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Home›Copertina›Cina: neutralità pro-palestinese o imperialismo mascherato?

Cina: neutralità pro-palestinese o imperialismo mascherato?

Di Domenico Cortese
23/05/2025
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Con la nuova offensiva di terra dell’esercito israeliano su Gaza, chiamata “Carri di Gedeone”, l’allarme per la sopravvivenza della comunità palestinese è, in breve tempo, tornato ai massimi livelli. Il fermento dell’opinione pubblica ha costretto anche i governi dei Paesi che non mettono in discussione l’appoggio al genocidio ad alzare la voce dopo che Israele ha reso noto il suo piano per occupare permanentemente Gaza e deportare verso il sud della Striscia i palestinesi con il benestare di Washington. Francia e Cina hanno bocciato il piano e anche il primo ministro inglese, Keir Starmer, ha alzato l’asticella dell’allarme[1]. In questo contesto disperato dal punto di vista umanitario, molti sostenitori della causa palestinese, e della causa antimperialista in generale, sono spinti a cercare una sponda politica nelle potenze mondiali che, apparentemente, continuano a sostenere in misura maggiore la causa palestinese. Tra queste, il primato spetta alla Repubblica Popolare Cinese, soprattutto dopo i video diffusi on line che mostrerebbero recenti “airdrop” da parte della Cina a Gaza, sfidando la volontà israeliana, al fine di sostenere con viveri e risorse la popolazione palestinese. Nonostante questi video risultino privi di fondamento, poiché nessuno di questi mostra con chiarezza che si trattino di aiuti cinesi, mentre vengono prelevati da account che non fanno alcun riferimento alla Cina[2].

In generale, le simpatie per la Cina da parte dell’area filopalestinese sembrano sostenute da argomenti autoevidenti. Infatti, il blocco imperialista che fa capo a Stati Uniti, Unione Europea e NATO non ha mai depotenziato il proprio sostegno economico, ideologico e politico a Tel Aviv. Un rapporto rivela che soltanto gli Stati Uniti hanno speso ben 17,9 miliardi di dollari in aiuti militari a Israele in un anno di guerra: si tratta della cifra più alta mai registrata per l’assistenza militare a Israele in un solo anno dal 1959[3]. Per quanto riguarda la Cina, invece, all’indomani del 7 ottobre, essa ha espresso preoccupazione per l’offensiva di Hamas, ma ha evitato di etichettare quest’ultima come un’organizzazione terroristica, distinguendosi così dalla posizione netta adottata dagli Stati Uniti e dai loro alleati occidentali. Inoltre, Pechino ha reiterato la necessità di una soluzione pacifica e “multilaterale” al conflitto, mettendo al centro la soluzione a due stati e il rispetto del diritto internazionale[4]. A questa posizione avrebbero fatto seguito delle iniziative concrete: nel luglio del 2024 Hamas, Fatah e altre 12 fazioni palestinesi hanno siglato a Pechino un accordo per mantenere il controllo sulla Striscia di Gaza una volta terminata l’aggressione israeliana[5], mentre il 2 maggio 2025 la Cina ha preso la parola davanti alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) per denunciare la gravissima crisi umanitaria nella Striscia di Gaza e nei territori palestinesi occupati[6].

Bisogna, perciò, chiedersi quanto queste prese di posizione corrispondano alla condotta materiale del governo e del capitale cinese. In altre parole, visto che il conflitto in Medio Oriente e la direzione che esso prenderà, come abbiamo visto altrove[7], non possono essere separati dagli interessi economici del capitale ivi coinvolto, sia israeliano, europeo, americano o asiatico, solo una verifica dei rapporti economici tra le parti in causa e dei relativi interessi può garantire che la posizione della Cina sia da considerarsi genuina, reale, veramente interessata a manovre solidaristiche oppure, al massimo, coincidente con una diplomazia di facciata che non “sposta” nulla e che è volta soprattutto a salvaguardare i rapporti con i propri partner commerciali – considerato, ad esempio, che lo scontro aperto tra Stato ebraico e Iran danneggerebbe i piani eurasiatici di Pechino[8].

Gli investimenti cinesi in Israele

Iniziamo con il prendere atto, allora, che dietro la maschera diplomatica della neutralità e del sostegno alla causa palestinese, la Cina sta giocando un ruolo tutt’altro che marginale nell’espansione dell’impresa coloniale israeliana. A rivelarlo è un’inchiesta firmata da Razan Shawamreh e pubblicata da Middle East Eye, che documenta come la Repubblica Popolare Cinese, attraverso aziende statali e private, contribuisca attivamente al rafforzamento degli insediamenti illegali nei Territori Palestinesi Occupati[9]. La presenza di manodopera cinese in colonie come Beit El e Yitzhar non è più un’eccezione ma una realtà sistematica. Gli operai delle aziende cinesi costruiscono abitazioni e infrastrutture all’interno degli insediamenti, frequentano i negozi palestinesi nei villaggi vicini e rappresentano una forza lavoro essenziale nel progetto di consolidamento territoriale israeliano in Cisgiordania. A questo si aggiunge il sostegno diretto da parte di grandi imprese cinesi. Adama Agricultural Solutions, controllata dalla statale ChemChina, fornisce supporto logistico agli agricoltori dei territori occupati e finanzia borse di studio per i residenti delle colonie. Le sue forniture sono utilizzate anche nelle attività agricole in insediamenti come quelli nella Valle del Giordano, contribuendo a radicare una presenza coloniale considerata illegale dal diritto internazionale.

Anche il ruolo dei capitali parla chiaro. Bright Food, colosso cinese dell’agroalimentare, ha rilevato la maggioranza del pacchetto azionario di Tnuva, azienda israeliana attiva nella distribuzione alimentare e nei trasporti. I mezzi Tnuva oggi servono quotidianamente sedici insediamenti, integrandoli nella rete logistica israeliana e normalizzandone l’esistenza agli occhi dell’opinione pubblica. Nel panorama dell’industria cosmetica, spicca l’acquisizione di Ahava da parte del gruppo cinese Fosun. Ahava opera all’interno della colonia di Mitzpe Shalem, sulle rive del Mar Morto. La sua sede produttiva si trova su terra palestinese occupata, ed è per questo oggetto da anni di campagne internazionali di boicottaggio. Con l’ingresso di Fosun, anche questo marchio è entrato nella sfera economica cinese, confermando una linea di investimenti che, nei fatti, rafforza l’occupazione e legittima l’apartheid. Nel contesto attuale, in cui Gaza è sottoposta a un attacco senza precedenti e la Cisgiordania è sotto assedio coloniale, il silenzioso ma strategico appoggio cinese rappresenta una contraddizione pesante tra parole e azioni. Pechino, pur condannando formalmente gli insediamenti, continua a trarre profitto da un sistema basato sulla sottrazione violenta della terra palestinese[9].

Gli interessi della borghesia cinese

Il genocidio del popolo palestinese, come sappiamo, non è iniziato il 7 ottobre 2023, ma fa parte della strategia politica dello Stato d’Israele da decenni. Per capire la disposizione storica del Partito Comunista Cinese nei confronti del neocolonialismo israeliano e il senso dei legami oggi esistenti conviene, dunque, approfondire i legami tra i due Paesi nel recente passato. Nonostante l’appoggio alla causa palestinese nel periodo di Mao, infatti, la Cina dagli anni Novanta ha avviato fitti rapporti con Israele[7], investendo miliardi di dollari nella sua economia (gli investimenti nei territori palestinesi sono trascurabili) e l’interdipendenza anche militare è andata accrescendosi notevolmente: Israele è il secondo fornitore di armi della Cina dopo la Russia (lo stato ebraico non aderisce infatti alle sanzioni militari occidentali al paese asiatico). Negli ultimi 31 anni, inoltre, le relazioni economiche tra Cina e Israele sono cresciute significativamente. Mentre nel 1992 il commercio bilaterale si attestava sui 50 milioni di dollari, nel 2021 ha raggiunto i 22,8 miliardi di dollari, secondo l’Ufficio di Statistica cinese. Nel 2021-2022, la Cina ha sostituito gli Stati Uniti come principale fonte di importazioni per Israele e Israele ha aggiunto la valuta cinese, il renminbi, alle sue riserve estere. Dopo il ritorno di Netanyahu alla carica di Primo Ministro israeliano nel 2009, le relazioni economiche hanno raggiunto nuovi traguardi. Nel marzo 2017, i due Paesi hanno annunciato un partenariato innovativo globale basato sulla cooperazione tecnologica, mentre Netanyahu era in visita a Pechino dal presidente cinese Xi Jinping. Ne è seguito un aumento vertiginoso degli investimenti cinesi nell’economia israeliana[10]. Per fare un confronto, il commercio bilaterale tra Stati Uniti e Israele ammontava a 34 miliardi di dollari nel 2024: quello tra Cina e Tel Aviv, perciò, considerando la differenza che ancora esiste tra la grandezza nominale delle due principali economie mondiali, non è significativamente minore.

Israele, inoltre, ha firmato ben 14 accordi con la provincia orientale cinese dello Jangsu per rafforzare la cooperazione reciproca in diversi ambiti, come il settore dell’alta tecnologia – a riferirlo è l’agenzia di stampa cinese Xinhua. Patti che includono settori inerenti alle scienze della vita, ai dispositivi medici fino allo smart manufacturing[11]. Le imprese cinesi stanno gestendo persino importanti progetti infrastrutturali in Israele: lo Shanghai International Port Group, come abbiamo accennato, si è aggiudicato un contratto di 25 anni al porto di Haifa, mentre il China Harbour Engineering Group ha vinto un appalto simile per il terminal di Ashdod; questi terminal sono anche adiacenti alle basi militari della marina israeliana. Non solo, quindi, la Cina non ha operato in concreto per l’indebolimento e il boicottaggio dello Stato sionista, ma contribuisce materialmente a rafforzarlo. Recentemente la Cina ha espanso i legami economici con Israele nei settori più disparati: dalla tecnologia al turismo, dalla cooperazione in campo scientifico all’istruzione[4].

Questa espansione delle relazioni tra Cina e Israele è dovuta principalmente agli interessi di profitto della borghesia cinese: tra il 2015 e il 2018, Israele è stato il maggior destinatario delle esportazioni di capitali cinesi nella regione. Dall’annuncio della Belt and Road Initiative (BRI), molti miliardi di dollari americani sono stati investiti, da parte della Cina, in progetti infrastrutturali israeliani (sebbene Israele, in quanto alleato degli Stati Uniti, non abbia nemmeno aderito alla BRI). In secondo luogo, la Cina sta investendo pesantemente nel settore high-tech israeliano, come le apparecchiature elettroniche, gli strumenti medicali e le telecomunicazioni. La partnership tra Pechino e Tel Aviv stava addirittura andando a provocare delle tensioni con gli Stati Uniti, emerse in particolare quando nel 2015 la compagnia cinese “Shanghai International Port Group” si aggiudicò l’appalto per la realizzazione di un terminal nel porto israeliano di Haifa, una decisione che suscitò non poca irritazione a Washington[12].

L’obiettivo della tutela del capitale cinese

Sembrerebbe, da questi dati, che la posizione della Cina, quella di non interferenza con una retorica cautamente pro-palestinese, serva soprattutto all’interesse di continuare a fare affari con Israele mantenendo relazioni strette con l’Iran e alcuni Paesi arabi[7]. Questa posizione non ha alcun effetto positivo sulla lotta per libertà dei palestinesi e ha la sola conseguenza di distogliere le energie e l’attenzione da una reale lotta internazionalista dei lavoratori di tutto il mondo, che condividono i nemici dei palestinesi: i monopoli imperialistici di tutto il mondo. È importante porlo in evidenza, specialmente dal momento che l’aspettativa non solo di molti militanti pro-Palestina ma, anche, di molti comunisti, è quella di un intervento diplomatico o economico cinese che punti realmente a destabilizzare il suprematismo sionista e la catena di interessi capitalistici che hanno interesse a tollerare o supportare i crimini del governo israeliano.

La “cautela” del governo cinese circa le tensioni in Medio Oriente sarebbe, quindi, più legata al mantenimento dei propri interessi economici e commerciali – ossia imperialistici – che a una posizione qualitativamente differente da quella di Stati Uniti ed Europa: cambiati gli interessi della borghesia cinese, la posizione del governo di Pechino potrebbe di conseguenza facilmente cambiare. L’escalation di tensione nel Mar Rosso, seguita dalla pronta risposta militare degli Stati Uniti e del Regno Unito attraverso bombardamenti aerei, per esempio, ha preoccupato la Cina per almeno due motivi. Il primo è di natura economica e ha a che fare con l’importanza strategica di una delle rotte marittime più trafficate al mondo – dal Mar Rosso transita, infatti, il 12% delle merci trasportate via mare a livello mondiale. La seconda ragione per cui la Cina guarda con preoccupazione all’instabilità nel Mar Rosso è invece di carattere strategico-militare, e riguarda la difesa del proprio avamposto a Gibuti, dove nel 2017 la Cina ha inaugurato la sua prima e, finora, unica base militare all’estero[13], che rappresenta un vero e proprio “trampolino di lancio” per la proiezione cinese in Africa e nell’Oceano Indiano.

Conclusioni

Al di là delle dichiarazioni tattiche e di facciata, la Repubblica Popolare Cinese contribuisce in maniera sostanziale al rafforzamento dell’attuale Stato d’Israele e alla sua espansione territoriale e militare. Quello che, a questo punto, possiamo riconoscere come imperialismo cinese, non può essere la soluzione alle contraddizioni che sono alla radice dei conflitti in Medio Oriente e dello sterminio inflitto al popolo palestinese. Non lo può essere perché i valori e gli interessi che guidano la politica estera ed economica della Cina, abbiamo visto, non sono differenti, nei loro meccanismi e nell’ideologia che ne è alla base, da quelli che muovono la politica degli Stati Uniti e degli altri Paesi imperialisti. Questo dovrebbe essere da monito anche dal considerare, in generale, la prospettiva del “multipolarismo” – ossia dell’attuale status quo, che non vede più l’egemonia di una potenza imperialista in particolare ma il conflitto di diverse grandi potenze capitaliste sullo scenario mondiale – come maggiormente “progressista” al fine di risolvere le tensioni regionali o, addirittura, di affermare con più vigore la lotta di classe.

 

Note

[1]: https://notizie.tiscali.it/esteri/articoli/medioriente-francia-cina-contro-occupazione-gaza/

[2]: https://www.open.online/2025/05/14/cina-distribuisce-viveri-gaza-sfidando-israele-falsa-narrazione-anti-europa-fc/

[3]: https://www.startmag.it/mondo/ecco-quanto-hanno-speso-gli-usa-per-armare-israele/

[4]: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/la-posizione-cinese-sul-conflitto-israelo-palestinese-163540

[5]: https://www.lindipendente.online/2024/07/23/palestina-la-mossa-della-cina-media-la-pace-tra-hamas-e-fatah-e-mette-in-difficolta-israele/

[6]: https://www.youtube.com/watch?v=yPVIRoY6bzk

[7]: https://www.lordinenuovo.it/2023/11/15/la-questione-palestinese-non-riguarda-solo-la-palestina/

[8]: https://www.limesonline.com/rivista/la-cina-non-vuole-entrare-nella-guerra-di-gaza-e-del-libano-17521262/

[9]: https://www.middleeasteye.net/opinion/china-quietly-aiding-israels-settlement-enterprise-how

[10]: https://arabcenterdc.org/resource/how-steady-are-china-israel-relations/

[11]: https://it.insideover.com/politica/cina-e-israele-rafforzano-la-cooperazione-scientifica.html

[12]: https://www.geopolitica.info/rapporti-israele-e-taiwan/

[13]: https://www.senzatregua.it/2017/07/15/operativa-la-base-militare-cinese-gibuti/

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Domenico Cortese

Domenico Cortese, nato a Tropea nel 1987, dottore di ricerca in Filosofia e Storia. Gestisce il blog Il Capitale Asociale su FB e IG, è membro del comitato centrale del Fronte Comunista, in cui milita dalla sua fondazione. Collabora con L'Ordine Nuovo su argomenti di economia e attualità.

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