28 luglio: 77 anni fa l’eccidio delle “Reggiane”
Il 25 luglio 1943, il re Vittorio Emanuele III fece arrestare Mussolini, con la motivazione “di aver portato il popolo italiano nella Seconda guerra mondiale, di essersi alleato con la Germania nazista e di essere responsabile della disfatta nell’invasione della Russia”. Il fascismo ormai era caduto e con esso si auspicava che sarebbero cessati anche gli istinti bellici e imperialisti di un’Italia che non aveva mai avuto la forza per affrontare questa guerra, come le stentate campagne nei Balcani e la disastrosa campagna di Russia avevano evidenziato agli occhi di tutti.
Il duce venne sostituito dal maresciallo Badoglio, che fu nominato Capo di Governo e annunciato alla nazione mediante un comunicato radio, nel quale si ribadiva però che la guerra sarebbe continuata, al fianco degli alleati tedeschi, con le seguenti parole:
“[…]l’Italia duramente colpita nelle sue Provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni”.
Nonostante la delusione di chi sperava che guerra e miseria potessero finire da subito, l’arresto di Mussolini lasciò sperare che le cose sarebbero potute presto cambiare. In provincia di Reggio Emilia, dove il sentimento antifascista era (ed è) particolarmente vivo, più precisamente a Gattatico, quello stesso 25 luglio la famiglia Cervi offrì a tutta la cittadinanza la ormai celebre pastasciutta “antifascista”, per festeggiare la deposizione del dittatore ed auspicare la fine della guerra e la riconquistata libertà.
Invece il nuovo regime non solo proseguì la guerra, ma mantenne un rigido controllo dell’ordine pubblico, proprio come avevano fino a quel momento fatto i fascisti. Una famigerata circolare del generale Roatta, emanata il 26 luglio, vietò assembramenti di più di tre persone e ordinò di aprire il fuoco, anche senza preavviso, contro “qualunque perturbamento dell’ordine pubblico “.
A Reggio Emilia, nel quartiere Santa Croce, c’era una grande fabbrica sotto lo stretto controllo del regime fascista, in quanto azienda strategica sul piano militare, le Officine Meccaniche Italiane, più note come Officine Reggiane. Si trattava della più grande fabbrica della regione con circa 11000 dipendenti, dove si producevano locomotive, rotabili ferroviari ed aerei, questi ultimi impiegati nella guerra in corso. Nello stabilimento delle Reggiane, il sentimento antifascista era più vivo che mai. Gli operai non erano certo organizzati, il partito comunista era totalmente clandestino, però il malcontento aumentava sempre più. Gli stipendi erano di poche lire e i turni massacranti, poichè la produzione, dall’inizio della guerra, era attiva ininterrottamente giorno e notte e si facevano solo due turni da 12 ore.
Un tempo poter lavorare alle Reggiane era motivo di orgoglio, perchè significava contribuire alla costruzione dei treni e degli aerei, simbolo di modernità e progresso generale. Ma nel luglio del ’43, quel sentimento di orgoglio aveva abbandonato definitivamente gli operai della fabbrica, che ora si trovavano a produrre proiettili di artiglieria e aerei da guerra, guerra di cui si percepivano sempre più le conseguenze, anche nella vita di tutti i giorni
Il 28 luglio gli operai decisero di sospendere il lavoro per reclamare a gran voce la pace. Al mattino erano in pochi, si trattava di coloro che si erano sempre schierati contro il fascismo ed i suoi soprusi. Infatti nella fabbrica erano sempre circolati volantini antifascisti e comunisti e qualcuno dei lavoratori aveva addirittura disegnato falce e martello su dei macchinari, ma mai nulla di più organizzato. Quella mattina, invece, complice l’arresto di Mussolini, scoccò la scintilla tra un numero ristretto di operai, che decisero di smettere di lavorare per chiedere la fine della guerra.
Comparvero sui muri dei capannoni delle scritte che inneggiavano alla pace, con i simboli della falce e del martello; gli operai iniziarono a strapparsi dal petto le spille del PNF (Partito Nazionale Fascista), che fino a quel momento erano obbligatorie per poter accedere alla fabbrica, e a rimuovere e strappare tutti i ritratti di Mussolini presenti negli edifici.
Nel corso della mattinata, però, il numero di operai aumentò sempre più, fino a raggiungere alcune migliaia. Iniziarono a radunarsi nei capannoni, poi per i viali della fabbrica e ad incamminarsi verso l’uscita, al fine di fare un corteo per le strade della città, chiedendo la fine della guerra. Inneggiavano alla pace, avevano tra le mani dei ritratti del re, bandiere tricolore e bandiere rosse, che sventolavano con forza. Nel frattempo, la guardia di sicurezza dello stabilimento allertò la forza pubblica, che inviò un plotone di bersaglieri, prontamente dispiegato in assetto di guerra proprio di fronte ai cancelli delle Officine Reggiane.
I manifestanti, disarmati e con tutte le migliori intenzioni, avanzarono verso il plotone per cercare un dialogo con i soldati, per chiedergli di unirsi a loro per invocare la pace. Ma il plotone iniziò a sparare. Caddero al suolo nove corpi, nove operai disarmati, fra i quali anche una giovane donna incinta: Antonio Artioli, Vincenzo Bellocchi, Eugenio Fava, Nello Ferretti, Armando Grisendi, Gino Menozzi, Osvaldo Notari, Domenica Secchi e Angelo Tanzi.
I nove corpi furono ammassati al centro del piazzale, ormai completamente colorato di rosso, del sangue degli operai. I familiari delle vittime non poterono celebrare neanche i funerali, seppero solo della morte dei loro cari attraverso amici o conoscenti che lavoravano alle Reggiane. I giornali non pubblicarono la notizia. Il regime voleva che si facesse finta di niente, anzi, che addirittura quell’episodio fosse una lezione per tutti gli altri che avevano avuto salva la vita, almeno per il momento.
L’eccidio delle Reggiane però non solo non fu dimenticato, ma spinse molti di quegli operai ad aderire al partito comunista e alla resistenza, coscienti del fatto che si sarebbe dovuto lottare in prima persona per cambiare lo stato delle cose.
Il contesto storico attuale, seppur con enormi diversità, manifesta comunque molti aspetti in comune con quei giorni di 77 anni fa. Assistiamo quotidianamente allo smantellamento di tutti quei diritti conquistati nel corso di lunghi anni di durissime lotte, attraverso contratti che favoriscono solo ed esclusivamente gli interessi dei padroni; la repressione nei confronti del dissenso si inasprisce sempre più,come dimostrano i fatti di cronaca relativi a scioperi e manifestazioni nel corso dell’ultimo ventennio; il nostro paese resta impegnato in molteplici guerre – anche se travestite da missioni di pace – che generano quotidianamente morte e devastazione. Allora oggi diventa indispensabile far sì che il ricordo del 28 luglio non sia una vuota celebrazione storica, bensì un punto di partenza per prendere coscienza di quanto la situazione attuale sia ancora troppo simile all’epoca dell’eccidio e organizzarsi, anche sulla tragica esperienza delle Reggiane, per risolvere tutte le enormi contraddizioni di questo sistema socio-economico. È nostro dovere quindi ricordare i martiri di quella giornata, ma lo è anche, e forse di più, batterci contro gli stessi nemici di allora, ovvero il capitale, gli enormi interessi che ci sono alle sue spalle ed i suoi servitori. Il momento è ora, i caduti del movimento operaio ci indicano la via.