Ogni 8 marzo la questione femminile torna sotto i riflettori con un’attenzione mediatica che ipocritamente si spegne allo scadere della mezzanotte. Ma questo non ci deve portare a sottovalutare l’importanza di questa giornata nella lotta complessiva per l’emancipazione femminile. Di fronte ad uno scenario di crisi economica e sanitaria senza precedenti, che si abbatterà inevitabilmente sulla classe lavoratrice, è quanto mai essenziale che le donne diano il loro contributo alla lotta per l’emancipazione dell’intera classe lavoratrice, senza la quale non ci sarebbe una vera emancipazione della donna.
La questione femminile è un campo analizzabile sotto diverse prospettive delle scienze sociali, antropologiche, sociologiche, filosofiche. Quello che si cercherà di fare in questo articolo sarà quello di fornire una panoramica sulla condizione della donna lavoratrice e, conseguentemente, individuare alcune tendenze sul trattamento riservato alla donna lavoratrice all’interno della produzione economica, non per questo pensiamo che vadano messe in secondo piano le condizioni sociali, culturali e psicologiche che caratterizzano la situazione odierna della donna. Lo scopo di questo articolo, quindi, è quello di riportare un’analisi che non sia slegata dal contesto sociale ed economico, ma che, al contrario, possa essere inserita entro un più ampio dibattito, interrogandoci, in ultima istanza, sul se e sul come una reale emancipazione femminile possa esservi all’interno dell’economica capitalistica. Ci scusiamo quindi, già in anticipo, se non saremo sufficientemente esaustivi nell’esaminare questo campo vastissimo, ben consci della necessità di continuare nell’opera di elaborazione ed analisi del tema.
Le origini
Perché nasce l’8 marzo? Siamo soliti associare all’8 marzo una giornata di ricorrenza nella quale, una volta all’anno, alla donna viene regalato un fiore e il tema della condizione femminile diviene centrale. Questo modus si è affermato negli ultimi anni ed ha volutamente messo a tacere le volontà ultime che hanno animato la nascita di questa data, volontà che debbono essere fatte risalire agli inizi del Novecento nel pieno del Movimento Operaio Internazionale. Senza dilungarci troppo sull’origine della giornata internazionale della donna, basti ricordare che tale data venne istituita a seguito della grande manifestazione delle donne a San Pietroburgo l’8 marzo del 1917 che contribuì fortemente al crollo dello zarismo e alla successiva istituzione del socialismo in URSS. Storicamente, dunque, il processo rivoluzionario che culminerà con la Rivoluzione d’Ottobre ha nell’8 marzo del 1917 una sua tappa fondamentale. Per fissare una data comune a livello internazionale e che avesse una forte carica simbolica, l’Internazionale comunista fissò quindi l’8 marzo come “Giornata internazionale dell’operaia”. In Italia tale occasione si tenne nel 1922 per iniziativa del Partito Comunista d’Italia.
Il primo elemento da portare all’attenzione, dunque, è il carattere di questa giornata, che non è una sterile commemorazione, ma è innanzitutto una giornata di lotta delle donne, inserite in una più ampia lotta di costruzione di una società diversa da quella capitalistica. Un primo elemento di analisi è costituito, quindi, da fatto che le lotte femministe più avanzate sono state indissolubilmente legate al movimento operaio e grazie al movimento operaio è stato possibile l’avanzamento dei diritti delle donne, così come delle minoranze etniche.
Lo stato dell’arte, qualche dato sull’occupazione femminile in Italia
Qual è la condizione della donna oggi? Al di là di ogni retorica, l’indagine del CENSIS fornisce una panoramica ben chiara della condizione femminile in Italia.
Le donne che vivono in Italia sono quasi 31 milioni, e rappresentano il 51,3% della popolazione. Tra queste 4 milioni e 698 mila sono minori (il 15,2% del totale) e 7 milioni e 788 mila sono longeve con più di 65 anni (il 25,1%): queste ultime sono in forte crescita negli ultimi anni.
Uno degli ambiti in cui sono stati fatti maggiori passi avanti, annullando le differenze di genere è quello dell’istruzione; oggi le giovani donne studiano più degli uomini (il 57,1% dei laureati e il 55,4% degli iscritti a un percorso universitario nell’ultimo anno è donna), e con performance migliori: il 53,1% si laurea in corso, contro il 48,2% degli uomini; e il voto medio alla laurea è 103,7 per le donne e 101,9 per gli uomini. Le donne sono in maggioranza anche negli studi post laurea: degli oltre 115.000 studenti che nell’a.a. 2017/2018 erano iscritti ad un dottorato di ricerca, un corso di specializzazione o un master, il 59,3% era una donna.
Eppure tutto questo non basta per avere una posizione di parità sul mercato del lavoro: infatti, le donne che lavorano sono meno degli uomini e, soprattutto, difficilmente ricoprono incarichi di responsabilità. Si tratta di fenomeni che sono comuni anche agli altri paesi europei, ma che vedono l’Italia in una condizione di ancora maggiore ritardo.
È soprattutto sul piano della partecipazione femminile al mercato del lavoro che si dispiega il gender gap rispetto ai maschi e la distanza dagli altri Paesi.
In Italia le donne che lavorano sono 9 milioni e 768.000, e rappresentano il 42,1% del totale degli occupati. Nel 2018, con un tasso di attività femminile al 56,2% siamo all’ultimo posto nel ranking dei paesi comunitari condotto dalla Svezia, ove il tasso di attività femminile è pari all’81,2%, e lontanissimi dall’obiettivo del 75,0% che si è dato l’Unione Europea per il 2020. Guardando a quanto accade all’interno dei nostri confini, siamo molto lontani anche dal tasso di partecipazione degli uomini, che è pari al 75,1%.
Siamo indietro anche per tasso di occupazione, che nella fascia di età 15-64 anni è del 49,5% per le donne e del 67,6% per gli uomini, mentre nel confronto europeo fatto per la fascia d’età 20-64 anni il nostro tasso è del 53,1%, migliore solo di quello della Grecia (che è del 49,1%), e assai distante dai paesi più virtuosi.
Non solo le donne hanno maggiori difficoltà ad affacciarsi sul mercato del lavoro e a trovare un’occupazione stabile, ma hanno anche tassi di disoccupazione superiori a quelli degli uomini, per cui la disoccupazione nell’ultimo anno in Italia è dell’11,8% per le donne e del 9,7% per gli uomini.
Sulla base delle risposte fornite alla indagine campionaria realizzata nell’ambito del progetto Respect risulta che la quasi totalità degli italiani è convinto che per una donna avere un lavoro sia molto (79,3%) o abbastanza (18,8%) importante, e l’85,9% ritiene che per una donna sia altresì molto (51,1%) o abbastanza (34,8%) importante avere dei figli.
Eppure lavorare e formarsi una famiglia ancora oggi rimangono per molte due percorsi paralleli e incompatibili. Succede così che se per gli uomini il tasso di occupazione è man mano più elevato con la crescita del numero dei figli (a sottintendere che la crescita dell’età e delle necessità economiche sono accompagnate dal raggiungimento progressivo di una stabilità familiare e lavorativa), per le donne si verifica il fenomeno opposto, per cui con l’aumento dei figli diminuiscono le donne che hanno un lavoro.
Inoltre, quasi una donna occupata su tre (il 32,4%), per un totale di oltre tre milioni di donne, svolge un lavoro part time, quota che per gli uomini è solo dell’8,5%.
Il lavoro a tempo parziale, che implica un trattamento retributivo ridotto, minori possibilità di carriera ed è destinato a tradursi nel tempo in una pensione più bassa, lungi dal rappresentare una forma di emancipazione e una libera scelta, per circa due milioni di lavoratrici (il 60,2% delle donne che hanno il part time e il 19,5% delle occupate) è subìto per mancanza di alternative: tra gli uomini, solo il 6,4% degli occupati ha un trattamento di part time involontario. Ma anche quando il part time delle donne è frutto di una libera scelta, si tratta di un’opzione che è determinata, nel 47,7% dei casi, dalla necessità di prendersi cura dei figli o di persone anziane, spesso di entrambi, mentre solo il 24,4% delle donne adduce come motivazione la libera scelta di avere più tempo libero a disposizione; motivazione che, invece, è la principale quando a scegliere volontariamente il part time sono gli uomini.
Non solo le donne hanno maggiori difficoltà a trovare e a mantenere un’occupazione e sono costrette più spesso a ripiegare su un lavoro a tempo parziale, ma faticano anche a ritagliarsi uno spazio nelle posizioni apicali. Ma non solo, le donne tendono anche ad essere vittima di overeducation, vale a dire che, anche quando sono occupate, non è raro il caso che svolgano lavori per cui sarebbe sufficiente un titolo di studio più basso di quello posseduto. Del resto, dall’indagine condotta nell’ambito del progetto Respect risulta che il 48,2% degli italiani è convinto che le donne per raggiungere gli stessi obiettivi degli uomini debbano studiare di più. E spesso non è neppure sufficiente: basti pensare che su 100 donne laureate che lavorano 18,4% sono dirigenti o quadri, mentre per gli uomini la quota è, rispettivamente, del 24,8% e del 25,2%. Anche tra le laureate la maggior parte è occupata con la posizione di impiegata (54,7% del totale, mentre gli uomini sono al 36,4%).
Tra gli ambiti che maggiormente danno la misura degli squilibri di genere e che hanno ripercussioni sulla partecipazione e la posizione delle donne sul mercato del lavoro, vi è sicuramente quello della casa e della cura di figli e genitori, un impegno familiare che, ancora oggi, grava essenzialmente sulle donne, ancorché lavoratrici. Del resto, il 63,5% degli italiani riconosce, neppure troppo implicitamente, che a volte può essere necessario o opportuno (molto d’accordo il 28,6%; abbastanza d’accordo il 35,0%) che una donna sacrifichi un po’ del suo tempo libero o della sua carriera per dedicarsi di più alla famiglia. Opinione che, addirittura, è fatta propria più dalle donne, che per prime tendono a perpetuare e a non mettere in discussione comportamenti e modi di pensare che hanno appreso nella famiglia di origine.
Al di là delle enunciazioni di principio, per cui sono una esigua minoranza gli uomini che ammettono che non si dedicano né si dedicherebbero mai a lavori domestici e di cura; nella realtà dei fatti la partecipazione degli uomini alle “faccende domestiche” è per lo più occasionale, pertanto:
– l’educazione e la cura dei figli sono ritenuti compiti preminentemente femminili, esercitati quotidianamente dal 97,0% delle donne italiane, anche se l’altro genitore sempre più frequentemente assume, in quest’ambito, un ruolo attivo o quantomeno partecipativo;
– ma è soprattutto la conduzione della casa – la cucina e le attività domestiche quotidiane – a marcare le differenze. Nel nostro paese l’81,0% delle donne cucina e fa lavori domestici quotidianamente, contro il 20,0% appena degli uomini: una differenza assoluta di 61 punti, la più elevata nell’Unione Europea dopo quella della Grecia.
Per concludere la rassegna sui dati, l’ISTAT ha pubblicato da poche settimane gli ultimi dati sull’occupazione. Nel dicembre 2020 101 mila posti di lavoro sono stati persi, 99 mila di questi erano costituiti da donne lavoratrici.
La donna proletaria e la doppia oppressione, ieri come oggi
Cosa emerge dalle ultime statistiche? Ad oggi le donne sono le prime ad essere escluse dalle attività produttive. Il loro potere d’acquisto minore, dovuto alla più facile ricattabilità al quale sono esposte (in primis la necessità di dover trovare un lavoro con orari compatibili con l’accudimento dei figli), si sta traducendo nella tendenza all’esclusione definiva dalla produzione e al ritorno alla subordinazione femminile alla figura maschile. Riportiamo le parole della Federazione Sindacale Mondiale (FSM) che, evidenziando le conseguenze della crisi economica dovuta all’emergenza sanitaria hanno avuto nell’aggravare le condizioni della donna lavoratrice degli strati popolari, afferma: «Le nuove forme di lavoro che stanno guadagnando terreno hanno posto un peso maggiore sulle spalle delle lavoratrici che, oltre alla “schiavitù domestica”, sono ora costrette a lavorare con orari flessibili, senza diritti lavorativi né sindacali. Inoltre, nello stesso momento in cui il capitalismo internazionale ripropone con nuova intensità le teorie razziste, armando le mani di assassini razzisti, le lavoratrici di colore sono tre volte esposte alla barbarie del sistema.»
Cosa significa, dunque, che la donna è oppressa due volte?
L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato di Engels rappresenta uno degli scritti più interessanti sul carattere storico dei principali e indissolubilmente legati istituti della società moderna, la famiglia, la proprietà privata e lo Stato. Non è possibile qui addentarci nei meriti specifici di questo scritto, che assume i contorni della ricerca antropologica con delle interpretazioni politiche e filosofiche. Quello che invece appare interessante notare è che Engels, basandosi sulle ricerche degli antropologi dell’epoca circa le condizioni di sostentamento e di produzione della società giunge a comprendere come la disparità dei diritti tra uomo e donna non sia un elemento causale insito nella natura dell’uomo, ma è l’effetto di una progressiva perdita di posizione economica da parte della donna all’interno della società, che, appunto, diventa patriarcale. Questo significherà per la donna perdere qualunque voce in capitolo rispetto alla produzione dei beni, accentrando nelle mani del solo uomo le ricchezze famigliari, diventa il capo indiscusso della società. Non è un caso, infatti, che il termine familia in latino significasse il complesso degli schiavi appartenenti ad un uomo, il pater familias per l’appunto. Per questo Marx parlerà della famiglia come germe dell’antagonismo tra le classi che si sarebbero sviluppate secoli a venire:
“La moderna famiglia contiene in germe, non solo la schiavitù, ma anche la servitù della gleba, poiché questa, fin dall’inizio, è in rapporto con i servizi agricoli. Essa contiene in sé, in miniatura, tutti gli antagonismi che si svilupperanno più tardi largamente nella società e nel suo Stato”.
La schiavitù della donna diventa, secondo gli autori, innanzitutto “schiavitù domestica, aperta o mascherata” (Engels, p. 101), poiché in essa esaurisce in toto le proprie funzioni, venendo completamente esclusa dalla produzione pubblica.
L’utilizzo del termine patriarcato, dunque, spesso rischia di trarre in inganno: il patriarcato è quell’insieme di strutture sociali e di comportamenti reiterati nel tempo che hanno caratterizzato le antiche civiltà sino ad oggi e che di fatto vedono un dominio di potere maschile sulla figura femminile. Sarebbe però sbagliato ricondurre la sottomissione della donna al patriarcato in sé, poiché esso non è altro che la conseguenza della perdita di posizione di potere all’interno della produzione, la quale farà precipitare la donna all’interno del vincolo matrimoniale dal quale verrà completamente soggiogata. L’elemento economico diventa quindi il perno attorno cui incentrare l’analisi dell’asservimento della donna sull’uomo, motivo per cui per comprenderne la causa si rende necessario avanzare un’analisi che tenga conto del conflitto fra le classi sociali esistenti. Per questo è corretto rigettare l’idea di patriarcato come agente ultimo della subordinazione femminile.
La famiglia, così come la conosciamo noi oggi, non ha, in realtà, nulla di naturale, né tantomeno di sacro, come contrariamente viene fatto trasparire neanche troppo velatamente nell’opinione pubblica. Al contrario, essa nasce al mutare delle condizioni di produzione all’interno della società, che rendono il matrimonio monogamico il più conveniente per suo il proseguimento.
“Il primo contrasto di classe che compare nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo tra uomo e donna nel matrimonio monogamico, e la prima oppressione di classe coincide con quella del sesso femminile da parte di quello maschile. La monogamia fu un grande progresso storico, ma contemporaneamente essa, accanto alla schiavitù e alla proprietà privata, schiuse quell’epoca che ancora oggi dura, nella quale ogni progresso è, ad un tempo, un relativo regresso, e in cui il bene e lo sviluppo degli uni si compie mediante il danno e la repressione di altri. Essa fu la forma cellulare della società civile, e in essa possiamo già studiare la natura degli antagonismi e delle contraddizioni che nella civiltà si dispiegano con pienezza.” (Engels)
COSA AVVIENE NELLA SOCIETA’ SOCIALISTA? Il caso cubano
Perché Cuba è un caso da prendere a modello? È un paese sotto embargo economico, ossia subisce un terrorismo economico senza pari nel mondo. È un paese collocato tra quelli del così detto “Terzo Mondo”. Eppure la posizione della donna a Cuba sembra essere ben diversa da quella della donna in Italia o nei paesi a capitalismo avanzato.
È importante premettere che, a Cuba, le donne hanno gli stessi diritti costituzionali degli uomini nel campo economico, politico, culturale e sociale, nonché nella famiglia, in base agli articoli 42 e 43 della nuova Costituzione Cubana. L’articolo 43, nello specifico, sancisce quanto segue: “La donna e l’uomo hanno uguali diritti e responsabilità in materia di economia, politica, cultura, lavoro, nel sociale, in famiglia e in qualsiasi altro ambito. Lo Stato garantisce che a entrambi i sessi siano offerte le stesse opportunità e possibilità. Lo Stato promuove il pieno sviluppo delle donne e la loro piena partecipazione sociale. Assicura l’esercizio dei loro diritti sessuali e riproduttivi, le protegge dalla violenza di genere in qualsiasi delle sue manifestazioni e spazi, e crea i meccanismi istituzionali e legali per questo”.
Presenti in ogni settore dell’economia, le donne sono una forza indispensabile per garantire il prospero sviluppo della nazione. Le donne cubane hanno un alto livello di istruzione e qualificazione professionale. Si distinguono nell’istruzione, nella sanità, nel commercio, nel lavoro agricolo e in altri settori.
Attualmente, più del 60% dei laureati a Cuba sono donne, una percentuale non troppo lontana occupa posizioni di leadership di alto livello, e le donne cubane dal trionfo rivoluzionario guadagnano come gli uomini, per la stessa attività.
Attualmente, le donne sono il 49 per cento della forza lavoro nel settore statale civile, il 49,6 per cento dei dirigenti, l’81,9 per cento dei professori, maestri e del personale scientifico, l’80 per cento degli avvocati, dei presidenti dei tribunali provinciali, dei giudici e del personale della sanità. Di pochi giorni fa è l’intervista della CNN alla Direttrice delle Ricerche Dagmar Garcia che spiega come oltre il 65 % del capitale umano del Instituto Finlay de Vacunas sono donne e il 75 % sono responsabili degli assi strategici legati allo sviluppo economico e hanno avuto un ruolo determinante nello sviluppo del vaccino contro il Covid-19.
Occupano il 53,2 per cento dei seggi nell’Assemblea Nazionale e il 48,5 per cento nel Consiglio di Stato, collocando la nazione al secondo posto al mondo per presenza femminile in Parlamento, mentre la media mondiale è solo del 24 per cento e la maggioranza della forza lavoro professionale è costituita da uomini. La donna a Cuba, riceve lo stesso salario di un uomo a parità di lavoro svolto, e non è una cosa scontata. In Italia ad esempio il salario ricevuto da una donna è il 43 per cento inferiore rispetto a quello ricevuto da un uomo se si considerano oltre la paga oraria anche altri parametri come l’occupazione femminile e le ore lavorate. Non è un caso, quindi, se già Fidel Castro definiva la questione femminile una “rivoluzione all’interno della Rivoluzione”. Dal trionfo della rivoluzione nel gennaio 1959, infatti, sono stati avviati i primi passi volti ad eliminare problemi come la prostituzione, la mancanza di pianificazione familiare, ed è stato adottato un codice di famiglia che stabilisce l’assoluta uguaglianza giuridica tra donne e uomini, tra gli altri.
Conclusioni
Dai dati citati finora è possibile fare alcune considerazioni. La condizione dello sfruttamento femminile è causata dal ruolo che è stato progressivamente affidato alla donna nel corso della storia, determinando una perdita di posizioni di potere all’interno della produttività in favore del ruolo prettamente riproduttivo e di cura.
Come ricordato inizialmente, la parte più avanzata del movimento femminista è stata indissolubilmente legata al movimento operaio e la conquista dei diritti delle donne si innesta in una più ampia battaglia di rovesciamento del sistema economico di oppressione, che vede nella famiglia la sua cellula primaria. Nel momento in cui il movimento operaio è stato più forte, le donne hanno potuto ottenere un avanzamento in termini di diritti e riconoscimento sociale. Con la sua scomparsa sono andate affermandosi visioni intersezionaliste, le quali, seppur mantenendo la questione femminile sotto i riflettori, non hanno prodotto un sostanziale avanzamento delle donne. Sul piano sostanziale, infatti, le donne lavoratrici hanno subito pesanti attacchi (si pensi anche solo alla questione della pillola abortiva sollevata nelle Marche e in Piemonte).
Il capitalismo, ormai impossibilitato, grazie alle conquiste femministe del movimento operaio, a relegare alla donna al solo ruolo di moglie e madre detentrice del focolare domestico è riuscito pienamente a riconvertire il diritto al lavoro nel diritto allo sfruttamento al lavoro, esattamente come già prevedeva Engels nel suo saggio. Così, un sistema economico, quello capitalistico, fondato sulla massimizzazione del profitto, trae vantaggio dalla posizione di subordinazione femminile, rendendola una merce più svalutata sul mercato e da cui, dunque, si può trarre maggior plusvalore.
Il terreno del femminismo è un terreno fragile; quando si parla di questione femminile sopraggiungono, infatti, due rischi che, a riflessioni più approfondite, sono complementari. Da una parte si tende a prediligere visioni liberali del femminismo, considerando la questione come a sé stante dove la subordinazione della donna all’uomo viene vista come effetto e causa ultima. Come cita il segretariato della FSM: “Il sistema capitalista non vuole né può fornire soluzioni ai problemi delle donne lavoratrici”, poiché, propinando teorie borghesi cerca “di convincere la lavoratrice che il suo nemico è il lavoratore; che presumibilmente la soluzione ai problemi popolari si trova nelle cosiddette teorie della “lotta di genere”, degli “scioperi femministi” e così via”. “Cerca di nascondere” prosegue “che la contraddizione fondamentale della società non è tra lavoratori maschi e femmine, ma tra capitale e lavoro; tra chi produce tutto e chi non produce niente”.
D’altro canto, è talvolta avvenuto nel campo dei partiti comunisti in occidente che la questione di genere venisse messa in secondo piano, bollata come non centrale rispetto alla questione “capitale-lavoro”, la distinzione tra “diritti sociali” e “diritti civili” spesso ha rappresentato un pretesto atto a giustificare un disinteresse nei confronti di questi ultimi. In che modo, ci chiediamo, una donna proletaria, che non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena e che ha sulle spalle l’angoscia del doversi occupare dell’educazione e della cura dei propri figli, dovrebbe considerare la sua condizione di donna-madre in secondo piano rispetto allo sfruttamento che riceve dal suo padrone?
Questa mancanza di analisi nel campo comunista ha fatto sì che la questione femminile diventasse appannaggio di organizzazioni portatrici di visioni intersezionaliste e liberali, per loro natura monche perché incapaci di portare una più ampia riflessione organica sulla società. Le organizzazioni comuniste hanno spesso mancato nel loro ruolo di avanguardia, ossia nella capacità di inserire le lotte delle categorie oggi ritenute “più fragili” all’interno di una prospettiva di classe, capacità che è propria soltanto di un partito organizzato e organico alle masse.
Per tali motivi, prendendo le debite distanze da analisi intersezionaliste e allo stesso modo da tutte quelle che astraggono dal ruolo sociale della donna lavoratrice, possiamo affermare che la donna oggi subisca una doppia oppressione, l’una legata alla sua condizione di proletaria, costretta a subire le ingiustizie di un sistema fondato sul profitto di pochi a scapito di molti, e l’altra legata alla funzione che storicamente è venuta determinandosi, ossia quella di moglie ubbidiente e madre amorevole, dedita alla cura della casa. Questo ruolo ha avvilito e vilipeso le sue doti intellettive, creando stereotipi, ormai insediatisi nel senso comune, di cui si porta ancora pesantemente dietro gli strascichi e che è compito di un’avanguardia comunista scardinare dalle radici. L’emancipazione del proletario non può che passare necessariamente dall’emancipazione della donna proletaria, dalla sua emancipazione culturale, intellettuale, sessuale, politica e sociale per liberare quelle potenzialità che per secoli sono rimaste represse.
Il movimento comunista e operaio vuole riappropriarsi del tema femminile perché è conscio che la piena emancipazione della donna è possibile all’interno della prospettiva di classe e del rovesciamento del germe ultimo dello sfruttamento, il capitalismo.
Fonti
Comunicato del SFM: http://www.wftucentral.org/8-march-2021-womens-equal-rights-in-health-and-safety-at-work-and-in-society/
http://it.cubadebate.cu/notizie/2020/03/09/la-donna-nella-societa-cubana/
Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1972, Editori Riuniti
https://www.censis.it/sicurezza-e-cittadinanza/respect/il-talento-femminile-mortificato