Dal Partito Comunista d’Israele (MAKI)
13 settembre 2025
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Nelle ultime settimane si sono intensificate le richieste per un riconoscimento internazionale dello Stato palestinese. Un gruppo di Paesi ha annunciato l’intenzione di riconoscerlo nell’imminente riunione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite prevista per questo mese. Questa mossa potrebbe rappresentare una leva importante per la richiesta centrale: il riconoscimento del diritto del popolo palestinese a liberarsi completamente dall’occupazione israeliana, e a esercitare il proprio diritto – come gli altri popoli – all’autodeterminazione e alla creazione di uno Stato indipendente sul proprio territorio.
Un riconoscimento di questo tipo verrebbe accolto con grande entusiasmo, se non arrivasse nel pieno di una guerra di sterminio a Gaza, e parallelamente a un brutale attacco militare e di insediamento contro il popolo palestinese a Gerusalemme Est e in Cisgiordania occupata. Del resto, la richiesta centrale e urgente oggi è l’esercizio di pressione internazionale per la cessazione immediata della guerra a Gaza, al fine di salvare i suoi abitanti dalle azioni di sterminio in corso e dalla rinnovata occupazione di ampie aree, soprattutto nel nord della Striscia.
Sembra che il mondo si muova lungo due direttrici parallele: la prima – un’ondata di solidarietà popolare e internazionale contro la guerra e a favore della causa palestinese; la seconda – la linea guidata dal governo israeliano con una crudeltà senza precedenti, sostenuto da un appoggio statunitense incondizionato – militare, economico e politico. Questo sostegno si è manifestato di recente nella decisione del Segretario di Stato americano, Marco Rubio, di revocare i visti di ingresso negli Stati Uniti a più di ottanta funzionari palestinesi, incluso il presidente Mahmoud Abbas, in vista della riunione dell’Assemblea Generale dell’ONU.
Ma la verità è che queste due direttrici non sono parallele, anzi si intersecano spesso proprio nei governi che dichiarano la loro intenzione di riconoscere lo Stato palestinese. Uno sguardo attento alle loro posizioni riguardo alla guerra sin dall’inizio mostra che almeno Francia, Regno Unito e Germania non si sono limitati a un sostegno di principio a Israele, ma hanno anche fornito mezzi militari e supporto tecnologico. Ad esempio, due settimane fa il Guardian ha rivelato che aerei spia britannici hanno individuato e fotografato obiettivi a Gaza, trasmettendo poi le informazioni a Israele.
Prestare attenzione a questi dettagli è essenziale per comprendere il significato del riconoscimento dello Stato palestinese. Se alcuni ritengono che si tratti del culmine di un successo diplomatico, la realtà insegna il contrario: il riconoscimento imminente non rappresenta la conclusione di un lungo percorso, ma un punto di partenza da cui è necessario proseguire con passi concreti che garantiscano il pieno esercizio dei diritti del popolo palestinese.
Un fatto reale – o una mossa di distrazione?
Il riconoscimento dello Stato palestinese potrebbe servire a liberare i governi occidentali dalla crescente pressione pubblica esercitata dai movimenti di solidarietà. Questi ultimi pongono i governi in uno stato di costante imbarazzo, dato il loro coinvolgimento nella guerra di sterminio. È possibile che alcuni governi cerchino di trasformare il riconoscimento in una leva propagandistica che li sollevi dalla necessità di intraprendere azioni concrete, come la cessazione della guerra, il blocco dell’annessione in Cisgiordania, la prevenzione del pulizia etnica e della violenza dei coloni. Senza questi passi, la possibilità di creare uno Stato palestinese crolla, e il riconoscimento resterebbe solo un segno vuoto sulla carta – una sorta di “espiazione” per i Paesi che hanno condiviso la guerra condotta da Israele.
Uno strumento di ricatto?
Il timore principale è che il riconoscimento diventi una spada di Damocle posta sul collo della vittima stessa – il popolo palestinese – nel tentativo di costringerlo a concessioni dannose. Non si tratta di un timore infondato: nella dichiarazione pubblicata dai Paesi occidentali dopo l’ultimo incontro a New York, sono stati posti vincoli legati al riconoscimento: il consenso del presidente Mahmoud Abbas a condannare gli attacchi del 7 ottobre come terrorismo; la modifica dei programmi scolastici per eliminare la cosiddetta “istigazione”; la revoca del meccanismo di sostegno alle famiglie dei prigionieri; lo svolgimento di elezioni per introdurre “figure giovani” nella leadership palestinese; e infine, l’accordo che lo Stato palestinese rimanga smilitarizzato.
Tutto ciò mentre il popolo palestinese subisce sterminio, pulizia etnica e l’espansione degli insediamenti. Invece di fermare la distruzione e l’occupazione, gli stessi Paesi esercitano pressioni sulla vittima, come se fosse colpevole. La richiesta di elezioni è una questione interna al popolo palestinese, non un vincolo esterno. Presentare i prigionieri come “terroristi” e gli insegnanti come “istigatori” rappresenta un vergognoso rovesciamento della narrazione, mentre Israele commette apertamente crimini di guerra.
Il riconoscimento da solo non basta
Nonostante le riserve, il riconoscimento da parte di diversi Paesi dello Stato palestinese è un passo importante. Tuttavia, senza azioni concrete sul terreno, rimarrà privo di contenuto e servirà ad evitare di affrontare la distruzione e la violazione dell’ordine legale e morale internazionale.
Sembra che anche le iniziative per il riconoscimento comprendano la necessità di accompagnarlo con misure pratiche, come sanzioni contro ministri fascisti in Israele, boicottaggio dei prodotti degli insediamenti, e simili. Tuttavia, queste misure sono ancora lontane dal soddisfare le esigenze del momento storico.
Se l’obiettivo del riconoscimento è solo eludere la pressione dei movimenti di solidarietà, allora quella pressione dimostra la sua validità e deve continuare, anzi intensificarsi – fino a un embargo totale sulla fornitura di armi e materiali militari e di intelligence a Israele. Solo così si fermerà la guerra. Inoltre, è necessario agire per attuare le decisioni dei tribunali internazionali, perseguire politici e ufficiali per crimini di guerra, e adottare misure deterrenti contro insediamenti e annessione. A questo punto, il riconoscimento deve trasformarsi in una leva di pressione sull’occupazione e su chi la esercita – non su chi ne subisce le conseguenze.