Il fronte antioperaio costituito da governo Meloni, liberali, estrema destra e padronato festeggia il fallimento dei referendum, promosso a suon di censura, disinformazione, esplicita propaganda astensionista, ricorso alla xenofobia in relazione al quinto quesito e minacce sui luoghi di lavoro.
Questo articolo vuole provare a portare avanti un’analisi politica non rispetto ai risultati elettorali del referendum dell’ 8 e 9 giugno, ma alle ragioni politiche che sono dietro la genesi della consultazione stessa. Il referendum promosso dalla CGIL, in primis, è stato una mossa politica finalizzata a pesare le forze politiche della nuova ipotesi di campo largo del centro-sinistra – composta da PD, M5S e AVS – in vista della prossima tornata elettorale (come confermato dalle parole di Elly Schlein) provando, al contempo, a dare fiato ad un’opposizione stantia che, alla ricerca di credibilità, tenta di abrogare delle leggi che ha approvato in passato. In particolar modo, l’eventuale successo di questo referendum avrebbe lanciato la figura di Landini, magari anche come ipotetico leader di una futura coalizione di centro-sinistra.
La riflessione che vogliamo avanzare non è nel merito dei quesiti referendari, di per sé tutti giusti e condivisibili (sebbene sicuramente insufficienti, come abbiamo scritto altrove) ma sull’opportunità politica di passare attraverso lo strumento del referendum il cui risultato ha messo nero su bianco la sconfitta dei lavoratori (seppur da una parte consistente di essi non percepita come una propria battaglia) lasciando, a valle del voto, solo macerie da cui sarà ancora più difficile ripartire e ricostruire.
Che il quorum fosse un obiettivo irraggiungibile era chiaro a tutti ben prima dei dati sull’affluenza del primo giorno di voto; tant’è vero che le ambizioni dei maggiori promotori del referendum avevano più a che fare con la creazione di un fronte di opposizione in ascesa, di una percentuale significativa di elettori. Un’affluenza di poco sopra il 30% con una percentuale di sì di circa l’87% per i primi quattro quesiti certificano l’attuale inconsistenza di politiche a sostegno della classe “calate a freddo”, cioè senza la costruzione di un movimento reale di lotta sui temi del lavoro, senza una piattaforma riconoscibile che riesca a mettere insieme il tema del salario, del welfare. Nonostante i quesiti (i primi quattro maggiormente) riguardassero la stragrande maggioranza della popolazione, questa non ha risposto all’appello, complici la tendenza sempre maggiore al disimpegno e la diffusa disillusione, legata anche in parte alla dimostrazione data negli anni dai governi di totale disprezzo dello stesso strumento referendario (vedasi il referendum sull’acqua pubblica, totalmente disatteso e tradito dagli esecutivi, compresi quelli del centro-sinistra). Inoltre, ha pesato su questo risultato anche l’esclusione dal referendum del tema dell’Autonomia differenziata, che avrebbe potuto richiamare gli elettori alle urne specialmente al Sud, dove si sono registrati i dati di affluenza più bassi.
Da arma contro il governo e i padroni il referendum è diventato un boomerang che verrà usato nel prossimo futuro contro chi vorrà mettere al centro del proprio intervento politico proprio il lavoro. È stata data ai nostri nemici la possibilità di dire che i temi del lavoro e dei diritti non sono al centro del dibattito politico in questo paese, né “cari” a quella fascia di popolazione che, in linea teorica, dovrebbe esservi maggiormente sensibile. In più il governo ne esce rafforzato sia per la sconfitta di chi promuoveva i quesiti referendari sia per il fatto che il numero di sì ai quesiti non ha rappresentato una quantità di per sè sconvolgente degli equilibri di consenso che abbiamo in questo paese da molti anni: è di poco superiore al numero di voti presi dalle forze di governo alle ultime politiche, ma anche simile al numero di voti presi dalle forze di opposizione, all’epoca divise. In sostanza, il risultato referendario non fa fare nessun passo avanti in termini di consenso a nessuna delle due coalizioni politiche.
Un vero capolavoro, se si pensa che negli ultimi anni le condizioni dei lavoratori sono drammaticamente peggiorate e che il conflitto capitale-lavoro risulta essere oggi più che mai il centro delle questioni, in primis la guerra, nonostante ne manchi la coscienza. Un capolavoro di cui CGIL e centro-sinistra hanno piena responsabilità.
La prima ha abbandonato il terreno della lotta a favore della concertazione. Per il referendum il principale sindacato italiano ha messo in atto una macchina organizzativa a cui raramente la CGIL ha fatto ricorso negli anni recenti per ravvivare le lotte sui luoghi di lavoro: c’è da chiedersi cosa potrebbe succedere se lo stesso investimento organizzativo venisse fatto per organizzare gli scioperi, se fosse stato fatto per affossare il Jobs Act del governo targato PD, partito con cui la CGIL non ha mai reciso i rapporti.
I secondi per essere assolutamente impresentabili agli occhi delle persone comuni, lavoratori, pensionati e studenti. I carnefici di prima hanno provato a cavalcare i quesiti del referendum per abrogare le leggi che loro stessi hanno promosso, una mossa difficile da spiegare a chi è disgustato e disilluso dalla politica, una mossa che viene vista solo come l’ennesima trovata machiavellica di una politica distante dal sentire comune. Dei Re Mida al contrario che affossano tutto quello che toccano.
Che fare
Da anni ormai per il centro-sinistra (oggi oramai liberal all’americana) si cerca la via facile, la lista elettorale fatta nel modo giusto, le grandi alleanze volte solo a superare di un voto il centro-destra, il personaggio carismatico da cui ripartire, la partecipazione ai peggiori governi antipopolari, per esempio il governo Draghi, e in ultimo la via dei referendum popolari. Oggi – anche se ciò non vuol dire che sia stato sbagliato sostenere le proposte referendarie – questo referendum è stata una simulazione indiretta del nuovo esperimento di “campo largo” che queste forze politiche, pienamente compromesse con la gestione delle istituzioni borghesi e con le politiche antipopolari, vorrebbero proporre e di quello che esso comporterebbe: ancora una volta, si chiederà, anche in virtù di questa consultazione, a forze più o meno conflittuali di fare fronte comune con il centro-sinistra per “arginare la destra”. Questi risultati rendono ancora più risibili e inquietanti queste proposte e le critiche alle posizioni opposte, spesso additate come “puriste”.
Sarà necessario, ancora una volta, respingere al mittente queste strategie, rifiutare ogni forma di identificazione dei comunisti e dei sindacati conflittuali con le posizioni del PD e dei suoi alleati e lacchè. La realtà è che in un contesto di smobilitazione di qualsiasi presidio di classe (combattività del sindacato sul posto di lavoro, presenza della politica nei quartieri popolari, ecc.) e con la coscienza di classe dei lavoratori ai minimi termini, non esiste nessuna formula magica, nessuna scorciatoia, nessun artifizio, nessuna possibile collaborazione con forze borghesi (seppur ammantate di “progressismo”), in grado di invertire la rotta rispetto all’attuale tendenza all’arretramento del movimento operaio. Dobbiamo armarci del migliore “ottimismo della volontà” e ricominciare da capo, tornare nelle strade, sui luoghi di lavoro e contendere uno per uno chi ci è intorno alla giustezza della nostra causa, sottraendo la nostra classe di riferimento tanto alla propaganda di centro-sinistra e centro-destra, quanto alla rassegnazione dalle loro politiche generata.
I fattori oggettivi che caratterizzano la società in cui viviamo (guerra, disuguaglianza, repressione, ecc.) danno ragione ai comunisti, ma di per sé la ragione non basta a conquistare la maggioranza della classe operaia. Dobbiamo dare gambe e testa alla nostra ragione, mettere in piedi mattone dopo mattone e costruire il partito dei lavoratori, al di fuori della dinamica delle scadenze elettorali (le scorciatoie elettoralistiche, di fronte ad un profondo astensionismo operaio, testimoniano invece la volontà di saldarsi con altre classi sociali), che diventi megafono delle necessità e dei diritti della classe operaia, che sia in grado di spiegare alle masse proletarie come la vittoria dei 5 Sì se affiancata a una lotta concreta avrebbe migliorato sensibilmente le condizioni di vita dei più. Un partito comunista all’altezza delle sfide enormi del nostro tempo, un partito che diventi il riferimento per gli sfruttati di questo paese riuscendo a rompere la bolla sempre più piccola in cui i comunisti da ormai 30 anni sono relegati.