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Home›VPI - Articoli›Turismo da record, salari da miseria: l’altra faccia del successo spagnolo

Turismo da record, salari da miseria: l’altra faccia del successo spagnolo

Di Redazione
28/09/2025
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Di Marina Lapuente, da Nuevo Rumbo, organo del Partito Comunista dei Lavoratori di Spagna (PCTE)
16 settembre 2025
Link all’originale

 

Il settore turistico in Spagna iniziò il suo decollo negli anni Sessanta del secolo scorso, fino a rappresentare oggi tra il 13% e il 16% del PIL. Da allora non ha mai smesso di crescere, ma attualmente sembra stia avvenendo un nuovo boom: non si tratta semplicemente di mantenere i livelli, bensì di un incremento della tendenza alla turistificazione di luoghi, città, un numero sempre maggiore di aree naturali ed economie su scala locale e regionale. Solo tra gennaio e luglio 2025, 63,7 milioni di turisti sono arrivati in aereo, il 6% in più rispetto a un anno prima, secondo El País. La società di consulenza EY Parthenon ha pubblicato a luglio uno studio secondo cui è prevista la costruzione o la ristrutturazione di 775 hotel entro il 2028, con un investimento di 7,8 miliardi di euro.

Fondi finanziari milionari ben felici di rendere pubbliche queste cifre, dunque. E il potere politico? «100 milioni di turisti non possono sbagliarsi», ha dichiarato Pedro Sánchez in una conferenza stampa alla fine di luglio, approfittando del dato per affermare che la Spagna è un Paese che «funziona, è sicuro e sviluppato». Un buon esempio di come lo “sviluppo” di un Paese in termini capitalistici non rifletta necessariamente il benessere sociale e spieghi solo parzialmente alcune condizioni, come vedremo.

Il turismo è già un pilastro macroeconomico consolidato in Spagna. Nel 2024 ha nuovamente raggiunto livelli record, superando il 12% del PIL e venendo associato a 2,4 milioni di posti di lavoro. Il Consiglio Mondiale del Viaggio e del Turismo (WTTC, secondo l’acronimo in inglese) stima che entro la fine del 2025 il contributo al PIL salirà a 260,5 miliardi di euro (circa il 16% del totale) e darà origine a 3,2 milioni di posti di lavoro (il 14,4% dell’occupazione totale): si consolida e si rafforza così un grande gigante della nostra economia.

Nel frattempo, le condizioni dei lavoratori che reggono il settore sono miserabili: per le cameriere ai piani, il salario mensile si aggira intorno ai 1.220 euro netti, fino a 1.430 negli hotel a cinque stelle, secondo Jobted e Indeed Salaries; per i camerieri di bar e ristorante, oscilla tra 1.290 e 1.400 al mese; per gli aiuto-cuochi – che in molti casi non sanno nemmeno dove sia quel “cuoco” che dovrebbero aiutare, visto che sono loro stessi a preparare tutte le comande! –, tra 1.100 e 1.400 euro, a seconda del contratto collettivo della Comunità Autonoma. Ma attenzione: questi sono i dati che ricaviamo dalla pubblicazione dei contratti collettivi sul BOE (la Gazzetta Ufficiale, ndt) e dalle offerte di lavoro pubbliche, supponendo un caso in cui qualcuno sia assunto a tempo pieno e lavori quelle quaranta ore settimanali previste dal contratto. A molti lavoratori dell’ospitalità che stanno leggendo probabilmente sarà già scappato un mezzo sorriso: alzino la mano tutti quelli, forse soprattutto quelle, che hanno un contratto part-time e devono coprire il resto della settimana con ore extra che non sono affatto garantite, che dipendono dalla settimana, che a volte vengono pagate e altre volte no, talvolta a una tariffa e talvolta a un’altra.

Sarebbe molto interessante realizzare un’indagine per verificare quante imprese del settore alberghiero e della ristorazione paghino effettivamente le ore straordinarie, e quante lo facciano con la maggiorazione legale prevista dal contratto collettivo o, in mancanza, dallo Statuto dei Lavoratori. Molti lavoratori restano sorpresi nell’apprendere da fonti sindacali che, nella maggior parte dei casi, la maggiorazione dovrebbe essere del 75% rispetto alla retribuzione oraria ordinaria, perché non hanno mai visto in vita loro un’ora di lavoro pagata a quella tariffa. In effetti, in più di un tavolo di contrattazione collettiva si sono sentiti rappresentanti della controparte datoriale – soprattutto di bar, caffetterie e ristoranti; meno negli hotel, dove possono esserci comitati aziendali forti che fanno rispettare gli accordi – ammettere apertamente che è «assurdo» discutere di modificare quella maggiorazione, dato che di rado viene applicata nella pratica.

Di solito è proprio quella parte della rappresentanza datoriale di caffè e bar che poi ritroviamo a lamentarsi sui social, con cartelli pietosi appesi nei loro locali, coccolata da certi mezzi di comunicazione che danno spazio ai loro singhiozzi perché «non troviamo camerieri», dando per scontato che la causa delle loro sciagure sia che «la gente non vuole lavorare». Bene, allora ci scusino la triste risata che scappa a chi ha letto fin qui e vuole lavorare, ma non si sente più in grado di farlo al costo emotivo e con il basso ritorno economico che riceve, e deve pure sorbirsi questa predica morale. Se mai ci fosse stata, la questione smette del tutto di avere un che di comico quando ci si imbatte nel dato secondo cui il 12,16% delle assenze per depressione o ansia in Spagna riguarda lavoratori della ristorazione, secondo le CCOO (Comisiones Obreras, una delle due principali confederazioni sindacali spagnole insieme all’UGT, ndt).

Precarietà, subappalto, salari bassi che negli ultimi anni sono cresciuti molto meno rispetto all’inflazione, sono problemi che si trascinano da tempo, ma non smettono di aggravarsi. Con l’inflazione degli ultimi anni e, soprattutto, con l’aumento del prezzo delle abitazioni, i salari del settore si collocano ben al di sotto di ciò che definiamo il valore di riproduzione della forza lavoro, vale a dire: sono inferiori a quanto serve a un lavoratore per coprire i propri bisogni in un determinato momento storico. Il punto non è che non vogliamo lavorare, e neppure che siamo troppo orgogliosi per farlo a quel salario. La realtà è che, anche se lavoriamo per voi, a quel prezzo letteralmente non riusciamo a vivere.

Mentre noi lavoratori ci troviamo di fronte a questa realtà, il Governo si dà pacche sulle spalle perché la sua fantastica riforma del lavoro permette che fino al 16% dei lavoratori considerati stabili nella ristorazione vengano definiti «a tempo indeterminato discontinuo» (secondo dati delle CCOO) invece che lavoratori temporanei precari, e cerca di consolarci dicendo che sicuramente quella riduzione di 2,5 ore settimanali in media annuale avrà un qualche effetto, in condizioni di lavoro in cui a nessuno importa di ciò che prevede la legalità.

Un paternalismo socialdemocratico del PSOE e di Sumar, che assicura di star già facendo tutto il possibile per noi, dal quale faremmo molto bene a liberarci, e possibilmente allontanandoci il più possibile da tutto quel blocco “critico con il Governo” ma che si regge sugli interessi economici e sui progetti più reazionari e pericolosi che esistono per la nostra posizione di classe. Servirà un altro progetto, diverso da quello di chi ci tratta da bambini affinché ci sentiamo responsabili e li votiamo, anche se non hanno molto da offrirci, e diverso da quello di chi si nutre della carogna del malcontento per dividerci e contrapporci come classe e venderci un progetto tra i più pericolosi. Un progetto di classe coerente con il fatto che l’economia capitalista persegue la crescita del tutto al di fuori delle sue ripercussioni sociali, economiche, ambientali; e che può solo costringerci a scegliere tra un politico che ci fa i complimenti perché viviamo nel Paese sviluppato che i turisti ricchi di tutto il mondo adorano, e altri che rifiutano le sue briciole perché sono più di quelle che meritiamo.

Tutto il resto sembra «non avere spazio», «non può essere», «è utopico». Fino a quando lasceremo che ci dicano che lavorare per questi salari è l’unica possibilità «fattibile»? Che poter accedere a una casa sia qualcosa di utopico? Che non dover elemosinare tra disoccupazione e precarietà sia poco meno che un privilegio? Che scegliere tra il male della socialdemocrazia e il peggio dell’estrema destra sia l’unica opzione che ci è concessa? Perché devono essere loro a decidere cosa ci è permesso, e non siamo noi stessi e noi stesse a deciderlo?

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