Germano Nicolini, la vita del “Diavolo”
La sera del 24 ottobre a Correggio si è spento il partigiano Germano Nicolini. Ne ripercorreremo qui la storia attingendo anche alle parole dello stesso “Diavolo”, pronunciate nel corso di un’intervista rilasciata proprio a chi scrive qualche anno fa.
Germano nasce a Fabbrico in provincia di Reggio Emilia il 26 novembre 1919 in una famiglia di contadini benestanti. Dopo gli studi superiori viene chiamato alle armi nel Corso Ufficiali 3° Reggimento carristi Bologna. I tre anni successivi alla entrata in guerra del fascismo nel 1940 sono una tappa fondamentale del percorso che lo porterà alla strenua opposizione al fascismo. Dalle sue parole scopriamo che fu l’esperienza materiale – “i disastrosi rovesci militari su tutti i fronti, le nostre più grandi città distrutte o semidistrutte dai terrificanti bombardamenti aerei angloamericani, povertà, miseria e fame ormai generalizzate, i lavoratori delle grandi fabbriche che incrociano le braccia e richiedono più salario, più pane e fine della guerra” – a motivarlo definitivamente. Con l’8 settembre 1943 aderisce alla Resistenza per poi diventare comandante del 3° Battaglione SAP della 77^ Brigata “Fratelli Manfredi”, con tre differenti nomi di battaglia, prima “Demos”, poi “Giorgio” ed infine “Diavolo”, “Al Dievel” in dialetto reggiano. Partecipa alle battaglie di Fabbrico e di Fosdondo riportando due ferite.
“Vi parlo della battaglia di Fosdondo per la parte che riguarda un eroe, Pippo Morselli, partigiano che ha salvato la mia vita ma ha sacrificato la sua. Proposto per la medaglia d’oro, gli è stata concessa alla memoria quella d’argento. Si combatteva da circa mezz’ora e a distanza ravvicinata, ma i fascisti erano centinaia e non riuscivamo più a contenerne l’avanzata. Io avevo la spalla lussata e non ero più in grado di utilizzare il mitra. Mi restavano due bombe a manico lungo e la rivoltella. Pippo era appostato nella carraia in dirittura del filare degli alberi, ad una trentina di metri da me. Quando io diedi l’ordine di ritirarci dietro l’argine della ferrovia ed indietreggiavo piegato su me stesso per il trauma alla spalla lussata, Pippo capì che non ce l’avrei fatta; rimase fermo nella sua postazione e, col fuoco ininterrotto del suo mitra e il lancio di bombe, frenò lo slancio dei brigatisti neri, permettendo a me di raggiungere l’argine e mettermi in salvo. Rimasto senza munizioni, i fascisti, cui aveva gridato in faccia “vigliacchi repubblichini” per l’inganno del travestimento[1], lo freddarono rabbiosamente. È un eroe che tengo sempre nel cuore”.
Dopo la Liberazione, all’età di ventisette anni, viene nominato sindaco di Correggio. Accusato dell’omicidio del parroco di San Martino, don Umberto Pessina, “Diavolo” è tratto in arresto il 13 marzo 1947 e condannato, il successivo 27 febbraio 1949, a ventidue anni di reclusione per un delitto mai commesso. Perde ogni diritto, compreso quello alla pensione di guerra e gli viene negata la medaglia d’argento al valor militare per la quale era stato proposto. Scontati dieci anni di carcere, ritorna libero e diventa dirigente del movimento cooperativo. L’8 giugno 1994, dopo 45 anni di sofferenza ed umiliazione, la Corte di Appello di Perugia riconosce la completa innocenza di Germano Nicolini, assolvendolo con formula piena da una evidente macchinazione politico-giudiziaria, finalizzata a colpire il giovane sindaco comunista del paese, con lo scopo di colpire tutta l’Emilia rossa, come scriverà la giornalista Maria Livia Sereni nella rivista Omnibus. Così recita testuale la sentenza dell’8 giugno 1994: “le indagini di polizia sono state condotte con metodi non del tutto ortodossi”, evidenziando “lacune ed insufficienze istruttorie” accompagnate ad “iniziative del clero locale al limite dell’interferenza ed interventi di autorità non istituzionali e comunque processualmente non competenti”, atti finalizzati ad “una sorta di ricerca del colpevole a tutti i costi”. Le parole di questa sentenza fanno il paio con vicende giudiziarie simili che investirono tanti protagonisti della Resistenza negli anni immediatamente successivi al 25 aprile 1945, si pensi a Moranino o a Egidio Baraldi, solo per citarne alcuni. Uno Stato, che decide di non fare i conti fino in fondo col fascismo, con tanti fascisti che uscivano di galera o tornavano ai loro posti nelle questure, nelle prefetture, nei tribunali, si dimostra solerte nella liquidazione giudiziaria di tanti animatori del movimento resistenziale. Insomma, chi meglio di un “Diavolo”? Diavolo di nome e di fatto, autore dell’omicidio di un prete: “ingredienti” assai ghiotti per orchestrare un processo farsa, come quelli durante il fascismo, con cui demonizzare ancora una volta i comunisti.
Per raccontare Germano Nicolini probabilmente non basterebbero gli stessi anni che avrebbe compiuto il prossimo 26 novembre. Una storia lunga 101 anni, senza ombra di dubbio vissuti con la tempra da partigiano. Ciò che “Al Dievel” lascia è un formidabile esempio, un giovane che spinto da una situazione drammatica sceglie di agire dalla parte degli oppressi fino a pagare con la libertà il costo di false accuse.
La vicenda del comandante Diavolo parla al presente e ci chiama tutti al senso delle responsabilità, senza vie di mezzo o scorciatoie, il prezzo della libertà e della giustizia è questo, il più delle volte drammaticamente difficile e per nulla scontato.
Alessandro Fontanesi
Note
(note storiche e riferimenti autobiografici sono tratti dalla intervista rilasciata da Germano Nicolini ad Alessandro e Denis Fontanesi, autori di “Volti di Libertà”, Edizioni Bertani)
[1] i brigatisti erano vestiti alla partigiana e venivano avanti gridando “Diavolo, non sparare”.