In occasione della sua partecipazione alla festa Avanguardia 2025, l’Ordine Nuovo ha scambiato con il rapper veneto Dutch Nazari qualche commento sul rapporto tra musica e politica.
ON: Benvenuto ad Avanguardia. La nostra è una festa popolare in una borgata, che propone un modo di fare arte e socialità rivolta agli strati popolari. Con quale spirito hai accettato di dare forza al nostro progetto?
D: Sono particolarmente contento: per me la partecipazione è stata una piacevole sorpresa. Ho notato nel tragitto verso l’albergo un’urbanistica tipica dei quartieri popolari, costruiti forse con poca attenzione alle esigenze di chi si trova a viverci; poi quando sono arrivato qui al parco del Circolo Concetto Marchesi ho notato tutti i simboli di falce e martello, lo striscione “Proletari di tutti i paesi, unitevi!” e allora ho pensato “ma che bello oggi”!
ON: Qual è stato il tuo percorso artistico, culturale e musicale che ti ha portato al rap? Quali sono stati gli ascolti con cui sei cresciuto?

Dutch Nazari si esibisce ad Avanguardia, 5 luglio 2025
D: Io mi sono appassionato al rap a 16 anni, è stata la prima forma di ascolti che ho “scavato” da solo, dopo la prima fase delle cassette dei genitori e dei CD del fratello maggiore. All’epoca i ragazzi venivano a contatto con la musica tramite il peer-to-peer, da lì ho conosciuto il rap italiano, che mi ha appassionato molto e ci ha fatto unire con altri ragazzi: nel 2005-2006 non era ancora di moda, quindi eravamo in pochi. Ci incontravamo il pomeriggio a fare freestyle, una vera e propria primavera della mia adolescenza: era per me la passione principale, anche perché frequentavo il liceo classico ma non mi trovavo molto bene a scuola, avrei realizzato solo dopo, crescendo, i motivi della mia insoddisfazione. Avevo un po’ di disagio, che il rap mi ha aiutato a superare. Partendo dal rap mi sono appassionato alla musica in generale, a scoprire nuovi artisti mentre facevo musica io stesso, e per me è stato un arricchimento enorme: mi sono reso conto della possibilità di inserire complessità nella musica, di un arricchimento. Il genere rap, per come l’avevo iniziato ad ascoltare io, era un po’ carente da questo punto di vista: c’era un clima un po’ talebano, siccome negli anni ‘90 si facevano le cose in un certo modo allora si considerava quello il solo modo “giusto” di fare musica. A me sembrava la Lega Nord questa roba qua: non può essere così ristretta la cultura, bisogna contaminarsi: se in Giamaica fanno la dancehall, allora facciamo un mescolone! Parallelamente ho iniziato a scoprire anche gli strumenti musicali, a 20 anni ho incontrato il producer di tutti i miei dischi: lui non ascoltava il rap, solo musica strumentale, quindi ciò che per lui era una canzone, per me era un beat. Invece per me la canzone è tale quando c’è il testo, per lui era completamente inutile il testo: l’incontro di queste due personalità ha complicato meravigliosamente entrambe le nostre percezioni della musica, 15 anni dopo il risultato è il prossimo disco che uscirà.
ON: La musica di massa, quella mainstream, oggi è largamente disimpegnata: quando esprime messaggi sociali e politici, spesso si attiene a quelli dominanti oppure nel migliore dei casi a quelli non “scomodi”. Qual è il ruolo che dovrebbe avere secondo te un’artista nell’affrontare i temi sociali?
D: Hai detto bene massa, mainstream, perché “popolare” è una parola bella invece. Guarda, io a 22 anni sono andato in Palestina: avevamo partecipato ad un bando della Provincia di Trento, dove frequentavo l’università, per fare un progetto di cooperazione e sviluppo e siamo andati a fare una ricerca e un documentario. Mi interessava capire che ruolo aveva il rap in un contesto di occupazione: avevo un amico poeta, Burbank, che voleva trattare lo stesso tema dal suo punto di vista. Abbiamo conosciuto e intervistato un po’ di artisti: ma una persona in particolare che ho in contrato a Ramallah, Rami GB (qualcuno sostiene che sia stato il primo artista a rappare in palestinese nella storia) ha cambiato il mio modo di vedere le cose. Eravamo in un contesto particolare: i poeti palestinesi erano delle star, mentre i rapper erano degli sconosciuti. Solo dopo si è creata una scena rilevante in Palestina, quindi oggi è molto difficile trovare la sua musica.
Gli ho rivolto proprio la tua domanda, come deve rapportarsi il rap alla politica: io avevo già la risposta in testa, il rap è politico, ma ho ottenuto una risposta con più sfumature dentro e che da lì in poi mi ha educato. In sostanza se vuoi parlare di politica con il rap devi essere molto informato, devi affrontare la cosa con un senso di responsabilità: se parli di qualcosa che non conosci bene, spari cazzate e fai peggio. Quindi ben venga il rap che parla di politica, ma essendo una responsabilità grossa bisogna studiare, informarsi e prepararsi bene per farlo, oppure meglio parlare d’altro. Tutto ad un tratto, gli artisti che io prima guardavo con sufficienza, perché parlano d’altro, ho capito che forse ci stanno facendo un favore a non parlare di politica. È chiaro che chi parla di politica pensa di fare una cosa giusta, ma se non si è molto informato riesce solo a parlare del primo strato superficiale di quello che ci sarebbe da dire: se uno studia invece scopre che la sua opinione, magari, è solo un luogo comune. Per questo ci servono persone che studiano, che parlano di argomenti importanti nell’arte che propongono.
ON: Ci hai già accennato della tua esperienza in Palestina, un progetto, secondo la tua definizione, di “mappatura geo-poetica”. Ci spieghi quali erano gli intenti di questo progetto, e cosa ti ha trasmesso come artista questa esperienza?
D: C’erano vari livelli di ambizione nel progetto, e la mappatura geo-poetica era un po’ troppo ambiziosa rispetto alle risorse che avevamo: avrebbe richiesto un rapporto col territorio molto più continuativo rispetto al mese di presenza in Palestina. La cosa che più mi ha soddisfatto di quell’esperienza è il documentario che abbiamo portato a casa, invece la mappatura era l’idea di predisporre un sito web, una specie di social network, ma ci siamo resi conto presto che è un lavoro che può fare solo una persona palestinese in Palestina. Abbiamo maturato la consapevolezza che la politica degli altri paesi ha senso affrontarla nel senso della solidarietà ai popoli, conoscersi e togliersi la “superiorità bianca”, che abbiamo tutti anche quando pensiamo di non averla, riportare la tua esperienza dove hai le tue radici e dove puoi fare qualcosa. Questo è il limite secondo me dell’approccio semplicemente umanitario: vengo lì e ti dò una mano, ma in realtà che ne so io veramente delle tue esigenze? Prima devo chiedertele e scoprirle.
Quando siamo tornati in Trentino, abbiamo portato il documentario in otto o nove scuole superiori: un po’ facevamo vedere il documentario, un po’ facevamo ascoltare la musica e la poesia palestinese, cercando di capire dagli studenti cosa ne pensassero, cosa sentissero da questi stimoli. La reazione dei ragazzi era entusiasta, e non solo perché magari saltavano un’ora di greco.
ON: Nel tuo album “Ce lo chiede l’Europa” hai denunciato le contraddizioni dell’Unione Europea. Da un lato le politiche antipopolari dell’UE, dall’altro l’operazione di propaganda che ha avuto come effetto la fiducia nell’UE da parte della cosiddetta generazione Erasmus. Che impatto culturale, musicale e emozionale ha avuto l’UE sui giovani e sulla condizione di questa generazione?

«L’arte può fare questo: se siamo tutti carichi vinciamo la battaglia, se siamo impauriti la perdiamo. Io penso sia questo il livello in cui è indispensabile l’arte, ed è il livello che io provo ad utilizzare»
D: Io la penso esattamente come Alessandro Barbero su questo: il professore spiegava che esiste, o esisteva, una fierezza di essere europei, legata a degli aspetti nel confronto con, per esempio, gli Stati Uniti, in cui le persone prendono il cancro e vanno in bancarotta, e noi in Europa no, perché abbiamo la sanità, il welfare. In qualche modo, il sentimento di amore per l’Europa nella mia generazione era inconsapevolmente legato a quella sensazione ma senza averlo veramente capito. Quindi quando hanno iniziato a toglierle queste cose, a smantellare progressivamente cose come la sanità, questo amore un po’ ci è rimasto. Quando ho detto queste cose, ho anche incontrato la gigantesca incomprensione che la chiave di lettura liberal ti dà su questi temi: un giornale mainstream ha recensito il mio disco e mi ha definito sovranista, ma io ho sempre odiato usare quella parola come sinonimo di destra. Per me il popolo è sovrano, è il popolo che ha inserito questa cosa nella costituzione: la sovranità ti dà la possibilità di organizzare la sanità, ma quando togli la sovranità del popolo e decide la BCE è là che si iniziano a perdere i diritti. Noi come società abbiamo fatto finta che il sovranismo sia equivalente all’essere di destra, ma se uno dice “Ce lo chiede l’Europa”, e fa una rima contro l’Europa, il giornale mainstream “di sinistra” ti dà del sovranista – cioè fascio, intendono loro. Quindi ho visto che c’è una grande confusione sul tema.
ON: Qual è il ruolo che secondo te possono avere la musica, un artista, o la cultura in generale, di fronte al genocidio che si sta consumando in Palestina, e in generale rispetto al tema della lotta di liberazione del popolo palestinese?
D: Secondo me la musica può avere un ruolo ma non va sopravvalutata, ma neanche sottovalutata: è la politica che si fa con i suoi strumenti propri, mentre l’arte è un esercizio di prestidigitazione emotivo. Un film, una poesia, una canzone può farmi provare emozioni che poi mi ispirano e mi mettono nella posizione di poi fare qualcosa, come poche cose al mondo. Poi però bisogna dare corpo e sostanza a questi sentimenti, passare alla fase del fare. Non basta pensare di aver scritto la canzone e aver affrontato un problema. Invece l’arte può fare questo: se siamo tutti carichi vinciamo la battaglia, se siamo impauriti la perdiamo. Io penso sia questo il livello in cui è indispensabile l’arte, ed è il livello che io provo ad utilizzare.