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Home›Terza pagina›Storia di classe›Il nostro 25 aprile

Il nostro 25 aprile

Di Redazione
25/04/2020
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Parlare di Resistenza non è mai semplice per l’enorme impatto politico ed emotivo che suscita, ma, soprattutto in un periodo di confusione e bombardamento mediatico forzato come questo, diventa un atto imprescindibile. Quest’anno si ricordano i 75 anni da quel 25 aprile 1945 e, più passa il tempo, più di quell’esperienza rimane un ricordo sfumato, idealizzato e, soprattutto, strumentalizzato.

Non si vuole in queste poche righe spiegare in modo approfondito cos’è stato il movimento di liberazione nazionale ma è importante definire i contorni di quello che Pietro Secchia ebbe a definire come “il più grande movimento popolare che vi sia mai stato nel nostro paese, cui la classe operaia, i contadini, i lavoratori abbiano partecipato come forza autonoma e dirigente alla testa di tutti i patrioti, di tutti i democratici, degli antifascisti.”

Un movimento popolare che affonda le radici più lontano, negli anni in cui la dittatura fascista iniziava a prendere corpo, negli anni in cui si assaltavano case del popolo, sindacati, sedi di giornali e di partiti. L’unico partito allora che seppe resistere, in modo particolare dopo l’approvazione delle leggi “fascistissime” e la feroce repressione messa in atto (e che portò in carcere tra gli altri anche Antonio Gramsci, allora parlamentare) fu il PCd’I che seppe continuare la sua attività in condizioni sempre più difficili. Infatti, nonostante tutto, continuò l’attività tra le masse lavoratrici, organizzando proteste e diffondendo giornali come L’Unità, Compagna, Solidarietà proletaria, Avanguardia e molti altri, vedendosi però costretto a far riparare a Parigi il centro dirigente del Partito.

Non c’è episodio di opposizione al regime, dall’arresto e il confino di un “elemento antinazionale” alla mobilitazione di operai o contadini in tutto il paese, che per quanto circoscritto e non organico ad una visione complessiva di resistenza, non rappresenti un necessario precedente e retroterra di quella che poi sarà la guerra partigiana.

Che dall’8 settembre 1943 si articolerà poi in modo particolare nel Nord Italia, dove l’egemonia del PCI nel CLNAI e soprattutto nei CLN territoriali portò a rompere ogni remora attendista e disfattista del fronte antifascista (dove erano presenti, tra gli altri, i cattolici, gli azionisti, i monarchici e i liberali) e a intraprende azioni militari e di sabotaggio sempre più incisive nei confronti dei nazisti occupanti e dei traditori fascisti.

Azioni che non avrebbero potuto essere intraprese senza l’aiuto attivo della popolazione che di volta in volta soccorreva i partigiani, li nascondeva, dava loro cibo per sopravvivere: ecco come l’azione delle avanguardie armate riusciva ad essere incisiva sia sui monti sia quando si spostavano nelle pianure e nelle città.

Tutto questo mentre il fronte alleato risaliva lentamente cercando evidentemente di non rafforzare il movimento partigiano visto il suo deciso orientamento verso sinistra, per timore che l’Italia, liberandosi da sola, potesse poi intraprendere la sua strada verso un processo democratico e rivendicare, con tutta probabilità, condizioni di pace più favorevoli. Il pericolo di un popolo in armi, motivato e guidato da un’avanguardia comunista organizzata, non poteva lasciare indifferenti gli angloamericani.

Ed è sulla base di queste considerazioni che al 25 di aprile 1945, nei giorni dell’insurrezione le forze partigiane combattenti ammontavano a circa 100.000 uomini e donne, con le formazioni più numerose in Piemonte (30 000), Lombardia (9 000), Veneto (12 000), Emilia (12 000), di cui più della metà appartenevano alle unità comuniste delle Brigate Garibaldi.

Ma la consapevolezza del PCI di essere minoranza nel paese, di non poter affrontare e imbastire una insurrezione popolare per la costruzione di una società socialista, ha portato lo stesso a definire una strategia di conquista del potere basata invece sulla democrazia “nuova”, progressiva, che aprisse la strada dell’Italia ad ulteriori sviluppi sociali e in un secondo momento al socialismo. Un percorso travagliato, fatto di conquiste senza dubbio, ma anche di tante delusioni che non devono essere taciute. Così Togliatti si espresse sull’argomento anni dopo:

“Questo rinnovamento non è andato avanti e non si è compiuto come noi avremmo voluto e come avrebbero voluto gli eroi ed i caduti di allora. Sia detto questo con tutta chiarezza. Avevamo combattuto e con noi la parte migliore del popolo aveva combattuto per aprire all’Italia una via di sviluppo nuovo, di progresso radicale. Volevamo una trasformazione profonda dei rapporti sociali, economici e politici nell’interesse delle forze del lavoro, nel rispetto dell’eguaglianza della libertà di tutti i cittadini.”

Ed è proprio quella trasformazione profonda che non è avvenuta e che dovremmo rivendicare ancora, utilizzando anche questo giorno di festa per ricordare qual è il valore della Resistenza, a maggior ragione in un anniversario così importante, il settantacinquesimo, appunto.

Assistiamo invece all’usuale bagarre mediatica.

Nei giorni scorsi l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) ha lanciato un largo appello a associazioni, sindacati, partiti e movimenti che si riconoscono nei valori e nei principi della resistenza, chiedendo di aderire ad un flash-mob per celebrare genericamente, nonostante la quarantena, la festa di liberazione. L’idea, di per sé, potrebbe anche risultare condivisibile ma è ormai sempre più evidente la debolezza di parole d’ordine come rinascita e unità, che non bastano tra l’altro ad evitare nemmeno l’ennesimo teatrino: partendo dalle farneticazioni giornalistiche di chi sostiene che il coronavirus avrebbe spazzato via il 25 aprile, per terminare con le dichiarazioni di senatori che propongono di dedicare la giornata «ai caduti di tutte le guerre e alle vittime del COVID-19». La musica è sempre la stessa: invocare la memoria condivisa (chimera che popola le menti di chi ha a cuore il revisionismo storico) per svuotare di ogni significato la festa più importante della Repubblica. Chiaramente, il tutto rientra in un progetto di ben più ampio respiro, volto in primis all’occultamento dei crimini nazi-fascisti e, successivamente, all’equiparazione fra nazismo e comunismo, fra oppressori e oppressi. Si tratta a tutti gli effetti del tentativo di riscrivere, falsificandola, la storia.

Ma se gli attacchi di una certa parte politica vanno, in un certo senso, messi in conto, dall’altra parte della barricata non si esita a tirare per la giacchetta i partigiani e la Resistenza. Alle suddette dichiarazioni sono in molti a reagire, a parole, in tono scandalizzato: salvo poi accostare, nella medesima frase, concetti come democrazia ed europeismo, lanciandosi in ossimori degni dei più grandi poeti. Se governo del popolo è partecipazione attiva, possibilità di plasmare la realtà, non vi è niente di più estraneo a questi concetti dell’Unione Europea in regime capitalistico, per dirla alla Lenin. Gli stessi che non esitano a dichiararsi antifascisti, per poi trasformarsi nei fedeli esecutori degli interessi del più dispotico dei poteri: quello del grande capitale finanziario; o che ancora non si fanno scrupolo, ad ogni tornata elettorale, di utilizzare lo spauracchio del fascismo per riunire attorno a sé il maggior numero di forze e portare a casa il risultato, per poi prodigarsi in privatizzazioni, tagli al welfare, attacchi diretti ai diritti della classe lavoratrice.

È evidente a tanti, e sempre di più, che questa democrazia borghese è una democrazia monca, incapace perfino di garantire quei diritti che, sulla carta, sono i suoi propri fondativi, a dimostrazione di come la tattica “democrazia progressiva” sia rimasta poco più che lettera morta nel corso dei decenni. Viene da sé che il compito di un’organizzazione comunista dev’essere allora quello di smascherare questi inganni e, per dirla con Marx, di trasformare quella che è una classe esistente in sé, in una classe cosciente, una classe per sé. Per questo dobbiamo contribuire a rendere attuale l’indirizzo politico della Resistenza e smascherare chi ci si nasconde dietro per pura, e misera, opportunità contingente. Il loro insegnamento è ancora attualissimo.

Emiliano Cervi e Giada Belfioreto

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