La lotta partigiana a Bologna e la Battaglia di Porta Lame
Il 7 novembre ricorre l’anniversario di una delle più grandi battaglie urbane fra gruppi partigiani e truppe regolari fra quelle combattute durante il periodo della Resistenza al nazifascismo in Italia e in Europa: la battaglia di Porta Lame a Bologna, nel 1944. In un periodo, il nostro, in cui il revisionismo filo-fascista in ambito storiografico è ai suoi massimi, laddove insigni accademici borghesi rivendicano dalle colonne dei principali giornali padronali (si veda, ad esempio, qui) le “cose buone” del regime mussoliniano, e le stesse istituzioni si impegnano in falsificazioni marchiane, con tanto di censura per chi prova a contraddirle [si veda, ad esempio, quanto successo alla casa editrice KappaVu, in merito alla vergognosa propaganda sulle foibe], diventa fondamentale per un antifascismo che sia realmente tale e militante mantenere viva la memoria sugli eventi più alti che la storia del nostro paese può vantare, cioè quelli legati alla Resistenza e alla lotta partigiana contro il fascismo.
Il contesto nel quale si svolgono i fatti che portarono alla battaglia del 7 novembre a Bologna, è quello dell’avanzata alleata attraverso l’Italia centro-settentrionale. Nello specifico durante quei momenti che videro il tentativo da parte anglo-americana di sfondare la cosiddetta Linea Gotica: la rete di fortificazioni difensive approntate dai tedeschi che divideva l’Italia all’altezza dell’Appenino tosco-emiliano aventi come due estremi Massa Carrara ad ovest e Pesaro ad est. Per comprendere pienamente l’importanza e la portata della battaglia di Porta Lame nel quadro della Resistenza bolognese e del generale movimento di liberazione nazionale, è necessario avere chiaro il contesto e la sequenza degli eventi che generarono quello scontro.
La situazione a Bologna all’indomani dell’8 settembre
A seguito dell’arresto di Mussolini, nel luglio del ’43 e la conseguente caduta del regime fascista sostituito da quello badogliano, con tutto il suo contorno di vicende drammatiche e vergognose che portarono all’armistizio dell’8 settembre (il passaggio della Germania nazista da alleato a regime occupante e la fuga del governo e del re da Roma a Brindisi), l’umore cittadino, a Bologna, passò ben presto dall’euforia di luglio allo sgomento di settembre. Durante le fasi finali del regime, nonostante la fame crescente e il serpeggiante malcontento operaio che emergeva a dispetto della pesante coltre repressiva, la situazione in città apparve relativamente gestibile per il nuovo regime d’occupazione. I fascisti, che da luglio a settembre erano pressoché spariti dalla circolazione, riemersero andando a ricoprire quegli spazi istituzionali e militari, incarnati nella Repubblica di Salò, che i nazisti tedeschi concedevano loro. A Bologna la situazione era quanto mai pressante. Snodo principale tra nord e centro Italia, la città emiliana fu tra i primi obiettivi che i tedeschi si affrettarono a rinforzare e presidiare. Ciò che rimaneva dell’esercito italiano era stato liquidato con estrema disinvoltura. Privi di un governo fuggiasco rintanato al meridione sotto la protezione angloamericana, i soldati italiani che decisero di non aderire al nuovo regime si trovarono di fronte al destino di darsi alla macchia nell’appennino o, come successe a molti, di finire nei campi di concentramento tedeschi. Il bilancio complessivo, tuttavia, non fu completamente negativo. Se metà penisola, da Roma in su, si trovava sotto il tallone di un regime occupante e del suo fantoccio repubblichino, lo smottamento provocato dalla caduta del regime fascista fornì nuova linfa all’opposizione popolare e alle organizzazioni partitiche antifasciste che, pur nella durezza della repressione, non erano mai state del tutto spazzate via. A Bologna, ad esempio, non di rado sotto il naso dei fascisti, già al principio del ’43, gli operai si agitavano e scioperavano – come i lavoratori della fonderia Calzoni o del maglificio Corni – istigati dal solito “sobillatore comunista”, che puntualmente costringeva la polizia fascista ad intervenire. All’indomani dell’8 settembre vi fu una rinnovata attività di opposizione operaia e, soprattutto, una rinnovata azione da parte dei partiti antifascisti che si sostanziò nella costituzione del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Quest’ultimo formalmente raccoglieva l’adesione di democristiani, liberali, azionisti, socialisti e comunisti. Subito, pertanto, si posero ai partiti politici, e alle loro sezioni locali, fondamentali imperativi organizzativi su come condurre la lotta partigiana contro il regime nazista d’occupazione e il fascismo repubblichino.
Le forze animatrici del CLN si ritrovarono ad agire anche a Bologna, pur con qualche leggera differenza rispetto alle altre realtà d’Italia. La situazione successiva all’arresto di Mussolini in luglio e la relativa libertà d’azione nel confusionario periodo badogliano, portò diversi partiti a riorganizzare strutture e militanti: il Partito Comunista Italiano fu quello che vi riuscì nella maniera più coerente e fruttuosa. In generale, pur tra divergenze e contraddizioni, comunisti, socialisti e azionisti tentavano già dall’agosto ’43 di operare di concerto in un “Fronte sindacale per la pace e la libertà”, che serviva principalmente ad intensificare l’azione di agitazione nelle fabbriche. Già dopo l’8 settembre e l’arresto delle truppe del Regio Esercito, vi furono riunioni d’emergenza fra PCI, socialisti e membri del Partito d’Azione sul da farsi e in generale si convenne che le azioni da intraprendere sul momento erano quelle di raccolta di armi nelle caserme, organizzazione delle bande armate di volontari e militari sbandati, sottrazione ai tedesche del maggior numero di derrate alimentari possibili e la distribuzione di questi fra i civili. La particolarità della situazione bolognese fu quella della totale assenza di liberali e democristiani alle decisioni dei primi nuclei resistenziali cittadini, assenza che perdurerà praticamente fino al 1944 inoltrato. Del resto questo non deve sorprendere troppo se si considera che la borghesia industriale, professionale e la piccola borghesia non presero alcuna posizione o iniziativa antitedesca se non soltanto nelle ultimissime battute della guerra, nel ’45, quando ormai la disfatta degli occupanti era un fatto chiaro a tutti.
Il nucleo del CLN bolognese, pertanto, si compose sin da subito con la prevalenza delle forze di sinistra in particolar modo i comunisti che, per una primissima fase, furono guidati da Arturo Colombi per poi successivamente attestarsi sotto la guida di Giuseppe Alberganti, segretario della federazione di Bologna, e Ilio Barontini entrambi passati dalla leggendaria accademia militare sovietica “M. Frunze”.
Il problema dell’organizzazione militare fu sin da subito evidente per tutti i partiti. È vero che diversi militanti avevano avuto esperienza bellica, chi nella Prima guerra mondiale, chi in Spagna, chi nel conflitto ancora in corso, ma un conto era la guerra tradizionale un altro era organizzare efficacemente la guerriglia sia nel territorio sia, soprattutto, in città. Uno dei pochi ad avere esperienza in merito era proprio Barontini visti i suoi numerosi trascorsi in Spagna contro Franco, in Abissinia presso le truppe locali contro i fascisti, in Cina in supporto dei guerriglieri comunisti cinesi di Mao e da ultimo in Francia dove aveva organizzato attivamente la resistenza francese. In ogni caso l’organizzazione dell’attività di guerriglia subì inizialmente il peso di una confusione generale di tutti i partiti che posticipò di qualche mese la creazione di formazioni efficaci che potessero operare attivamente nell’appennino e in pianura, ugualmente a quelle atte alla guerriglia in città. Eccezione degna di nota fu quella che portò alla nascita della Brigata partigiana “Stella Rossa” nelle zone di Monte Sole, tra i comuni di Marzabotto, Morandi etc., costituita già dal novembre ’43 da giovani del luogo a cui si aggiunsero ben presto altri elementi provenienti da Bologna e soldati sbandati pronti a combattere contro il nazifascismo. Questo gruppo, guidato da un ex carrista dell’esercito, Mario Musolesi “Lupo”, sin da subito si distinse per un’efficace guerriglia antinazista così come per significative azioni di sabotaggio. La Brigata “Stella Rossa” a sud di Bologna, infatti, controllava di fatto due linee ferroviarie e due strade tra Firenze e Bologna, riuscendo a creare non pochi danni agli occupanti. Gli stessi comunisti imolesi crearono dei gruppi armati nell’appennino tosco-emiliano che successivamente andranno a formare la 36a Brigata Garibaldi.
Mentre le azioni da mettere in atto nelle montagne dovevano essere quelle tipiche del “mordi e fuggi” con attacchi a convogli, reparti in movimento e sabotaggi delle linee viarie, per quanto riguarda le azioni urbane vi erano fra i partiti del CLN maggiori interrogativi. Vi era facilmente accordo per i sabotaggi, più discussione, invece, in merito al da farsi per quanto riguarda attentati contro tedeschi e fascisti, i quali nel frattempo avevano già annunciato rappresaglie. Mentre i dirigenti dei partiti si interrogavano, il 4 novembre del ’43, i fatti li prevennero spingendoli all’azione. Un gruppo di tre partigiani guidati da Vittorio Gombi, futuro vice-comandante gappista, lanciò una bomba contro un manipolo di soldati tedeschi nei pressi di via Monte Grappa, nel centro cittadino, causando il ferimento di alcuni militi. Il gesto, per così dire, autonomo, fu il primo di una lunga serie di atti contro le truppe tedesche che andò avanti per tutto dicembre ed ebbe il merito di accelerare l’elaborazione e messa in pratica, da parte del CLN bolognese, di una strategia per la guerriglia urbana. Un po’ alla volta tutti i CLN delle città italiane arrivarono alla difficile decisione, poiché foriera di rappresaglie e repressioni, dell’inevitabilità di attaccare e uccidere gli esponenti repubblichini e i soldati nazisti. L’uccisione, il 26 gennaio ’44, di Eugenio Facchini, segretario federale di Bologna del Partito Fascista Repubblicano, fu il battesimo di fuoco dei gappisti bolognesi.
L’organizzazione e le azioni delle forze partigiane bolognesi
Inizialmente, ovvero per i primi mesi del ’44, le operazioni urbane coinvolsero un numero ristretto di partigiani, divisi in pochi gruppi 4-5 elementi, e diedero realizzazione pratica di tutte quelle tattiche di sabotaggio e di giustizia popolare che erano state stabilite di concerto dalle forze del CLN per non lasciare tregua ai nazifascisti. La vera svolta che portò ad un deciso salto di qualità della lotta e dell’organizzazione militare stessa avvenne, però, a seguito del grande sciopero generale del 1° marzo del ’44. La classe operaia bolognese non aveva fatto mancare sin dall’inizio del novembre ’43 la propria agitazione contro l’occupante, tuttavia dalla microconflittualità permanente si passò ad un’azione più organica che tra l’altro si accordò con le azioni operaie di altre grandi città industriali, sintomo che l’organizzazione generale stava progredendo. A Bologna il 1° marzo, all’alba, una trentina di esplosioni su binari, linee tramviarie, depositi etc., diedero il segnale che i lavoratori dell’industria recepirono immediatamente. In alcune note redatte dalle autorità fasciste per Mussolini si legge di come migliaia di lavoratori dai tramvieri agli operai Ducati, e quelli di decine di aziende dell’hinterland bolognese, sobillati da “elementi comunisti” avessero scioperato in massa e riportati alla “quiete” solo dopo l’intervento delle truppe germaniche. Ma gli scioperi proseguirono per giorni, nonostante minacce e repressioni. Tutto ciò contribuì ancor di più a saldare il legame fra la classe operaia e i guerriglieri, anzi, non furono pochi i lavoratori che in occasione degli scioperi, per sfuggire ad arresti e deportazioni, ingrossarono le fila delle unità partigiane. È da queste premesse che i partiti antifascisti rinnovarono con maggior forza la propria azione. Proprio nel marzo del ’44 il PCI formò la Brigata 7a GAP Garibaldi, guidata da Massimo Meliconi “Gianni”, il quale, caduto in un’azione, diede il proprio nome di battaglia alla 7a stessa che fu tra le
protagoniste assolute della guerriglia urbana. Con l’andare dei mesi due fatti importanti del conflitto generale andarono ad influire nel quadro della guerra antifascista bolognese, spingendo sempre più i partiti a implementare le strutture di guerriglia per l’insurrezione. Il 6 giugno gli anglo-americani erano entrati a Roma e gli stessi alleati risalivano decisamente la penisola aumentando la pressione sui nazifascisti in ritirata. In agosto le forze partigiane riuscivano con successo a liberare Firenze con un’insurrezione e duri combattimenti prima ancora dell’entrata in città degli anglo-americani. Con la liberazione di Firenze, i tedeschi assestarono le proprie difese sulla cosiddetta Linea Gotica, pertanto sembrava imperativo per le forze alleate e per i partigiani entro le linee degli occupanti che essa dovesse essere spezzata per proseguire con la risalita e la liberazione. Questi avvenimenti e la possibilità concreta che, grazie alla spinta delle truppe alleate, lanciare l’insurrezione preventiva potesse portare alla vittoria decisero sempre più le forze del CLN cittadino verso la preparazione in vista dello scontro finale.
Le direttive del CLN-Alta Italia – nato in marzo del ’44 e dopo la liberazione di Roma organo coordinatore della lotta nel settentrione – erano quelle di prepararsi per l’insurrezione in vista dell’arrivo alleato e occupare preventivamente punti strategici. Lo stesso CLN-Alta Italia favorì, in luglio, l’unificazione dei comandi delle brigate partigiane operanti sia nella città di Bologna che fuori, con la creazione del Comando unico militare Emilia Romagna (CUMER) alla cui guida venne nominato il comunista Ilio Barontini. All’inizio dell’estate del ’44, le forze operanti in città fra i partiti aderenti alla lotta potevano contare poco più di 500 guerriglieri in stragrande maggioranza forniti dal PCI con i suoi ben 400 gappisti attivi. I partigiani erano armati con rivoltelle e bombe a mano, a parte qualche gappista della 7a in possesso di mitra ed esplosivi. A questi bisogna aggiungere anche i partigiani delle brigate di montagna e pianura che, pur con qualche reticenza ad abbandonare la lotta che nei mesi gli era venuta congeniale, sarebbero dovuti “scendere” in città una volta scattata l’ora dell’insurrezione. Per la guerriglia urbana, inoltre, erano state stabilite delle basi dove tenere armi, radio, dispositivi per la clandestinità come documenti falsi, abiti, etc., vi erano anche dei rifugi adibiti a “ospedali” dove trasportare e curare i feriti in azione. I rifornimenti erano garantiti dalle instancabili staffette ed essendo questi gruppi solitamente formati da 5-6 individui, è naturale che le basi proliferassero nel centro cittadino, sempre sotto il pressante rischio di essere scoperte in rastrellamenti a seguito di delazioni o durante operazioni di polizia. Fra le basi più importanti, teatro di significativi scontri, si ricordano quella all’Università, all’istituto di Geografia in via Zamboni, oppure tra le rovine dell’Ospedale Maggiore, in via di Riva Reno e negli edifici semi abbandonati del Macello Comunale in via Azzo Gardino, rifugio dei gappisti garibaldini della 7a, nei pressi dell’attuale Parco del Cavaticcio.
Dopo la liberazione di Firenze sembrava questione di giorni. Tutti erano pronti a scattare, tanto che perfino DC e PLI si unirono formalmente alla lotta (pur non avendo formazioni degne di nota) ed anch’essi approvarono i piani per l’insurrezione redatti dal CLN cittadino. Nel frattempo continuavano le operazioni di sabotaggio e guerriglia, sia in città che nei paesi limitrofi anch’essi naturalmente coinvolti nelle operazioni partigiane. Il 9 agosto vi fu la grande operazione contro il carcere di San Giovanni in Monte (oggi sede universitaria) condotta da una dozzina di gappisti che, travestiti da soldati tedeschi, riuscirono a penetrare nottetempo nell’edificio liquidando le guardie e restituendo la libertà a oltre 400 detenuti, molti dei quali detenuti politici utilizzati come carne da macello per le rappresaglie dei nazifascisti. Non ci si è soffermati particolarmente su questo punto per ragioni di brevità, ma è bene ricordare come le forze tedesche e repubblichine disponessero di notevoli strumenti repressivi. Oltre il qualche migliaio di membri della Guardia Nazionale Repubblicana, della Polizia fascista e dell’esercito occupante tedesco, vi erano le Brigate nere, formazioni guidate dai personaggi più spregevoli del partito fascista che spesso si abbandonavano ad atti di banditismo, come la “Banda Tartarotti”, nei confronti della popolazione civile presso la quale erano molto invisi, destando talvolta la preoccupazione dell’ala “moderata” del PFR. Con ogni probabilità la certezza dell’imminente insurrezione per i partigiani era condivisa, con sentimenti chiaramente opposti, dalle forze repubblichine, tanto che in una circolare segreta del 22 settembre il segretario del PFR e comandante delle Brigate nere, Alessandro Pavolini, cominciava a organizzare fra i suoi la ritirata verso Nord. Ad ogni buon conto, questo stato di cose di certo non rendeva meno allertate le forze nazifasciste che anzi rispondevano con brutalità e rastrellamenti ancor più violenti ad ogni azione di guerriglia partigiana. Mentre gli alleati muovevano sempre più lentamente verso Bologna sulla strada della Futa tra il settembre e l’ottobre del’44, proprio durante un’operazione di rastrellamento, il 20 ottobre, venne scoperta la base all’Università, provocando un durissimo scontro tra fascisti e la Brigata giellina 8a “Masia” la quale ebbe sei caduti.
La battaglia di Porta Lame
L’avanzata degli americani sulla direttrice Firenze-Bologna era giunta alla fine di ottobre nei pressi di Pianoro, poco a sud del capoluogo emiliano, mentre gli inglesi procedevano verso Rimini. Questa circostanza rese tutti convinti dell’imminente sfondamento delle linee nemiche e dunque, per i partigiani, l’ora dell’insurrezione sembrava giunta, tanto che alcuni membri delle brigate di montagna e pianura riuscirono ad affluire in città nonostante i nazifascisti avessero approntato stabilmente presidi agli ingressi urbani nella cosiddetta “Sperrzone” (Zona chiusa). I rombi dei cannoni si udivano alla periferia meridionale di Bologna quando i tedeschi, in previsione della ritirata, sistemavano la 16a Divisione SS Panzer Granadier sulla direttrice nord. Durante l’intensificarsi dei controlli e dei rastrellamenti, la mattina presto del 7 novembre Brigate nere e Feldgendarmeria tedesca, oltre a reparti d’assalto della polizia (diverse centinaia di uomini), scoprirono, per puro caso, la base del Macello di Via Azzo Gardino, rifugio di un reparto di 75 uomini della 7a GAP.
Erano le 5.30 del mattino. Immediatamente dai due edifici della base partirono le raffiche dei partigiani che fecero presto rendere conto ai nazifascisti di trovarsi di fronte ad un gruppo agguerrito e disposto a lottare senza remora alcuna. Dopo i primi scambi le partigiane Rina Pezzoli e Diana Sabbi vennero fatte uscire in perlustrazione per raccogliere informazioni ma vennero fermate dagli aggressori. Diversi furono i tentativi da parte dei fascisti di avere ragione dei difensori ma puntualmente vennero frustrati. A comandare i gappisti in via Azzo Gardino vi era Bruno Gualandi “Aldo” con Lino Michelini “William” come commissario politico. Dopo una fase interlocutoria i nazifascisti approntarono un piano articolato che avrebbe portato all’accerchiamento completo dei gappisti e verso le 10 del mattino fecero giungere l’artiglieria pesante. Un cannone Flak da 88mm e una mitragliatrice pesante iniziarono un fittissimo bombardamento che portò alla demolizione di uno dei due stabili. Nonostante l’armamento leggero e l’impari sproporzione di fuoco i partigiani resistettero ancora a lungo. Erano le 15.30 quando dal fronte i tedeschi fecero giungere un Panzer Tiger che iniziò il cannoneggiamento del secondo stabile.
Non c’era più tempo per indugiare oltre, di fronte ad un dispiegamento di quella portata con le munizioni che iniziavano a scarseggiare lo scontro stava iniziando ad assumere contorni drammatici. L’imperativo per i gappisti era quello di uscire da questa situazione di estrema difficoltà rompendo l’accerchiamento. Tanto più che durante alcune sortite quattro partigiani erano rimasti uccisi e altri feriti fra cui il comandante Gualandi. Michelini a questo punto iniziò a stabilire il piano per la rottura dell’accerchiamento: i gappisti si sarebbero divisi in tre squadre, la prima ad aprire la strada doveva essere armata così come l’ultima di retroguardia, al centro vi era il secondo gruppo che trasportava i compagni feriti. Lungo via Azzo Gardino scorreva il canale affluente del fiume Reno, il Cavaticcio, oggi quasi del tutto interrato, che si dipanava fino all’attuale via Marconi. Le tre squadre avrebbero dovuto necessariamente uscire dal cerchio stretto loro intorno risalendo quel canale, sulle cui sponde, in alto, però, erano appostati i repubblichini. Grazie ad un massiccio uso di fumogeni lanciati prima della sortita, una densa coltre di fumo mista alla semi oscurità riuscì a coprire il passaggio dei partigiani che riuscirono a risalire indenni il canale rompendo l’assedio e giungendo infine all’attuale piazza dei Martiri, dove ebbero facilmente ragione di un posto di blocco fascista, e quindi nuovamente si divisero.
Mentre i feriti venivano posti in salvo in apposite basi infermieristiche come quella del numero 77 dell’attuale via Andrea Costa, e gli altri raggiungevano vecchi rifugi, si consumava l’epilogo di uno dei più agguerriti scontri urbani della Resistenza. All’Ospedale Maggiore aveva la sua base la più grossa parte dei gappisti della 7a, costoro avuto contezza della grave situazione in corso uscirono allo scoperto in aiuto dei compagni che credevano ancora chiusi nella morsa dell’accerchiamento. Investirono, così, i nazifascisti che, nonostante i numeri, si dispersero consentendo addirittura ai gappisti di penetrare nelle rovine del Macello e constatare che i compagni erano riusciti ad evacuare la base prima del loro intervento. Il bilancio della battaglia di Porta Lame, così nominata giacché i fatti si svolsero proprio nelle vie adiacenti ad una delle porte dell’ex cinta muraria bolognese, fu di 15 morti per i resistenti, 19 per tedeschi e repubblichini. Il contributo militare delle azioni partigiane di guerriglia e sabotaggio fra le linee nemiche, di cui la battaglia di Porta Lame è perfetto esempio, fu enorme ai fini della vittoria sul nazifascismo e della liberazione d’Italia. Fatto, questo, molto spesso tenuto in ombra se non addirittura contestato dal generale movimento di revisionismo storico che ha come bersaglio la delegittimazione del movimento partigiano se non addirittura la sua criminalizzazione.
I sopravvissuti alla battaglia del 7 novembre, tuttavia, dovettero superare un’ulteriore prova una settimana più tardi. Sparpagliatisi fra le varie basi, una trentina di gappisti raggiunsero nella giornata dell’8 uno dei rifugi in zona Bolognina. I risvolti della battaglia di Porta Lame avevano rinforzato il dispiegamento delle forze repressive nazifasciste cosicché nella giornata del 15 verso mezzogiorno, la zona della Bolognina fu obiettivo di rastrellamenti, incluso lo stabile all’angolo fra Piazza dell’Unità e via Tibaldi dove si trovava la base gappista. Se attaccati i partigiani avrebbero dovuto tentare di uscire dal retro e raggiungere un altro rifugio poco più a nord, giacché fra di essi vi erano diversi feriti. I fascisti forzarono la porta e si videro investiti da una raffica di proiettili che piovvero giù anche dalle finestre per coprire la ritirata dei partigiani. Lo scontro durò circa un’ora e la maggior parte dei gappisti riuscì a raggiungere il luogo convenuto meno 5 che perirono nel tentativo di difendersi.
Il voltafaccia angloamericano e il proclama Alexander
Le forze del CLN bolognese, tuttavia, ricevettero un ancor più duro colpo nella giornata del 13 novembre. Convinti che la battaglia di pochi giorni prima rappresentasse il preludio dell’insurrezione generale e dell’entrata in campo delle truppe anglo-americane, i partigiani appresero con estremo sgomento il proclama che il feldmaresciallo britannico Harold Alexander aveva diramato per radio a tutte le forze della Resistenza: l’avanzata estiva si era conclusa, i patrioti avrebbero dovuto cessare ogni attività per prepararsi alle fasi successive del conflitto a data da destinarsi. Fu una batosta tremenda per tutti coloro che credevano di essere ad un passo dall’obiettivo che con così tante sofferenze avevano perseguito per tutta l’estate e l’autunno del ’44. Le ragioni della decisione anglo-americana risiedevano su diverse valutazioni. Dal punto di vista militare, benché l’avanzata della campagna italiana stesse procedendo positivamente – e c’era chi, fra i comandi inglesi avrebbe voluto continuarla per anticipare la liberazione di Vienna prima dell’arrivo dell’Armata Rossa – si rendeva necessario l’impiego massiccio di risorse per proseguire l’avanzata nel nord del continente. Nel luglio del ’44, infatti, vi era stato lo sbarco in Normandia che avrebbe così relegato il fronte italiano ad importanza secondaria. Dal punto di vista politico, i successi che la Resistenza stava ottenendo, e soprattutto le formazioni garibaldine del PCI che ne erano il nerbo, spingeva gli anglo-americani a non affrettarsi per non dare eccessivo slancio, come era stato per Firenze, all’iniziativa dei comunisti che, inevitabilmente, avrebbero accresciuto ancora di più il già grande prestigio che godevano fra le masse grazie all’enorme impegno e sprezzo del pericolo dimostrato nella guerra partigiana. Ad onta della certezza di essere ormai stati scacciati dal cuore dell’Emilia, i nazifascisti, grazie all’arresto delle operazioni anglo-americane, guadagnarono mesi preziosi dove poterono rinforzare le proprie posizioni e moltiplicare le operazioni di repressione. Il proclama Alexander arrivò d’improvviso e colse di sorpresa tutti, perfino il CUMER, suscitando la comprensibile rabbia di Barontini e di tutta la dirigenza comunista del CLN che più di tutti aveva spinto in direzione dell’insurrezione popolare. Questa venne rimandata alla primavera successiva e si sostanziò in aprile, quando, giorno 21, Bologna venne finalmente liberata.
Fabrizio Fornaro
Bibliografia e sitografia di riferimento
- Nazario S. Onofri, Bologna Combatte (1940-1945), Sapere2000 edizioni, Bologna, 2003
- AA.VV., Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese, Istituto per la storia della Resistenza “L. Borgonzini”, Bologna, 2005
- https://www.bibliotecasalaborsa.it/home.php
- https://www.storiaemoriadibologna.it/
- https://www.istitutoparri.eu/