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Politica
Home›Politica›Revisionismo storico in prima serata il 25 aprile: Gramellini e Veltroni contro i fratelli Cervi

Revisionismo storico in prima serata il 25 aprile: Gramellini e Veltroni contro i fratelli Cervi

Di Redazione
02/05/2020
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Famiglia Cervi

Quello che è andato in onda la sera del 25 aprile sulla tv di pubblica tra Gramellini e Veltroni è veramente un servizio indegno: utilizzare la storia luminosa dei fratelli Cervi, contadini patrioti della terra reggiana, uccisi dai fascisti, per infima propaganda politica è veramente spregevole.

Non ci sarebbe stato nulla da sorprendersi se fosse successo, come tante altre volte succede, in altri teatrini della tv con i soliti nostalgici del duce, ma che sia avvenuto tra uno “storico”, “opinionista”, o non si sa bene cosa, come Gramellini, nell’immaginario attuale certamente affine alla sinistra e un presunto ex comunista come Veltroni è veramente imbarazzante. La conferma di un vuoto storico, di coscienza ed ideologico non casuale, che ha prodotto negli anni il revisionismo della peggior specie.

Come per Gramsci, come per Nilde Iotti, anche per i fratelli Cervi non si deve dire che erano comunisti, con l’aggravante di sostenerlo facendo lezioni di storia. Facendo gli storici, quelli che Togliatti definiva i “critici tardi”.

Veltroni GaramelliniE come le feste comandate del calendario, si rinnova puntuale la polemica ormai piuttosto scadente, sulla questione dei fratelli Cervi, guarda caso quando si dovrebbe celebrare la Resistenza. Certo, le rivisitazioni che nel corso degli anni hanno tentato anche in modo spregiudicato di mettere in discussione l’operato dei fratelli Cervi, sono state le più svariate, tutte quante volte ad evidenziare, spesso in maniera piuttosto fantasiosa e tuttavia senza mai alcuna prova, quelli che vengono definiti “presunti” dissidi e contrasti, al limite della netta opposizione col PCI. Pertanto credo sia doveroso per la conoscenza e per la verità storica e aldilà delle chiacchiere, rifarsi alle documentazioni ed alle testimonianze di coloro che vissero a contatto coi sette contadini patrioti dei Campi Rossi, oltre che nella Resistenza, nel partito e nell’ambito famigliare.

La seconda ristampa datata aprile 1980 de “I Cervi le idee l’azione”, libro del celebre comandante partigiano Aldo Ferretti “Toscanino” che fu dei Cervi compagno di lotta e di partito, varrebbe da solo a segnare un punto fermo oltre al quale non è possibile spingersi per raccontare ciò che è stata la vicenda dei sette fratelli. Primo perché è lo stesso Toscanino che all’epoca (quarant’anni fa) sentì l’esigenza di replicare a certe strumentalizzazioni ed insinuazioni, sempre volte a mettere in discussione il ruolo dei comunisti durante la Resistenza, un particolare che nel corso dei decenni è stato enfatizzato a livelli grotteschi usando sempre a pretesto la vicenda Cervi.

Toscanino quindi, e cito testuale, sente “il dovere di smentire certe affermazioni non rispondenti a verità” e lo fa attraverso documenti, testimonianze e testimoni. Se la necessità era quella di portare prove, allora Toscanino ne utilizza di inconfutabili, una è quella del partigiano sovietico Anatolj Tarassov, attraverso il libro di sua pubblicazione “Sui monti d’Italia”, il quale visse nella casa dei sette fratelli ed operò con loro nella Resistenza. L’altra è quella del padre Alcide, con il suo memorabile “I miei sette figli” curato da Renato Nicolai e di fronte alla rettitudine, all’onestà ed alla verità che il vecchio Cide ha sempre impersonificato, caratteristica che gli venne universalmente riconosciuta con migliaia di attestati di stima e affetto ancora oggi custoditi nella casa museo, lo spazio per considerazioni diverse e divergenti da quelle di un padre, del padre dei fratelli Cervi, diventano davvero risibili, per non dire fasulle.

Alcide Cervi

Toscanino così scrive nella breve introduzione al suo libro: “spero pertanto di essere riuscito nello scopo che mi sono proposto, di provare cioè chi erano veramente i Cervi, di dimostrare che il loro modo d’agire e i loro comportamenti furono sempre in linea con le direttive del CLN, di quello provinciale e del PCI, il partito in cui militavano“.

Secondo punto, di certo non meno importante, è la testimonianza delle mogli e dei figli dei sette fratelli Cervi, i quali con una lettera all’Anpi provinciale, pubblicata sempre ad introduzione del libro di Aldo Ferretti, vogliono smentire in modo perentorio tutte quelle distorsioni e le errate interpretazioni del pensiero dei loro congiunti, compresa una presunta “circolare” di un gruppo di dirigenti (dell’epoca) che invitava a non frequentare più la casa dei Cervi, quando ben si sa che la casa dei Campi Rossi verrà frequentata tanto prima quanto dopo il loro arresto. Mogli e figli così scrivono: “i Cervi erano dei comunisti coerentemente in linea con le direttive del partito, bisogna allora avere il coraggio di dire che gli altri, quelli che li hanno giudicati e li giudicano tendenzialmente anarcoidi, individualisti, spericolati, gli autori della “diffida”, almeno in quel momento, non avevano interpretato bene tali direttive“.

E ancora testuale dal libro di Aldo Ferretti: “queste prove inoppugnabili fanno cadere a pezzi le fantasiose tacce, messe in circolazione allora e sostenute da taluni ancora oggi, secondo cui i Cervi avrebbero agito da settari, da disorientati, da “anarcoidi” senza alcun legame con gli organismi politici e militari, unitari e di partito. Cadono pure le accuse di “indisciplina” e di avere agito “al di fuori di ogni regola e cautela cospirativa”. I fatti provano esattamente il contrario: erano forse più disorientati quei comunisti, anche dirigenti, che non tenevano nel dovuto conto le direttive politiche (del CLN e del PCI) e si ponevano su un terreno di passività“.

Dire pertanto che i Cervi erano partigiani anarchici o anarcoidi è assolutamente falso! Per cui, dopo 75 anni e dopo le testimonianze di chi visse coi 7 fratelli, quella di Gramellini con Veltroni è eufemisticamente una spregiudicata narrazione, l’ennesimo modo di oltraggiarne la memoria e di screditare la Resistenza, ma diventa un’opera piuttosto ardimentosa, falsa e intellettualmente disonesta. Perché un conto è narrare la storia attenendosi a testimonianze e a fonti autentiche, che ci sono, ma per convenienza “partitica” non vengono usate (figurarsi studiate).

Un conto invece, molto diverso, è la pretesa di essere storici senza alcuna competenza, offrendo versioni postume della storia edulcorate, romanzate e “chissà perché” con lo scopo sempre di mitigare le responsabilità del fascismo per condannare la Resistenza e per sminuire se non addirittura negare il ruolo dei comunisti nella Liberazione dell’Europa. E il ruolo dei comunisti nella scrittura della Costituzione antifascista nata dalla Resistenza. La storia non può assolutamente prescindere dai suoi testimoni, da chi ne è stato protagonista ed ha vissuto con essi in stretto contatto; il ruolo di Lucia Sarzi ad esempio, era un personaggio fondamentale di collegamento con il partito comunista, difficile dunque credere nel totale spontaneismo e individualismo dei Cervi.

1957 pci alcide cerviNon erano novizi come si vuol far credere anche nel film, infatti spiace che si dimentichi ad esempio che Gelindo era (almeno era nato politicamente come) socialista, militanza che aveva coltivato. Infine le parole del vecchio Alcide, con cui conclude “I miei sette figli”, dicendo chiaramente che il comunismo fu l’idea in cui credettero i suoi figli, sono quanto mai chiare: “Se voi dite che non si può andare d’accordo, allora la madre, che è rimasta cattolica fino alla morte, non andava d’accordo con i figli suoi, e io stesso gli ero contro, e rinnegate tutta la fede di gioventù dei figli miei, che era cristiana, e di questa presero il seme migliore e lo unirono alla grande idea comunista. Se voi dividete queste cose, allora sì i figli miei sono morti davvero e il sacrificio della mia famiglia non è mai esistito“.

Spiace che tra i vari “custodi” reggiani della memoria dei fratelli Cervi, compresi anche alcuni “storici” reggiani ottenebrati ormai dal solo anticomunismo, nessuno tra loro abbia sentito il dovere di smontare il revisionismo proprio il giorno della Liberazione, probabilmente perché a tesserne il filo è un “amico” di partito.

Alessandro Fontanesi

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