukraine-russia-war-yougov-poll-survey
[23] Il ricongiungimento avviene dopo che il DKP ha rivisto in maniera critica (https://solidaritet.dk/dkp-og-kpid-genforenes/) il proprio supporto (esemplificato dalla possibilità per i militanti di avere doppia tessera) al cartello elettorale Enhendlisten (membro a livello UE del Partito della Sinistra Europea), progressivamente scivolato a destra (come dimostrato dall’essersi dichiarato contrario all’uscita della Danimarca da UE e NATO, favorevole al supporto all’Ucraina, al riarmo UE e con posizioni ambigue riguardo al genocidio israeliano a Gaza). Il supporto a Enhedslisten era in effetti la motivazione principale che portò, nel 1990, alla scissione da cui si originò il KPiD.