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Home›Capitale/lavoro›Autostrade, una semiripubblicizzazione a favore dei Benetton

Autostrade, una semiripubblicizzazione a favore dei Benetton

Di Domenico Moro
11/06/2021
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La maggiore crisi dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sta determinando un aumento della presenza dello Stato in economia. Si tratta, tuttavia, di un reingresso dello Stato che, in gran parte, è favorevole ai privati, sia in termini di sussidi sia in termini di acquisizione o partecipazione al capitale aziendale. Infatti, oggi, così come in altri periodi storici, lo Stato agisce secondo il principio di privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Quando gli affari vanno bene le aziende di Stato vengono privatizzate, quando vanno male le ex aziende di Stato vengono ripubblicizzate o rinazionalizzate, come si preferisce dire. E di perdite ce ne sono state parecchie con la crisi del Covid-19.

Un esempio lampante del principio di socializzazione delle perdite si riscontra nel caso della ripubblicizzazione di Autostrade per l’Italia (Aspi) che è passata nei giorni scorsi dal controllo di Atlantia, holding di proprietà della famiglia Benetton, a quello dello Stato. Per la verità si tratta di una semipubblicizzazione, in quanto la Cassa depositi e prestiti (Cdp) – il veicolo pubblico attraverso il quale interviene lo Stato – ha una quota di maggioranza del 51%, ma è affiancato nella proprietà da due importanti società multinazionali, il fondo infrastrutturale australiano Macquarie e il fondo di investimento statunitense Blackstone che si dividono in parti uguali il restante 49%. In sostanza non si ritornerà allo stato precedente alla privatizzazione, quando la società Autostrade era di proprietà dell’Iri, cioè interamente pubblica.

L’aspetto più importante è che lo Stato andrà a perdere dall’acquisizione, mentre la famiglia Benetton ci guadagnerà. Infatti, lo Stato pagherà per Aspi un prezzo di circa 9,1 miliardi di euro che equivalgono ai 6,8 miliardi incassati all’epoca della privatizzazione. Ma non c’è solo questo: lo Stato si accollerà anche il debito contratto dai privati per finanziare l’acquisizione, che a fine 2020 sfiorava gli 11 miliardi, mentre nel 1999, anno di inizio della privatizzazione, era di appena 1,8 miliardi. In vent’anni il debito finanziario totale è passato da circa tre quarti a sei volte il capitale netto. In sostanza l’acquisto a debito di Autostrade da parte di Benetton viene ripagato a distanza di 20 anni dallo Stato. Inoltre, i Benetton si liberano di una società che ha visto nel 2020, a causa della crisi, il crollo degli incassi dei pedaggi a 2,4 miliardi, una cifra inferiore ai 2,5 miliardi realizzati nel 1999. Insomma lo Stato ripaga con gli interessi il riacquisto di una infrastruttura la cui vita residua si è più che dimezzata e la cui rete viaria si è invecchiata, mostrando tutte le sue crepe, come ha provato drammaticamente il crollo del ponte Morandi a Genova nel 2018.

Ponte Morandi crollato

Se la rete autostradale che i Benetton lasciano allo Stato è in condizioni molto peggiori di quelle in cui l’hanno rilevata nel 1999 ciò è dovuto al fatto che i profitti realizzati sono andati ad alimentare il pagamento di ricchi dividendi ai proprietari privati anziché in adeguate manutenzioni della rete autostradale. Ma vediamo i numeri, che sono significativi. La privatizzazione ha determinato un notevole aumento della profittabilità, dovuta all’aumento dei pedaggi che nel 2019, anno prima della pandemia, ammontavano a 3,217 miliardi contro 1,782 miliardi del 1999. Sempre nel 1999 il margine Ebit – ossia l’utile sul fatturato, prima degli oneri finanziari e delle imposte – era del 32,4%, nel 2000, dopo solamente un anno di privatizzazione, era già salito al 40% aumentando negli anni successivi fino al picco del 53,5% nel 2017. Nel 2018, anno della tragedia del ponte Morandi, il margine Ebit era del 50,6%. Solo con la crisi attuale il margine Ebit è crollato al 4,9%. Per quanto riguarda i dividendi, dal 2000 ad oggi le autostrade hanno distribuito ai propri azionisti 9 miliardi di dividendi ordinari, oltre alla cedola straordinaria di 1,1 miliardi pagata nel 2017 attingendo alle riserve. Aspi ha sempre remunerato i suoi azionisti, anche nell’anno della tragedia del ponte Morandi, staccando l’ultima cedola di 311 milioni nel 2019. Solo nel 2020, a causa della crisi, non è stato corrisposto alcun dividendo. Mentre profitti e dividendi crescevano, le spese per la manutenzione non sono state all’altezza. Anzi, dal 2011 Aspi ha tirato il freno degli investimenti in manutenzione che in percentuale sul fatturato sono scesi drasticamente. Questo è particolarmente grave perché la rete autostradale italiana, a differenza di quelle di altri Paesi come Francia e Germania, non attraversa le grandi pianure continentali ma un’area collinare e montagnosa dove sono numerose le gallerie e i viadotti che richiedono una maggiore manutenzione. Un altro dato importante, e anche questo in controtendenza rispetto a quello di profitti e dividendi, è quello dell’occupazione: in vent’anni gli addetti alle concessioni gestite dai Benetton sono scesi di oltre un terzo (-34,5%), passando dai 10.107 del 1999 ai 6.621 del 2020, a causa dell’aumento dell’automazione.

In sostanza, la vicenda di Aspi denota alcune tendenze tipiche del capitalismo degli ultimi decenni: il passaggio da settori manifatturieri, caratterizzati da sovraccumulazione di capitale e esposti a una forte concorrenza e quindi al ribasso del saggio di profitto, a settori di monopolio naturale, come le autostrade e le utility, che sono sottratte per definizione alla concorrenza e garantiscono alti margini di profitto, vale a dire una rendita di posizione a tutti gli effetti. Le privatizzazioni hanno consentito a diverse famiglie capitalistiche italiane, come quella dei Benetton, di ridurre la loro dipendenza dal manifatturiero e nella fattispecie dal settore tessile, caratterizzato dalla forte concorrenza dell’Estremo oriente, aumentando la presenza in settori di monopolio. Questo passaggio, inoltre, è stato effettuato in molti casi, come quello di Telecom e Aspi, a debito, cioè gli acquirenti delle imprese pubbliche hanno dovuto sborsare solo una parte dell’importo d’acquisto, prendendo in prestito il resto. In questo modo, la gestione delle aziende privatizzate è stata caricata del finanziamento del debito, con effetti negativi sugli investimenti e sull’innovazione.

Oggi, dopo che la gestione delle autostrade si è dimostrata un affare per il privato e un disastro per gli interessi della collettività e dei lavoratori, la ripubblicizzazione non va interpretata come una soluzione favorevole alla collettività, ma come la ripetizione del solito mantra capitalistico di socializzazione delle perdite, anche perché la natura proprietaria della nuova Aspi, con una forte presenza del capitale privato multinazionale, farà sì che la mission aziendale – come si dice nel moderno gergo imprenditoriale – avrà a che fare più con il raggiungimento di elevati margini di profitto che con l’erogazione di un servizio pubblico a tariffe contenute.

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Domenico Moro

Ricercatore Istat, si interessa di statistiche economiche. Ha scritto numerosi volumi, tradotti nelle più importanti lingue europee, tra cui “La gabbia dell’euro, perché uscirne è internazionalista e di sinistra”, “Globalizzazione e decadenza industriale”, “La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico”, “Il gruppo Bilderberg, l’élite del potere mondiale”, “Nuovo Compendio del capitale”. Scrive anche su riviste italiane ed estere. Da sempre militante nel movimento comunista italiano, oggi dirige la rivista Laboratorio 21.

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